Uno studio recente di Ugo Marani rileva empiricamente che il ruolo internazionale dell’euro si è, invece, costantemente ridotto a partire dalla sua introduzione. Il dollaro USA è ancora la valuta più utilizzata negli scambi internazionali. I titoli di Stato statunitensi sono per i mercati finanziari attivi sicuri (safe assets). Questi titoli sono domandati per la gran parte delle transazioni su scala internazionale (petrolio in primis) e costituiscono il riferimento per il valore dei titoli sovrani degli altri Stati e dei titoli azionari e obbligazionari scambiati nella quasi totalità delle borse mondiali. In altri termini, il privilegio esorbitante consente agli USA il controllo del commercio globale e della finanza internazionale e la circolazione monetaria della loro valuta è resa possibile dall’ampio e persistente disavanzo delle loro partite correnti Al tempo stesso, è cresciuta la quota degli scambi internazionali realizzate in valute diverse da dollaro e da euro. È sufficiente ricordare che, nel 2011, il dollaro costituiva il 73% del totale delle riserve detenute dalle Banca centrali; oggi questa quota si è ridotta al 60%. Parallelamente, dagli anni Cinquanta a oggi, il contributo degli USA al Pil globale si è dimezzato, attestandosi al 20% circa. A ciò si può aggiungere che i Paesi del gruppo cosiddetto BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), dallo scorso anno, hanno programmato la produzione di una valuta comune, denominata R5 (real brasiliano, rublo russo, rupia indiana, renminbi cinese e rand sudafricano). Gli scambi commerciali fra Russia e Cina, in seguito alle sanzioni imposte alla Russia, avvengono solo nelle loro valute nazionali. In più, i Paesi appartenenti alla macro-area dell’ASEAN – l’associazione delle nazioni del sud est asiatico, che include le principali economie emergenti al mondo – hanno programmato la progressiva sostituzione della valuta statunitense. Questi dati, uniti alla considerazione che l’egemonia di una sola valuta negli scambi internazionali contribuisce a generare squilibri commerciali globali, possono suggerire che la guerra in Ucraina risponde anche all’obiettivo di preservare il privilegio del dollaro come moneta mondiale, in una fase nella quale è in aumento il numero di transazioni internazionali effettuate in valute diverse dal dollaro (e dall’euro). In altri termini, è solo mediante la difesa del dollaro come valuta internazionale che si rende possibile, per gli statunitensi, garantirsi l’American Way of Life, basato sull’elevata propensione al consumo e, in alcune fasi, come quella che ha preceduto e in larga misura causato la crisi finanziaria globale del 2008, il consumo a debito, ovvero il “vivere al di sopra delle proprie possibilità”. Un esempio degli squilibri generati dall’esorbitante privilegio del dollaro è costituito dai suoi effetti – tramite la difesa militare e politica di questo privilegio – sulle fasce più deboli della popolazione e nelle aree periferiche, a partire dal Mezzogiorno. Vediamoli con ordine, schematicamente. 1) La riduzione dell’offerta di gas, derivante dalle contromisure russe alle sanzioni occidentali e principale responsabile dell’aumento del tasso di inflazione nel biennio 2022-2024, ha penalizzato soprattutto le famiglie povere, localizzate soprattutto nel Mezzogiorno, a causa della maggiore incidenza delle spese per l’accesso a servizi pubblici essenziali (ci si riferisce all’aumento dei costi energetici) e per l’acquisto di beni alimentari in rapporto al loro reddito monetario. 2) L’aumento dei tassi di interesse da parte della BCE – finalizzato a contrastare l’inflazione – ha anch’esso penalizzato soprattutto gli individui con redditi più bassi – o residenti nelle aree più povere del Paese, nel caso italiano – per l’aumento del costo dei mutui. 3) I percettori di redditi bassi e fissi pagano maggiormente l’aumento delle spese militari (da portare almeno 2% del Pil secondo gli accordi NATO di Vilnius del luglio 2023), dal momento che esso implica minore spesa pubblica soprattutto per i servizi di Welfare (istruzione, sanità, trasporti). Ciò vale soprattutto per i Paesi europei con più elevato debito pubblico (Italia inclusa), stando al nuovo Patto di Stabilità e Crescita e soprattutto per le aree del Paese, quelle con Pil pro capite più basso, nelle quali è minore la dotazione di capitale pubblico.
Vi è poi un’ultima considerazione di carattere generale, che riguarda l’economia italiana nel suo complesso. Come è noto, la nostra economia è un’economia di trasformazione, sostanzialmente priva di materie prime, che deve quindi pagare le importazioni con un flusso adeguato di esportazioni. Se, a causa dei conflitti su scala globale, il costo dell’energia aumenta, e quella importata non è facilmente sostituibile con fonti alternative (come nel caso italiano), le imprese tendono a rispondere moderando le dinamiche salariali o aumentando l’intensità del lavoro, per preservare la loro competitività di prezzo nei mercati internazionali.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 30 settembre 2024 ]