Allora: c’era una volta Carosello. Cominciò che gli anni Cinquanta andavano a finire. Il 3 di febbraio del Cinquantasette. Pochi mesi prima era affondata l’Andrea D’Oria, speronata dalla Stockholm: 54 morti. Un chilo di pane costava 135 lire. A Marcinelle erano morti 139 minatori italiani. Un litro d’olio 810. Per il biglietto del cinema servivano 200 lire. La Fiat aveva smesso di produrre la Topolino e messo in commercio la Seicento che costava seicentomila lire.
Sono passati sessantasette anni. Certi giorni sembrano tanti. Certi giorni sembrano niente. Sembrano solo sessantasette istanti. Flash abbaglianti di una macchina fotografica. Una passeggiata distratta sotto la luminaria della festa. Qualcuno si è perso mentre passeggiava. Come Zazà nella canzone di Gabriella Ferri: che si perde mentre la banda di Pignataro suonava il Parsifallo e il maestro sul piedistallo ci faceva delizia’.
Si cresceva a giochi per la strada, e anche a botte per la strada, che comunque erano sempre giochi.
Era il tempo di un Paese che ricostruiva sulle macerie, che apriva le fabbriche, che credeva nell’istruzione. La nostalgia non è una bella cosa, ma accade che di quel tempo e di quel Paese adesso, di tanto in tanto, si provi nostalgia.
Carosello è un simbolo di quegli anni. Un simbolo anche delle illusioni. Ci diceva che in fondo bastava una lavata con un detersivo perché ciascuno di noi diventasse pulito. Perché tutto il mondo diventasse pulito. C’era Cimabue che faceva una cosa e ne sbagliava due; c’era Carmencita con il suo cavaliere misterioso, l’uomo in ammollo e il tenente Sheridan che sorseggiava il biancosarti, l’uccellaccio cattivo con un cappello rosso in testa che diceva: e che, c’ho scritto Jo Condor? e il gigante buono, Miguel son sempre mi e la biondazza che sussurrava chiamami Peroni, sarò la tua birra; c’era Ernesto Calindri seduto al suo tavolino in mezzo al traffico che beveva Cynar contro il logorio della vita moderna.
A quel tempo l’Italia di divideva in due emisferi: quello prima e quello dopo Carosello. Il programma era la terra di transito da un emisfero all’altro. La pubblicità era come una promessa di benessere e di serenità che si ripeteva ogni sera dal lunedì al venerdì, alle nove meno dieci, escluso il venerdì santo e il 2 novembre.
Poi venne il tempo dell’austerità.
Il 23 novembre del Settantatrè, alla fine di una seduta durata fino a notte fonda, il governo Rumor varò il decreto austerity.
In televisione Mariano Rumor disse: stiamo entrando in un inverno difficile, freddo.
Allora furono domeniche senz’auto, città con le luci oscurate, locali chiusi alle undici della sera, neon di bar e locali spenti. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone, per andare in piazza di Spagna, ad assistere alla cerimonia dell’Immacolata, si fece portare da una carrozza a cavalli.
Il telegiornale fu anticipato alle otto. Carosello alle otto e mezzo.
In tutta la sua storia, il programma venne sospeso soltanto per la morte di papa Giovanni XXIII , per quella di papa Pio XII, e quando furono uccisi John e Robert Kennedy.
Carosello finì il primo di gennaio del Settantasette.
Erano anni di chiaroscuro, di soglia, di confine, una stagione di passaggio, un’estremità, un varco, una linea d’ombra tra ambiguità e confusione, tra verità e menzogna, coerenze e contraddizioni, tra ragioni e passioni, illusioni e delusioni, contrasti, contrari, contrapposizioni, incomprensioni.
Come sia stato davvero quel tempo, forse lo ha detto Charles Dickens nell’ incipit delle “Due città”, nel 1859: era il peggiore dei tempi, era il migliore dei tempi, era l’ora della rovina, era l’età dell’abbondanza, era l’epoca dell’incredulità, era l’epoca della fede, era la stagione della luce, era la stagione del buio, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, avevamo tutto davanti a noi, non avevamo nulla davanti a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte.
Dopo la prevalenza del “politico”, cominciava a manifestarsi quel desiderio, quel bisogno di privato che poi maturò negli anni successivi, quando l’Italia volle un poco spensierarsi, confrontarsi con i minimi sistemi della vita quotidiana, lasciarsi coinvolgere, travolgere dall’entusiasmo e anche dell’euforia.
Collettivo. Politico. Personale. Privato. Per capire che cosa significano queste parole è a quegli anni che bisogna ritornare: a quegli anni di crisi, collettiva e privata. A quegli anni di traumi, collettivi e privati. Alla stagione che cambiava. Intanto John Travolta era diventato l’idolo dell’allegra gioventù e il travoltismo una sintesi che rappresentava lo spirito del tempo.
Gli anni Settanta non finirono alla mezzanotte del 31 dicembre del Settantanove. Finirono un giorno di maggio, il nove di maggio del Settantotto, il pomeriggio intorno alle due. Quando si trovò una Renault 4 rossa parcheggiata in una strada di Roma. Nel bagagliaio c’era il corpo di un uomo rannicchiato sotto una coperta, con undici proiettili nel cuore. Si chiamava Aldo Moro.
Gli anni Settanta si spensero quel giorno a quell’ora.
Nei vent’ anni che durò Carosello, l’Italia cambiò completamente. E’ cambiata ancora, nei poco meno dei cinquanta che sono venuti. Se sia cambiata in meglio o in peggio è difficile dire. Forse un poco in meglio e un poco in peggio. Come accade per tutto, in ogni tempo.
Sono passati sessantasette anni da quando cominciò Carosello. Sessantasette anni sembrano tanti, sembrano proprio tanti. Ma passano in fretta. Sono passati, come cavalli sbrigliati sulla pianura.
Quando dopo Carosello tutti i bambini andavano a nanna, quelli più ingenui pensavano che fosse proprio vero, che bastasse una lavata con l’Ava Mira Lanza. Quei bambini ingenui allora sono rimasti ingenui anche ora che portano sulle spalle il privilegio di un’età che va dai cinquanta in su, e pensano ancora che sia vero, che non ci voglia poi tanto perché diventi tutto bianco, nitido, pulito. Poi ci sono gli altri che dicono che costoro non hanno capito: niente. Ma gli ingenui invece si ostinano a credere a quello che diceva il pulcino nero, e quando vanno a nanna, anche se non è dopo Carosello, anche se ci vanno a notte alta, chiudono gli occhi e vedono che tutto intorno è bianco, pulito, lindo. Quando poi al mattino si accorgono che non è così, allora dicono come diceva Calimero: eh, che maniere. Qui fanno sempre così perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero. Ma è un’ingiustizia, però.
Nel 2013, la Rai decise di riproporre, in via sperimentale, il format di Carosello. Però non era la stessa cosa. Non era lo stesso tempo. I bambini non erano gli stessi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 6 ottobre 2024]