Metamorfosi delle cose, dunque, materialisticamente intesa, si direbbe, questa di Prete: delle cose che proprio in virtù di tale trasformazione continuano, seppure mutate, ad esistere. Qui Prete sembra stabilire, ancora una volta materialisticamente, una sorta di analogia tra il fare, il produrre della natura, e quello del poeta. La parola poetica ricrea, appunto, come la natura, la materia: la trasforma: dà ad essa, volta a volta, quella forma in cui sola, essa può “durare”. Ed è per questo che, in essa, “qualche volta” una nuvola si muta in animale, o sulle ali di una farfalla si delinea la figura d’una rosa: immagini, metamorfosi, che alludono (o sembra) ad un legame: parvenze, appunto, che disegnano una possibile trama comune, condivisa. E insieme una loro continuità.
Ma non è appunto quanto opera, in segreto, la poesia, la sua discreta quanto ostinata opposizione al nulla – con le sue analogie, le sue trame, le sue tessiture segrete di senso, di sensi, di rapporti e baudelairiane “corrispondenze” tra viventi – raccolti, perciò, e per così dire “unificati”, in un unico, infinito, respiro – quello della vita – che la Poesia, tuttavia, e la bellezza, “cosmicizzano”?
Perciò, se è proprio in questo perenne fissarsi e insieme mutarsi di ciò che è (poeticamente) cantato, che può forse persistere e “durare” il “sogno” della poesia – d’altra parte, però, questa metamorfosi implica anch’essa un perdersi delle cose stesse, un loro smaterializzarsi in mutevoli, fuggevoli, “estetiche” parvenze: sola trama, sola, ancorché fragile, “vita”, che la poesia può assicurare loro: fragile, eppure irrinunciabile: come quel sorriso, quella luce che, nell’ombra (luce velata nella “nube”; luce tremante, pulviscolare; luce – ma fatta vapore – lunare), accenni a un possibile senso del Tutto.
Ma qui Prete, nel più leopardiano dei modi, non conclude, bensì “riapre” il discorso. Tutto questo, egli sembra dirci, potrebbe non essere che un “sogno”, una – letterale – “visione”: il sogno di una metamorfosi: di una mera metamorfosi d’immagini, raccolte sì, e come custodite, nel seno della parola poetica – la sola, del resto, in grado di conferir loro unità, senso: di assumere, e riassumere, il vivente, i viventi, nell’onda del suo respiro in-finito; eppure incapace (forse) di “garantire” loro davvero una “durata” nella finitezza: il loro consistere, e insieme resistere, a quel nulla, a quel silenzio cui la parola (che nel silenzio abita) come la materia al vuoto che la assedia, dice Prete, significativamente accostando i due termini: parola e materia – tentano opporsi.
Dove, appunto, lungi dal delineare una sorta di ontologia linguistica, Prete sembra concepire la parola (poetica) anch’essa come “materia” (se materiale, leopardianamente, è quel vivente cui esso vorrebbe dar voce): una parola che cerca perciò, nel silenzio in cui abita, di pronunciare (di scavare, si direbbe ungarettianamente, nell’abisso), di scrivere, per cosí dire – ma ancorata a quel “vivente” – il suo diverso “sogno”… Un sogno non solo linguistico, metamorfico: il sogno di una lingua che non trami la vita, ma che ne sia tramata: che ci ripari dunque davvero dal vuoto, dal nulla; che ci “parli” della vita, della vita finita: del suo desiderio di vivere, e durare, e consistere. Una lingua in cui non si concreti alcuna ontologia “essenziale”, ma che si radichi piuttosto, intera, nell’esistenza: in quel suo fuggire e insieme in quel suo leopardiano, affermativo e vitale desiderare, che ne costituisce il più vero “infinito”. Alla ontologizzazione della parola, Prete sembra opporre qui dunque leopardianamente la possibilità, la ricerca di una lingua (la lingua della poesia) che sappia tramarsi, abitandola, entro tutta l’umana, la concreta materialità della nostra finitudine. Una poesia che non sogna più il “sogno” che nulla muoia davvero, ma che della morte, del morire, di questo perenne dileguare che è la vita, sappia, se non, certo, dire e custodire, almeno evocare, alludendovi, un possibile “senso”.