Ragioni di una traduzione
«Nei primi giorni di giugno [scil. dell’anno 1843] Hölderlin
scrive quella che si ritiene sia la sua ultima poesia» Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin. Cronaca
di una vita abitante 1806-1843 (Giulio Einaudi Editore, Torino
2021, p. 198) – e rimando all’intero libro (illuminante) di Agamben sugli anni
della “follia” del poeta svevo “rinchiuso” nella torre a Tubinga, libro che,
facendo finalmente piazza pulita dei cascami e degli equivoci psicologizzanti e
psichiatrici affastellati intorno alle vicende di quei 37 anni, aiuta a
riconsiderare anche i testi in versi composti in quello stesso periodo di
tempo.
La veduta può essere,
allora, sì quella dalla torre appartenuta al falegname Zimmer, ma anche sguardo
posato sul destino umano che appunto è vita
abitante, vale a dire vita che sta nel mondo subendone le
affezioni, che non è padrona del mondo e che accetta i propri limiti, le
proprie mediocrità e fallimenti.
La bellezza si dispiega così in un canto sommesso che, all’apparenza, ripete sé
stesso (sono numerosi i testi composti negli ultimi decenni di vita del poeta
dedicati alle stagioni, stilisticamente e contenutisticamente molto diversi da
quelli della fase precedente), ma è canto affine alla vita abitante che ripete
sé stessa nelle proprie abitudini quotidiane.
Accade così che la “Ferne” (la lontananza – vocabolo e concetto tra i decisivi
del Romanticismo tedesco) sia la distanza tra il poeta che osserva dalla
finestra della sua stanza o dal giardino ai piedi della torre e gli alberi, i
campi, le vigne intorno a Tubinga, ma anche il luogo-tempo verso cui
s’incammina il vivere e che l’autunno, stagione della vendemmia, serbi in sé e
rechi con sé l’estate, la stagione necessaria a che si avviino a maturazione i
frutti che danno il colore all’autunno.
Perfezione (“Vollkommenheit”, etimologicamente il “giungere alla propria
pienezza”) non è, dunque, attuazione di una vita eroica o eccezionale, ma il
cerchio delle vite abitanti che si aprono e si chiudono, che hanno
consapevolezza del cielo inarcato su di loro e della sua incolmabile distanza –
e gli esseri umani sono alberi incoronati dalla fioritura, vale a dire vite
terrestri appartenenti alla terra e ai suoi cicli, al coesistere di esistenze
transeunti e di realtà di gran lunga più durature.
Poetare intorno alle stagioni e alla natura non fu, nei decenni della
“reclusione”, lo spegnersi dell’empito poetico che aveva infiammato gli anni
precedenti, ma il riconoscimento e l’accettazione, anche nella scrittura, della
propria vita abitante e scegliere di firmarsi “Scardanelli” (uno tra gli
pseudonimi adottati da Hölderlin) fu il modo per affermare la definitiva
distanza da colui che aveva composto l’Iperione
e gli Inni,
non il segno ulteriore di una supposta pazzia.