di Antonio Prete
In questi giorni il tragico dell’epoca ha il volto dell’orrore e della vendetta: la violenza terroristica di Hamas e l’implacabile distruzione di vite e di città e villaggi in terra palestinese perpetrata senza sosta dall’esercito israeliano. Dinanzi a questa presenza del tragico, che ci coinvolge e interroga, uno sguardo che si pretende politico tende a distrarre dalla prima, evidentissima, realtà che conta: i corpi di chi è colpito da morte, o è ferito, o è costretto alla fuga, privato violentemente di quel poco che ancora può avere il nome di vita. Uno sguardo che si dice politico, e che finisce con l’informare e formare l’opinione che diciamo pubblica, tende ad allontanare questi corpi – siano essi già consegnati alla morte o gettati nel vortice della distruzione – per mettere in primo piano le relazioni internazionali, le appartenenze, le implicazioni geopolitiche, gli schieramenti. Le stesse immagini televisive della distruzione, nel loro rapido succedersi e nel loro posarsi su una moltitudine, possono appannare il dramma della singolarità: ogni corpo individuo, con un suo nome, con una sua storia, con i suoi legami e i suoi desideri, è vittima della distruzione. L’insidia dell’astrazione talvolta può operare togliendo alla pietà la sua propria natura, quella di non avere collocazione di parte, perché prossima alla verità dei corpi, al loro respiro, al loro sentire. È invece da questa presenza corporea della vittima, una presenza singolarmente definita, che può muovere sia l’indignazione contro le forme di potere che portano alla distruzione delle vite umane sia la ricerca delle cause, queste sì politiche, che hanno preparato giorno dopo giorno la scena del disastro.