Quanto ci costa l’egemonia monetaria degli USA?

di Guglielmo Forges Davanzati

La gran parte dei commenti del Piano Draghi si è concentrata sul tema – rilevante – della perdita di produttività in Europa e sul come farvi fronte, proponendo un programma di investimenti pubblici di eccezionale entità, per evitare la “lenta agonia” dell’Unione. Draghi fa riferimento alla “debolezza” europea per quanto attiene al ritardo tecnologico rispetto a USA e Cina. Minore attenzione da parte dei commentatori è stata riservata alla necessità, secondo Draghi, di recuperare finanziamenti nell’ordine di 800 miliardi l’anno, per innovazioni tecnologiche, transizione digitale, transizione energetica. Il tema è di massima rilevanza in quanto attiene alla questione dell’emissione di titoli del debito pubblico europeo e, dunque, allo status internazionale della nostra valuta. Conviene, quindi, soffermarsi sui costi economici e sociali che si generano in una condizione, come quella attuale, nella quale una sola valuta – il dollaro USA, sebbene con le cautele che vedremo – svolge la funzione di moneta di riserva e di scambio sul piano internazionale, per poi soffermarsi sugli effetti che questo “privilegio esorbitante” americano (come ebbe a definirlo il Presidente francese Valéry Giscard d’Estaing) eventualmente comporta soprattutto per le fasce sociali più deboli delle aree, come il Mezzogiorno, meno sviluppate. L’unificazione monetaria europea si realizzò anche con l’aspettativa di dare all’euro uno status internazionale al pari del dollaro. Ciò non è accaduto, soprattutto a ragione del fatto che l’UME non è diventata un’unione politica con un bilancio rilevante e sistematica emissione di suoi titoli del debito pubblico.

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