Introduzione a Piero Pascali – Daniele Capone, L’ombra di Tancredi. Nei luoghi della cintura di Lecce

di Daniele Capone

Nell’ombra della fitta vegetazione, aspri stridii e cinguettii soavi di uccelli. Il conte non guarda le possibili alate prede: la sua attenzione è rivolta a  qualcosa di più grande. Un cinghiale, un cervo, un qualsiasi mammifero. Per questo quel giorno ha lasciato la sua residenza cittadina per spingersi sino in quella contrada, rinomata per i cervi, l’abbondanza di selvaggina di ogni tipo, la salubre aura che la circonda. È intento alla caccia, Tancredi, ma anche, chissà per quale labirintico svolgersi del suo pensiero, è concentrato sul ricordo di una fanciulla dalle bianche mani e dalle bionde trecce che per le ferree leggi della politica delle grandi famiglie non ha potuto far diventare sua sposa. La sua folta guardia, annoiata – è a essa vietato di cacciare – lo segue da lontano. Ogni tanto un cavallo fa le bizze alla vista di un rettile che, furtivo, guadagna gli anfratti della sua tana. A memoria d’uomo non si ricordava un novembre così dolce, dopo mesi e mesi d’inesausta calura, in quella terra meravigliosa conquistata dai suoi antenati. Iddio l’abbia in gloria. Rainaldo, i Goffredo, gli Accardi e adesso lui: signore di una città nella quale voleva lasciare la sua impronta. Lucertole e serpentelli un po’ spaesati ancora si muovono intorpiditi, tentano di sgusciar via invece di essere in letargo. Ad un tratto un fruscio, uno scuotere di fronde. Tancredi, figlio naturale di Ruggero III e di una figlia di Accardo II, il bel Tancredi, da tempo conte dell’antica città di Lecce e futuro re di Sicilia, arresta il cavallo. Di fronte a lui, tra gli alberi, una grande cerva dagli occhi languidi. Nell’umido tepore di quegli occhi tutto il calore dei sogni della sua giovinezza e le ambizioni future della sua esistenza. La magnifica creatura dei boschi guarda mansueta il conte. Tancredi indugia ad ammirarla. Un cacciatore esperto come lui avrebbe immediatamente armato l’arco e scoccato una freccia mortale. Invece il conte e la cerva si guardano, si osservano, si scrutano. Forse il destino ha voluto che quel giorno si verificasse qualcosa d’inconsueto. A poco a poco tra il maestoso palco del nobile animale si definisce un’immagine, prende consistenza una figura. Non ha trecce bionde la donna che appare, ma sorride, con un sorriso che trafigge il cuore più di una punta di freccia. È Maria, la madre del Cristo, che si è materializzata tra le corna della cerva. «Va’– gli sembra che dica la donna – Lascia che questa madre torni ai suoi cuccioli. Avrai altre prede. Anche se prede non dovrebbero essercene. Vai, conte. Torna nella tua città che sarà splendida, che in molti ammireranno. Se puoi onora questo giorno». Tancredi è turbato, commosso, impietrito. Gira il cavallo. «Andiamo! – grida ai cavalieri che gli fanno la scorta – Andiamo! Si torna a Lecce!». Nel luogo in cui aveva incontrato la cerva, la Madonna – e il suo remoto amore – il normanno fece poi costruire la chiesa che, a distanza di ben più di ottocento anni, ancora ammiriamo.

Questa voce è stata pubblicata in Anticipazioni, Avvertenze, Conferenze, Discorsi, Introduzioni, Prefazioni, Premesse, Postfazioni, Presentazioni e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *