Non ho molto inchiostro e questa penna a causa dell’umidità scrive male, ma forse mi basta per dire poche cose. Mi chiamo Martin Mann, di nazionalità tedesca, e qualcuno forse avrà saputo della mia scomparsa, leggendone la notizia sui giornali. Mi sono gettato nella vora di Noha il venti d’agosto, per motivi che non è il caso di spiegare e che non interesserebbero a nessuno. Ero disperato e volevo farla finita. Così non ho trovato di meglio che buttarmi nel fiume d’acqua che scendeva in quella vora dopo il primo acquazzone d’agosto, certo che in pochi istanti avrei perso conoscenza, rimbalzando sulle rocce, e sarei morto. Invece non è andata così. Sono caduto senza incontrare ostacoli, tranne che le frasche degli arbusti cresciuti intorno all’imboccatura della vora, nel letto del fiume sotterraneo che scorre da queste parti, e mi sono ritrovato in acqua con qualche contusione, ma per il resto miracolosamente incolume. Oggi deve essere passato almeno un mese da quel giorno, se non ho calcolato male. Sono dieci, venti, trenta metri sotto la superficie di queste campagne, chi può dirlo. Vivo nel buio più totale, che rischiaro ogni tanto accendendo un piccolo fuoco, quando trovo l’occorrente, ma solo per pochi minuti, perché l’aria diventa subito irrespirabile. Sulle sponde asciutte di questo fiume c’è di tutto, carogne d’animali, tronchi d’olivo, copertoni d’auto, tamburelli sfondati, oggetti desueti d’ogni tipo, di cui si possa aver bisogno in caso di estrema necessità. La penna e il taccuino, com’è mia abitudine, li avevo con me anche al momento del salto. L’acqua non mi manca e mi nutro di quello che trovo a portata di mano e che mi sembri minimamente commestibile; a me, dico, che agli altri, in circostanze diverse dalle mie, parrebbe a dir poco disgustoso. Vuol dire che non dovevo morire, almeno non subito e non come avevo pensato. La falda acquifera si è molto abbassata e non mi manca lo spazio per muovermi, sia pure, a tratti, carponi. Non chiamate gli speleologi, perché per loro sarebbe un azzardo scendere fin qua sotto; del resto, non saprei dire dove mi trovo, essendo stato trascinato a lungo dalla corrente del fiume. L’aria non mi mancherà fino a quando le piogge non colmeranno le pareti di questo tunnel. Ho seguito per giorni un filo d’aria che porta non so dove, in un dedalo di vene d’acqua nel quale sarebbe facile perdersi, se io non mi sentissi già perduto in partenza. Questo filo d’aria vorrebbe indurmi una speranza di salvezza. In realtà, in questi giorni ho sperimentato quanto ogni speranza sia vana. Le bocche delle vore – ce ne sono molte, sparse nella campagna – sono abbastanza vicine al luogo in cui mi trovo per costituire un buon sistema di ventilazione, ma troppo lontane per essere raggiunte. Come potrei arrampicarmi per pendii verticali, resi viscidi dalle prime piogge di settembre? Ho provato a urlare, ma inutilmente. Ho seguito la corrente del fiume fin dove mi ha condotto prima di interrarsi dentro crepacci che mi impedivano il camino. Ho pensato che al di là di quelle rocce ci fosse il mare, ma non ne sono sicuro. Allora sono tornato indietro, ho seguito altri dedali, altre correnti d’aria e d’acqua, ma invano. Ora sono stanco e ho intenzione di risparmiare le forze; non dico per vivere quanto più a lungo è possibile, ma per essere abbastanza forte e vigile da non cedere più alla vana credenza di poter uscire un giorno dal ventre di questa terra dalla quale mi sono fatto inghiottire volontariamente. Ben mi sta, allora! Vorrei soltanto che si sapesse lassù di questa mia vita, di come sono finito, come di quaggiù io ricordi i miei cari, a cui ho dato questo dispiacere, e tutti gli amici con i quali ho condiviso tante cose. Disteso al buio, mentre sento scorrermi accanto l’acqua, penso ai campi coltivati che stanno sopra di me e che senza quest’acqua non vivrebbero, agli innumerevoli pozzi costruiti per l’irrigazione che si alimentano di questa corrente, a me stesso che dovevo venire a morire in questo posto, dopo molti anni nei quali ho dimorato in Italia, girando in lungo e in largo, fino a impararne la lingua e a farmene la seconda patria.
Quando arriveranno le piogge autunnali – ormai non dovrebbero tardare – per me sarà la fine. Ogni tanto spero che questo autunno sia poco piovoso, a volte spero l’esatto contrario, per porre termine a tutto; ma poi non spero più niente, come ho detto, e solo quando perdo del tutto ogni speranza, solo allora stranamente mi sento molto felice. Vorrei che tutti sapessero che non morirò in preda alla disperazione, ma felice di aver appreso quanto sia vano nutrire inutili speranze.
Affido questo messaggio alla solita bottiglia, senza sperare neppure che venga trovata da qualcuno.
Dal fiume sotterraneo del Salento, addì 20 (?) settembre 1990
Martin Mann
Devo dire che sulle prime ho pensato allo scherzo di qualche buontempone. Ma chi aveva avuto accesso alla bocca del pozzo di mio suocero? Egli la chiude con uno sportello di ferro con tanto di lucchetto, la cui chiave possiede solo lui e che custodisce gelosamente perché ha paura che qualcuno – un ladro di campagna, un curioso, un cacciatore avventato – nottetempo cada nel pozzo; e poi, mio suocero, a ottantasei anni, non è il tipo che faccia simili scherzi. Siccome era lì, poco distante da me, intento a diradare le mele, che non sopporta di vedere crescere a decine sullo stesso ramo, anche se sono sincere, gli ho fatto leggere i fogliettini che avevo in mano. Mi ha guardato con uno sguardo ironico e mi ha detto: – Chi vuoi prendere in giro?
- Nessuno, ma il fatto è che davvero ho pescato questa bottiglietta. Sembra incredibile, ma qualcuno deve averla buttato nel pozzo.
- Non è possibile!
- Ma come, non è forse possibile che tra i mattoni che chiudono il pozzo, attraverso cui filtra l’acqua che attingiamo, si sia creata una fessura sufficiente a far passare questa piccola bottiglia?
E mio suocero, laconico: – Gianluca, evita alla tua età di inventarti delle storie!
Mi ha voltato le spalle e si è diretto verso il melo per riprendere il lavoro interrotto.
Ora, conoscendo mio suocero, so bene che a nulla vale contraddire una sua opinione, neppure l’evidenza del fatto compiuto, come era per me la bottiglietta appena dissigillata e la lettera che avevo in mano. Sul suo consiglio e sulla sua testimonianza non potevo contare. Ho dunque pensato che il fondo di mio suocero dista non più di cinque chilometri dalla vora di Noha e mi è sembrato del tutto verosimile che la falda acquifera a cui attinge il pozzo di mio suocero fosse la stessa nella quale era caduto il tedesco. Di ritrovarlo in vita, neanche a parlarne, dopo quindici anni di piogge e di allagamenti!
Ora, mettetevi nei miei panni, che cosa avrei dovuto fare? Avevo ancora impresso in mente lo sguardo ironico di mio suocero che diceva tutta la sua incredulità e disapprovazione, e non avevo il coraggio di raccontare la stessa storia alle autorità competenti. La storia della bottiglia aveva davvero un sapore troppo favoloso per essere creduta. Tuttavia, mi sono recato al più vicino posto di Polizia dove per fortuna lavora un mio amico. Gli ho chiesto se avesse mai sentito parlare di un certo Martin Mann, di nazionalità tedesca, suicidatosi quindici anni prima, senza raccontare altro. Nulla da fare, il nome non risultava dagli elenchi degli scomparsi. A chi avrei dovuto rivolgermi?
Così, pensa e ripensa, ho preso la mia decisione: avrei mandato questo scritto tutti i giornali. Se avessero pubblicato la notizia, e se qualcuno l’avesse letta e avesse avuto memoria dello sfortunato Martin Mann, un tedesco innamorato dell’Italia venuto a morire quaggiù, si sarebbe certamente fatto vivo.
Rimango in attesa di eventuali nuove; e, nell’attesa, ogni qual volta attingo acqua al pozzo di mio suocero, guardo nello specchio tremolante del secchio per vedere se la pesca miracolosamente si ripeta, e mi sporgo per vederne il fondo e per udire eventualmente il richiamo di Martin Mann ancora in vita nelle tenebre del fiume sotterraneo.
(2005)