Quando arrivò a 45 metri era il Sessanta. Tutti pensarono: più in fondo non si va; non si può andare più in fondo. Poi il brasiliano Amerigo Santarelli andò più in fondo: a 46. Poi Enzo a 49, poi ancora più giù.
Nel settembre del ’74 avevo quindici anni e me lo ricordo quell’uomo uscito dal mare che urlava parolacce e bestemmie e agitava le braccia e scalciava. Stava tentando la quota dei 90 metri. La Rai, prima rete, bianco e nero, mandava l’evento in diretta. Maiorca cominciò a scendere lungo il cavo d’acciaio. Non ne aveva fatti neanche venti che andò a sbattere contro Enzo Bottesini, istruttore subacqueo, inviato della Rai per l’occasione. Ecco il caso, la fortuna. Nell’immensità del mare, si trova qualcuno proprio nel punto in cui ci sei tu che stai cercando di battere i record di immersione in apnea.
Bottesini era uno famoso per essere stato campione di “Rischiatutto”. A tal proposito si ricorda il dialogo che segue tra Bongiorno e Bottesini.
Mike: “Signor Bottesini, mi dicono che lei è un subacqueo bravissimo”. Bottesini: “Grazie signor Mike, ma so che anche lei è un ottimo sub”. Bongiorno: “No, no, sono solo un subnormale”.
Soltanto Mike Bongiorno aveva il genio per queste battute.
Enzo Maiorca era nato a Siracusa il 21 giugno del 1931, e lì è morto il 13 novembre del 2016.
Appassionato di pesca subacquea, smise dopo aver sentito il batticuore di una cernia arpionata. Una cernia robusta, combattiva, che scatenò una lotta perché voleva salvarsi la vita.
La cernia era incastrata in una cavità fra due pareti. Per rendersi conto della sua posizione, Maiorca passò la mano lungo il suo ventre. Fu in quel momento che sentì il cuore della cernia impazzito di paura. Allora risalì e abbandonò il fucile subacqueo in cantina.
Come spesso accade per i fuoriclasse, la storia di Maiorca ha interferenze di leggenda. La persona si trasforma in icona, rappresentazione di una condizione del pensare, dell’agire, dell’esistere. Accade quando nell’uomo si intravedono i segni di un essere superiore, gli elementi di una combinazione di ragione e di follia, la tensione alla violazione del confine, del limite, dello sbarramento. Accade quando qualcuno trasforma in possibilità qualcosa che gli altri credono che sia impossibile. Gli altri pensavano che ad una certa profondità non si poteva arrivare, che dopo un certo limite una parte del corpo avrebbe ceduto, la cassa toracica sarebbe scoppiata. Gli altri pensavano questo, e invece lui, Enzo, scendeva: oltrepassava il limite, sbugiardava l’impossibile. Se Ulisse sfondava i limiti del mare orizzontale, Maiorca sfondava quelli del mare verticale. Ecco come diventa quasi inevitabile il riferimento alla leggenda, al mito. Perché un paragone con gli esseri umani non si trova o se si trova risulta inadeguato.
Si racconta, come in una leggenda, che tutto cominciò quando aveva venticinque anni.
Un amico medico gli fece vedere l’articolo di un giornale in cui si diceva dell’ impresa di Ennio Falco e Alberto Novelli, scesi a -41 metri in apnea. Lui si promise di andare più in fondo.
Cominciò tutto da lì, forse. Per caso. Oppure per venticinque anni aveva predisposto e organizzato il caso. Aspettando l’occasione per realizzarlo. In un modo o nell’ altro l’avrebbe comunque fatto. Imprese come quelle di Maiorca non avvengono per caso. Hanno bisogno di un progetto interiore, che molto spesso deriva da una passione, più o meno consapevole, da un’attrazione più o meno riconoscibile, più o meno misteriosa.
Forse per Maiorca l’attrazione era il mare: la sua profondità. La conoscenza di quella realtà che è l’unica al mondo ad essere costituita dalla leggerezza e dalla profondità. Forse non voleva conoscere come fosse il mare profondo. Forse voleva conoscere come fosse un uomo nel mare profondo, che pensieri avesse, che paure, se si provasse una felicità, una serenità che non era possibile trovare in nessun altro luogo, nessun’altra condizione.
Forse voleva vedere come fosse il mondo a cento metri di profondità, che colori avesse, se fosse solo buio.
Oppure, se si scendesse e basta, senza pensare a niente, senza provare niente, se non il desiderio di giungere a quel punto che si era fissato. Che cosa si pensa quando si risale, quando si vede un’altra volta il cielo. Diceva Arthur Rimbaud che l’eternità. è il mare mischiato col sole. Chissà se a quella profondità, in quella solitudine assolta, non si veda l’ora di risalire o se non si provi il dispiacere di dover risalire.
Si racconta – ancora, come una leggenda- che mentre s’immergeva nel mare di Siracusa, insieme alla figlia Rossana, sentì un leggero colpo alle spalle. Si voltò e vide un delfino. Capì che l’animale non voleva giocare, che voleva esprimere qualcosa. Il delfino si allontanò. Maiorca lo seguì. Poi l’animale si immerse e si immerse anche l’uomo. A dodici metri c’era un altro delfino impigliato in una rete. Maiorca emerse, chiamò la figlia dicendole di portare i coltelli da sub che aveva nella barca. Così padre e figlia liberarono il delfino, una femmina. Disse poi Maiorca che fino a quando l’uomo non avrà imparato a rispettare e a dialogare con il mondo animale, non potrà mai conoscere il suo vero ruolo su questa Terra.
Forse è solo storia. Forse è solo leggenda. Forse si tratta di storia e leggenda radunate in un solo racconto. Com’è spesso la storia.
Ma sì, forse è vero che Maiorca avesse paura del mare. Il mare è una metafora dell’infinito, e l’uomo sente, ad un solo tempo, la paura e il richiamo dell’infinito, di quello che rivela e di quello che nasconde.
Senza quella paura e senza quel richiamo, non ci sarebbero stati mai Ulisse, Caboto, Colombo, Vespucci, Magellano. Senza quella paura e senza quel richiamo non ci sarebbe stato mai Enzo Maiorca. Ci sarebbero stati soltanto quelli come noi, che appartengono alla razza montaliana di chi rimane a terra: ad immaginare la profondità del mare, dalla riva.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 22 settembre 2024]