Va da sé che una P.A. che opera in queste condizioni non agevola la crescita economica, per diverse ragioni, fra le quali: ostacola l’iniziativa privata e disincentiva l’attrazione di investimenti; rende difficile il raggiungimento degli obiettivi del PNRR; tiene bassa l’occupazione, soprattutto giovanile e soprattutto nel Mezzogiorno (dove ha tradizionalmente costituito un importante sbocco occupazionale per i giovani); produce deterioramento del capitale pubblico (istruzione, sanità, trasporti).A fronte di questa evidenza, e a fronte dell’elevata disoccupazione giovanile in Italia e ancora i più nel Mezzogiorno, il Governo Meloni propone una misura del tutto contro-intuitiva, soprattutto perché viene realizzata in piena transizione digitale, ovvero aumentare a 70 anni l’età di pensionamento dei dipendenti pubblici. Si osservi che benefici macroeconomici del blocco delle assunzioni – ovvero i risparmi che lo Stato italiano realizza – sono, di norma, inferiori ai costi che derivano dalla riduzione del tasso di crescita e dal calo del gettito fiscale che conseguono a questa manovra.
Il recente sblocco del turnover (nel 2019) non ha modificato in modo apprezzabile questo scenario. Il DPCM del Governo Meloni del gennaio 2024 prevede 6500 assunzioni. Le stime effettuate dalla CGIL e da ricercatori universitari (https://sbilanciamoci.info/keynesian-proposal-for…/) forniscono la stima di un fabbisogno di circa 600.000 unità aggiuntive, proponendo un programma straordinario di ampliamento dell’organico finanziato attraverso un’imposta di scopo sulle ricchezze finanziarie più elevate. Un problema nel problema, nel caso soprattutto del Mezzogiorno e della Puglia, è costituito dall’elevata frammentazione istituzionale del settore pubblico. Abbiamo, cioè, troppi comuni e troppo piccoli. Ma, al tempo stesso, disponiamo di una normativa che, se fosse adeguatamente presa in considerazione e attuata anche con l’obbligo della fusione, potrebbe almeno parzialmente attenuare il problema.
La fusione di comuni è il processo mediante il quale due o più comuni si uniscono per formare un nuovo ente locale territoriale anche se l’ordinamento prevede anche la fusione per incorporazione in un comune contiguo, prevista dalla L. n. 56/2024, art. 1, comma 130 che non istituisce un nuovo comune, ma amplia l’ente locale incorporante che conserva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al comune incorporato, con la conseguenza che gli organi di quest’ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Se solo come esempio restringiamo lo sguardo alla Puglia, soffermandoci sulle unioni di comuni osserviamo che esse per molti versi segnano il passo dimostrandosi inefficaci, non avendo, come già detto, conseguito l’obiettivo legislativo di svolgimento di tutte le funzioni comunali fondamentali in forma associata. Di contro, l’istituto della fusione appare essere ancora una mera espressione verbale, essendo stato istituito nel territorio pugliese un solo comune in forma aggregata, Presicce-Acquarica (LE) di 9.215 abitanti, nato dalla fusione dei preesistenti comuni di Presicce e Acquarica del Capo, con legge regionale n. 2, del 22 febbraio 2019, consentendo la riduzione del numero dei comuni pugliesi di un’unità, passando da 258 a 257 comuni. Poca roba beninteso, confrontando le fusioni che sono state realizzate nel corso degli anni in Lombardia (33), Trentino-Alto Adige (29), Piemonte (21), Veneto (15), Toscana (14), Emilia-Romagna (13), Marche (, Friuli Venezia Giulia (5), Calabria (2), Abruzzo (1), Liguria (1), Campania (1), registrandosi un risultato peggiore di quello pugliese solo nelle Regioni Basilicata, Sardegna, Sicilia, Lazio, Umbria, Valle d’Aosta e Molise con zero fusioni di comuni. Eppure la fusione di comuni può ottimizzare la gestione delle risorse, migliorare l’efficienza e l’economicità dei servizi pubblici, ridurre i costi amministrativi in generale. Più in dettaglio la riduzione dei costi amministrativi avviene grazie all’unificazione delle strutture amministrative, l’eliminazione della duplicazione degli uffici comunali che comporta la riduzione delle spese per il personale. Il miglioramento dei servizi pubblici avviene grazie al conseguimento delle economie di scala che la politica aggregativa comunale comporta.
La fusione di comuni, inoltre, consente un maggiore accesso ai finanziamenti pubblici – ad esempio ai fondi derivanti dal PNRR – una più efficace capacità decisionale e tende a generare semplificazione delle procedure amministrative. La teoria economica e l’esperienza amministrativa stabiliscono, infatti, a riguardo, un principio di ordine generale: il grado di divisione del lavoro, e dunque la specializzazione dei lavoratori, aumenta all’aumentare delle dimensioni dell’unità produttiva: principio che ovviamente vale anche per gli Enti locali. La fusione di comuni comporta una migliore competitività territoriale derivante dal maggiore peso politico che il comune fuso, divenuto più grande di quelli singolarmente preesistenti alla fusione comporta e consente di ottenere gli incentivi finanziari che per i comuni al di sotto dei diecimila abitanti ammontano ad un massimo di due milioni di euro annui e per quindici anni, mentre per i comuni che hanno più di diecimila abitanti assommano ad un massimo di dieci milioni di euro annui e per quindici anni. Il tutto oltre alle risorse finanziarie per la fusione che le diverse regioni mettono a disposizione annualmente a valere sui propri bilanci. In altri termini, la fusione di comuni da un lato consente risparmi di spesa pubblica e dall’altro di ottenere cospicui contributi finanziari senza vincolo di destinazione e senza obbligo di rendicontazione delle spese effettuate. L’assenza del vincolo di destinazione consentirebbe di rendere di fatto operativo lo sblocco del turnover, potenziando, su base locale, i servizi offerti dalla P.A., generando effetti a cascata tutti potenzialmente virtuosi: l’aumento dell’occupazione soprattutto giovanile in loco, il miglioramento dei servizi a beneficio dei residenti, il miglioramento della governance territoriale a beneficio delle imprese, per esempio per quanto attiene alla rapidità delle procedure, contribuendo, in tal modo, ad accelerare lo sviluppo locale.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” de 2 ottobre 2024]