Il soffio che fa essere le cose: attraversando “Convito delle stagioni” di Antonio Prete

Certamente il libro nasce anche da una lunga esperienza esistenziale che con lucida forza s’interroga su quello che vive e su quello che muore sia di un’esistenza individuale che collettiva, provando a discernere quanto potrebbe essere illusione e quanto vero (foss’anche arido).

Ma, esattamente come tutta l’opera di Prete è amore per la lingua e desiderio inesausto di bellezza, il secondo testo (p. 6) pur progredendo per viam negationis riafferma quell’amore e quel desiderio, così che «Il libro che non scriverò mai / ha il vento nelle sillabe, la musica / del mare nelle vocali. […] // Il libro che non scriverò mai / ha fogli d’alga, margini d’aria […] // […] // […] /  libro mai cominciato, / libro da sempre incompiuto. // Il libro che non scriverò mai / ha una lingua innamorata di ogni / altra lingua. […] / […] // “Disponi ogni parola che tu scrivi / all’ombra di quel libro”, mi dice / una voce che viene ora da un libro» – è infinitamente suggestivo, in tal senso, leggere Convito delle stagioni quale riflesso o emanazione oppure prefigurazione di un libro agognato e irrealizzabile perché posto oltre i confini del pensiero umano e della scrittura, un libro assoluto d’ispirazione forse mallarmeana ma che non conduce, in Prete, alla disperazione per la sua irrealizzabilità, sì, invece, a una gioia dello scrivere all’ombra di quel libro, in questo raccogliendo l’insegnamento dell’amico-maestro Edmond Jabès il quale, nell’inseguire il Libro, scrive di noi e del nostro vivere e sentire, ma, mi azzardo a suggerire, c’è in Prete, oltre alla grande tradizione italiana dantesco-leopardiana, anche quella di uno scienziato e scrittore che colpevolmente si tende a obliterare sia nella pratica critica che scrittoria, intendo dire Galileo Galilei che, in un italiano estremamente chiaro ed elegante, musicale e articolato, descrive (o trascrive), nella lingua che gli era stata concessa, il grande libro della natura, quello che neanche lui avrebbe scritto mai (dalle pagine probabilmente fatte di pulviscolo interstellare e di orbite planetarie), ma alla cui luminosa ombra nascevano Il saggiatore e Il dialogo sopra i due massimi sstemi del mondo. La poesia è anche questo: accenno, rimando, assenza e in poesia si accenna a un altrove, si rimanda ad altro, si constata l’assenza (o la lontananza – termine carissimo ad Antonio Prete) di quegli altrove, di quel molto altro.

Ed è seguendo Passi d’ombra (pp. 8 e 9) che proprio Jabès e poi Mario Luzi e infine Yves Bonnefoy vengono ricordati con struggente nostalgia e immutata amicizia: «Forse è un sentiero della mente questo / dove m’accade d’ascoltare il passo / di amici che camminano in silenzio, / tutti raccolti in sé, nel tempo immoto, / privo di turbamento. Essi affidarono / la stella dei pensieri a quel tripudio / della lingua, a quell’azzardo del dire / che è vita, grazia e spina della vita. // E quella dolce ossessione del nome, / la poesia, conoscenza e insieme / angustia per le ferite del mondo, / fu fuoco per ognuno. D’essi scorgo / ora, in questo crocevia di presenze, / mentre vanno, le distinte postille». Leggendo Convivio delle stagioni ripetutamente si pensa alla seconda Cantica dantesca, alla medesima lievemente melanconica dolcezza e l’andare dei tre amici poeti, il loro stare raccolti in sé devono molto al poema dantesco, mentre non posso non pensare ai versi che chiudono Onore del vero di Mario Luzi: «La notte lava la mente. // Poco dopo si è qui come sai bene, / fila d’anime lungo la cornice, / chi pronto al balzo, chi quasi in catene. // Qualcuno sulla pagina del mare / traccia un segno di vita, figge un punto. / Raramente qualche gabbiano appare». Nella medesima sospensione del tempo, lungo il medesimo andare Antonio Prete dà bellissime definizioni della poesia e, poi, traccia i tre pregnanti ritratti: «E ci sei tu, Edmond. La tua parola / aveva in sé l’incanto di desertiche / dune mentre serbava dell’esilio / l’aspra sapienza. Il Libro spalancato / sull’assenza […] / Ancora è qui la tua voce che prima / di sera su una riva dello Jonio, / gli occhi a una vela, mi diceva d’altre / rive, di altre lontane sabbie, là / nell’Egitto […]» – è un convito di sodali, simposio di esperienze condivise, è, nella perfezione degli endecasillabi, il ricorrere dell’enjambement per rendere udibile lo spezzarsi che sempre comportano l’esilio, la lontananza, la nostalgia, è una spiaggia salentina (e il Salento è presenza d’assoluta importanza in tutto il libro) a richiamare l’altra riva mediterranea, a dare la misura della prossimità e della distanza.

«Erano prati di pensieri, Mario, / i tuoi silenzi, poi sgorgava ruvida, / eppure lieve, la parola […] / […] Era ricolmo di tempo / il tuo verso, […] / […] / andando tra calanchi e folti olivi, / lungo le Crete, e la tua indignazione / per la cattiva signoria, e il misto / di vertigine e quiete, ch’è sostanza / viva di cose sperate, con gli occhi / di Simone che scorgono il fulgore / di una sempre negata perfezione» – Dante e Simone Martini («[…] / Fa’ che s’apra a ricevere la mente / con gioia e con sgomento / – però senza avarizia / o scemo orgoglio – quell’abbondanza… / Così forse fu sempre / l’arte. / L’arte meravigliava i suoi maestri. / Non toglietemi mai / da quella vertiginosa danza» fa dire Luzi a Simone Martini in un testo del Viaggio terrestre e celeste)sono, insieme con Baudelaire («Con noi i nostri due poeti, il fiore, / il male, insieme» scrive Prete), le stelle polari che, tra l’altro, guidano anche l’impegno civile di un poeta che, ricordo qui, ebbe parole dure e amare contro “la cattiva signoria” (Muore ignominiosamente la repubblica e Acciambellato nella sconcia stiva siano soltanto due titoli di testi esemplari in tal senso).

Per Yves Bonnefoy Prete ha parole cadenzate in sublime armonia, come merita chi quell’armonia ha cercato non solo nelle parole, ma anche nelle arti figurative: «[…] E i pensieri sempre intenti / a dare forma e danza all’apparire / […] / […] La lingua, / d’altri e tua, t’era mare, t’era porto, / odissea di pensiero e di sentire» (vengono alla mente i versi «Il rêva qu’il ouvrait les yeux, sur des soleils / qui approchaient du port, silencieux / encore, feux éteints; mais doublés dans l’eau grise / d’une ombre où foisonnait la future couleur», prima quartina della lirica Psyché devant le château d’Amour dove viene rievocata la figura di Claude Lorrain, esplicito alter ego di Bonnefoy che, appunto, tenta di “dare forma e danza all’apparire” sognando l’arte a venire, porto cui si aprossimano i fanali di una nave, acqua che preannuncia i colori del quadro a venire).

Tornerà nell’Aiuola del ricordo (pp. 20 e 21) l’elegia per amici perduti o defunti («Amici che un giorno mi diceste addio / senza dirmelo, vi penso in una solitudine /  quieta, priva di ogni rimembranza, / assorti nella vostra assoluta lontananza») a reiterare il sentimento di stagioni passate, musicalmente rievocate in versi melancolici ma mai funerei, dolcemente nostalgici ma mai tristi. Tornerà in Divagazione su un viaggio in Messico (pp. 38 e 39) il ricordo di amici scrittori e poeti (qui Ida Vitale, Álvaro Mutis e Valerie Mejer Caso) entro una «geografia / del viaggio» (ibidem) che è anche contatto umano, scambio d’idee e d’arte; rivolto a Ida Vitale scrive Prete: «Rivedo i banchi di un mercato a Tampico / […] / e mi dicevi dell’esilio da Montevideo, mentre mi transitava nella mente / il vento dolce dei tuoi versi», di Mutis dice: «[…] Avventura era / conversare con lui delle nostre lontananze», di Mejer Caso balugina: «[…] il taccuino su cui nel Museo / lei disegnava bassorilievi e stele, / mentre una voce narrava del dio serpente» – è  convito di voci, d’incontri, di memorie, di luoghi, di circostanze, tessitura di una ricerca nella quale l’arte e il contatto umano tra gli artisti illuminano la vita e le danno senso.

La postura di ascolto che caratterizza lo studioso pertiene anche all’uomo e al poeta (ammesso che le tre figure possano essere scisse) ed è per questo che Convito delle stagioni è anche uno spartito musicale vivificato dalla dialettica tra suono e silenzio: «[…] // c’era nella musica degli alberi / un silenzio che era specchio / del cielo, dei suoi silenzi» (Silenzi, p. 10), attraversato da un moto continuo di pensiero e di emozioni, «Le parole camminano con noi // […] // Lo stormire è il pensiero delle foglie. / Attendono, le parole, in silenzio, / che appaia, prossima, la terra dove / la lingua è vento, fiume, albero, stella» (Le parole, in cammino, p. 11), per giungere subito, in questo breve giro di pagine iniziali, alla rievocazione della figura materna (determinante punto di contatto con le pagine di Album di un’infanzia nel Salento) e delle stagioni della propria vita – Convito delle stagioni può allora essere interpretato come uno spartito musicale, appunto, giocato su numerose variazioni e su ritorni tematici che, accennati e impostati fin dalle prime pagine del libro, si dispiegano nel corso della scrittura il cui io lirico (è bene chiarirlo subito) non ha nulla di narcisistico né di egotico, ma, anche nei frequenti riferimenti più propriamente autobiografici, sa dare voce a esperienze comuni, sa essere voce di una storia comune e comunitaria.

«Sei lì, tra la loggetta e il tratturo che porta / al cancello. La casa rosa è dietro di te: / non so da quale lontananza ti vedo, / quale istante è tua veste, tuo profumo. / […] / […] La tua figura / non ha cancellato il corpo di fanciulla, / la sua bellezza trepida, antica, raccolta / in una grazia acerba: […] / […] / […] Mi chiedi / di avvicinarmi, mi porgi un fazzoletto / con i fiori ricamati a punto erba, prendo un capo, / lascio l’altro nelle tue mani e m’allontano: / si apre e slarga il fazzoletto, ha strade su pianure, / alberi, poggi, il vento lo curva, lo gonfia, / è una vela che scivola di là dall’isola, / va verso quella linea dove il mare è cielo, / il cielo mare. Poi sono ancora solo, / […] / sono nel giorno senza tempo della tua assenza» (Nel giorno senza tempo della tua assenza, p. 13) – se si prende in mano Album di un’infanzia nel Salento e si cerca, in fondo al volumetto, la fotografia della madre giovane, si ha l’impressione di avere innanzi una prefigurazione di Nel giorno senza tempo della tua assenza insieme con la consapevolezza che “la casa rosa”, “il tratturo”, “la veste”, quel gioco meraviglioso e meravigliante del fazzoletto ricamato che, aprendosi, dispiega il mondo intero sono tutti non soltanto tratti memoriali, ma presenze effettive di una madre che è sì persona concreta (pur defunta), ma che è anche la madre-lingua (dialetto e italiano), la madre-immaginazione, la madre-poesia perché è soltanto nella poesia che reale e immaginario, desiderio e assenza, tempo cronologico e tempo sospeso si fanno compresenti e fecondi di suono, di affetti, di significato.

E dantescamente, leopardianamente, ma anche alla maniera di Char ecco sorgere le costellazioni, figure onnipresenti nell’opera di Antonio Prete: «Sorgente di nascenti stelle, la nebulosa / d’Orione. Turbine di sistemi planetari» (Notturno, p. 14) fa scorgere «compendiato / in un album che il vento siderale / sfogliava – il tempo dell’infanzia» (ibidem) ed ecco la terra rossa e gli ulivi del Salento, un monaco che nella controra sosta all’ombra di un eucalipto (è il bodiniano “monaco rissoso” che “vola tra gli alberi”?), il violino chiamato ad alleviare la sofferenza delle tarantate, la torre saracena in riva al mare (un libro di Prete s’intitola proprio Torre saracena. Viaggio sentimentale nel Salento). Ma la Terra d’Otranto si dilata fino a diventare il Messico, per esempio, per cui l’ascensione della Piramide della Luna a Teotihuacán permette uno sguardo panoramico sulle stagioni della vita e la Via dei Morti del sito archeologico assume un significato allegorico: «[…] e sentivo / che il mio salire aveva un solo scopo, / dall’alto della Piramide poter vedere / che la strada dei Morti e quella dei Vivi / erano un’unica strada» (Teotihuacán, mattino, p. 15) – sembrerebbe ritornare così l’immagine della montagna del Purgatorio, il senso di un’ascesa capace di allargare lo sguardo, ispirazione per un libro che accolga i vivi e i morti, le stagioni passate, quella presente e quelle a venire.


Piramide della Luna a Teotihuacán.

Ed è un altro luogo del Nuovo Continente, il Morro das Pedras dopo la lunga spiaggia di Campeche, che ospita un’epifania che potrebbe essere interpretata come un’altra, pregnante definizione della poesia: «[…] / E si levò, improvvisa, un’ala chiara / sopra le acque, riaffondò subito, / ombra fluttuante, ridivenne ancora / soffio di schiuma nella luce. / […] // Nell’inatteso balzo del cetaceo / l’essenza luminosa dell’apparire» (Schiuma di luce, p. 17) – scrivo questo perché, in maniera del tutto moderna, Antonio Prete scrive in poesia continuamente interrogandosi su che cosa la poesia stessa sia, specialmente in relazione al vivere; l’espressione baudelairiana “hypocrite lecteur, mon semblable” dimostra così ancora una volta di cogliere nel segno se “hypocrite”, deprivato di ogni connotazione moralistico-peggiorativa, è aggettivo che significa “consapevole, avvertito, liberato da equivoci e da cascami attardatamente romantici”, se esso, tramite la sua etimologia, conserva il significato di “attore” del poetare, contemporaneamente coinvolto e lucidamente, criticamente distante dalla materia del dire.

Tornando ai testi che stiamo attraversando, ecco l’altro paesaggio ricorrente nella scrittura di Prete, ossia quello delle Crete senesi che, come quello salentino, pur fedele alle proprie peculiarità esteriori è, in verità, paesaggio interiore del sentire e del pensare, amata geografia di complessi segni: «[…] / Dune di creta affondano nell’ombra. // […] // La sera imbruna già gli ulivi. // […] // Tra le stelle, / una vertigine di tempo s’incendia / in un vuoto di tempo. // La lontananza, un abbaglio d’infinito» (La sera che scende, p. 22); «Il fogliame della magnolia è d’oro, / sul fondo di un celeste che confina / con l’onda scura delle crete. / […] // La Via Lattea / è lì, con Vega e Cassiopea, / è lì con il tripudio delle Pleiadi: / mondi che ora la luce solare / ha sospinto nell’assenza» (Mattino di mezzagosto, p. 23) – torna a cogliersi anche in Convito delle stagioni il piacere direi sensuale con cui il poeta scrive (e pronuncia) i nomi delle stelle e delle costellazioni, il significato della lontananza (oggetto di un Trattato come sa ogni fedele lettore di Prete e tema ritornante nella sua poesia) e c’è  l’albero dell’olivo che sembra congiungere Terra senese e Terra salentina, lì dove la linea e l’onda delle Crete prefigurano confini e lontananze, appunto, così come nel Salento svolgono una funzione affine il mare e l’orizzonte marino. Non è un caso, infatti, che nella terz’ultima parte (Quaderno blu marino) questi due paesaggi tornino a incontrarsi e come a congiungersi e, sempre a proposito delle Crete senesi, mi piace riportare la seguente quartina: «stare sulla linea dove / l’argentea geometria del Cigno / si riflette nelle venature / della giada e nei solchi delle crete» (Stare, p. 93).

E “paesaggio” significa, in questo Convito, sia sua rappresentazione musicalissima per ritmo, figure retoriche, costruzione dei versi, sia sua resa mi verrebbe da scrivere pittorica attraverso le immagini che le parole sanno generare: «Scuro fogliame, scure braccia d’albero / contro il rosargento del cielo, / […] // Ora atterrano sul prato gli anni saltimbanchi: / corpi leggeri con ghirlande di carta, / fanno passi di danza sull’erba / nella sera scura che scende. / Sono ombre, con berretti d’ombra» (Autunnale, p. 25) – e, sia chiaro, molti altri esempi potrei riportare dall’intero libro, ma probabilmente rovinerei il piacere della scoperta a chi lo leggerà ben al di là di questo mio personale attraversamento.

Suggerisco, invece, come una prosodia della natura sia presentissima in Convito delle stagioni ch’è libro ricchissimo di alberi e di animali, di stelle e di mare, di vento, tutto percorso da un «Tremito di sconfinata attesa» (Nel cerchio del vedere, p. 27) generato proprio dal frusciare degli alberi, dal volo del tordo, dal variare della luce, dal mutare della stagione e, per esempio in inverno, la neve può essere anche, ai miei occhi che leggono, immagine stessa della poesia e poesia in atto: «Il suono della neve è un silenzio / che muove verso la voce, sostando / nel brusio. Soffio che fa cenno al canto» (Il suono della neve, p. 29) perché nulla è gridato o sbandierato nella scrittura di Prete, ma delicatamente accennato e circondato di cura, di attenzione, di rispetto, delicatamente ascoltato. È per questo che non sorprende la presenza di due numi tutelari, se mi si passa benevolmente l’espressione, che sono Cézanne e Morandi, il primo perché insegna «Come dipingere il respiro delle cose. / Come togliere al visibile il turbamento / del declino. // […] // Dolce rivelazione dell’essenza» (Cézanne, Morandi, pp. 32 e 33), il secondo vuole «Dare al nitore un’anima, alla presenza / un tremito non di perfezione, ma di quiete. // […] // Tempo è l’intesa tra la linea e il volume, / tra i profili e la loro disposizione sul piano. // Il colore, formaluce del meditare» (ibidem), versi che possono essere intesi anche come personale dichiarazione di poetica, esplicito rispecchiamento, modus operandi in questo casonon in pittura, ma in poesia. Non casualmente, inoltre, il testo immediatamente successivo è un abbozzo di ékphrasis del dipinto di Edward Hopper Morning sun (1952) con l’esplicito richiamo in nota all’incontro con Mark Strand che ha portato Prete a interessarsi in maniera decisiva all’opera del pittore nordamericano («Seduta sopra il letto, ha gli occhi nella luce, / la vestaglia sollevata, le gambe al sole, / le braccia incrociate sotto le ginocchia. / […] / Cerco un nome / per il volto, ma il nome scivola nell’ombra / che dalle spalle sale sul cuscino» – Sole del mattino, p. 34); la nominazione, il cercare e dare un nome è infatti altro nodo essenziale (si legga, per esempio, Nominazione a p. 16) per una maniera di fare poesia che tenta d’immergersi sotto la superficie del reale, che tenta di fare della lingua, struttura e strumento artificiale, una sonda capace di cogliere la complessità e l’enigmaticità del mondo, del tempo, del silenzio. «Non c’è un nome per il giglio o l’azalea, / per la neve, la collina, la foresta. / Non c’è parola che dica ginepro, tramonto, cervo, / che dica luce, finestra, pietra, non c’è parola / che congiunga il vedere e la bellezza. // […] / Senza un nome le stelle vanno nel vortice / del loro fiammeggiante viaggio. // Una voce allontana la visione. / “Come proteggere”, dice, “quel vincolo / che lega insieme il visibile e la lingua?” / E ancora: “Come difendere quel che rimane / della terrestre perduta integrità?”» (Nessun nome, p. 41), domande, queste ultime, che, qui esplicitate, costituiscono da sempre le direttrici lungo cui si muove la scrittura di Prete, sia essa d’invenzione che saggistica. Lanciandosi in avanti nella lettura si può anche arrivare a p. 105, dove i versi di Un albero, un nome riprendono il tema della nominazione dimostrando che la struttura del Convito è anche una ramificazione per dir così sotterranea di temi che di volta in volta si danno a vedere nel corso dell’opera conferendole una salda unità da poema, piuttosto che da silloge poetica. «Dico: ciliegio. E appare nel suo inverno / già con le prime gemme», scrive il poeta e più oltre: «Mi porta anche, il nome, le ombre meridiane / di un orto […] // È quel ciliegio / che chiede ora timidamente / di entrare in questa poesia» – la poesia è, in effetti, anche evocazione attraverso la pura nominazione, invenzione grazie al manifestarsi puro e semplice della parola per quanto quest’ultima possa essere segno arbitrario totalmente altro dall’oggetto connotato.

Riprendiamo il nostro attraversamento seguendo l’ordine dei testi e inoltrandoci nella seconda parte (Tempo rubato) costiuita da dieci prose che permettono al discorso lirico di distendersi in un tempo più ampio; anche la dimensione della prosa (più o meno breve) è congeniale alla scrittura di Antonio Prete il quale dà alla propria scrittura queste variazioni di tempo e di ritmo, al mio sguardo riflessi di tempi e di ritmi che sono anche del pensiero e del vivere (insisto sul calore di vita e di esperienza che sempre emana dalla scrittura del poeta salentino, cosa anche questa che elimina ogni rischio narcisistico e autocelebrativo).

Accade così che l’immaginazione (continuo a ricorrere a un concetto tipicamente leopardiano sia perché esso mi sta molto a cuore, sia perché ne riconosco la feconda presenza nei libri di Prete) permetta un viaggio a ritroso nelle stratificazioni del tempo e che “l’isola” sia un Salento mediterraneo incrocio di migrazioni e di storie, stratificazioni fino all’origine stessa della crosta terrestre: «[…] Percorreva, all’indietro, i fotogrammi di un film mentale, in cui ai bagnanti con i canotti si sostituivano le imbarcazioni dei migranti, a queste i bastimenti del secolo scorso che scivolavano di là dall’isola, con le loro merci, i vascelli spagnoli con il trionfo d’alberi e di vele, le galee dei Turchi che preparavano incursioni nell’entroterra, le triremi dei Romani che tentavano il riparo dalla tempesta nelle insenature del golfo, mentre risalivano dalle coste africane verso i porti dell’Urbe, e via via le navicelle messapiche provenienti da Corfú con il carico di marmi e spezie. Poi scorgeva, risalendo ancora più indietro, figure d’ombra che muovevano verso la grotta sul mare, lí, ai piedi del promontorio. Entrava con loro nella grotta: sulle pareti segni ocra che potevano essere archi tesi contro altri segni, forse animali in fuga, curve che avevano profili di bambini o accennavano a un’onda, raggiere che erano il sole, linee rossastre che mostravano una figura danzante, o forse uno sciamano […]» (Quel tratto di costa, pp. 45 e 46); oppure la Malinconia del cartografo celeste (pp. 47 e 48) torna, con angoscia, a misurarsi con l’incolmabile distanza tra la realtà del cosmo e le misere parole umane che tentano di descriverlo («Una forte malinconia mi prende quando mi avventuro con la mente a pensare il tempo, a pensarlo in rapporto con gli astri che sono l’oggetto del mio studio. Mentre situo sui fogli il disegno di galassie, di costellazioni e di pianeti, avverto talvolta un grande turbamento davanti all’abisso che separa il nome dalla cosa, la fissazione visiva di una stella dal vortice fiammante del suo corpo»); altrove si tratta di un personaggio «non finito» (p. 49) che l’autore ha costretto ad abbandonare «la vita del romanzo» (ibidem) oppure della rivendicazione, vibrata ed energica, che nessuna lingua sia “morta”, ma continui a vivere per molte vie nel nostro tempo presente (è sempre il tempo, non lo si trascuri, il tema fondante del Convito delle stagioni); c’è un amico pittore che sogna di disegnare un Angelo dell’imperfezione:«[…] vorrei mostrare nella figura di un angelo, nei suoi tratti, nel suo sguardo, la distanza sia dall’irreversibile, propria del tempo passato, e di tutto quel che appare come compiuto, sia da quanto appartiene al futuro, al non ancora. […] Ma quell’imperfezione […] non la si può rappresentare: ogni parola, e così ogni segno, la fisserebbe nell’istante» (Dell’imperfezione, pp. 54 e 55) – ritorna, lo si nota subito, la questione dell’arte che, con (rassegnata?) consapevolezza, deve accettare di non poter essere altro che allusione, accenno all’essenza delle cose e degli accadimenti, portatrice di una propria imperfezione liberata dal pregiudizio moralistico che vede l’imperfezione come negativa, restituita invece all’ordine delle cose che, lucrezianamente, scorrono continuamente trasformandosi – – – non è affatto un caso che l’esergo all’intero Convito sia l’affermazione eraclitea «Il sole è giovane ogni giorno» che è sì introduzione immediata al tema del tempo, ma anche evidenza di un divenire nel quale l’arte stessa è immersa, senza poterlo fissare in una rappresentazione definitiva, ma, leggiamo nelle pagine di Prete, “fissare il tempo” e quindi il reale significherebbe fermarlo, cioè ucciderlo, mettendo così fine proprio al processo vitale che permette tutta la bellezza che instancabilmente ogni pagina del Convito celebra, ché questo libro è contemplazione e celebrazione della bellezza del cosmo, addirittura mi vien fatto di scrivere che esso è cantico di laico francescanesimo il quale, tra l’altro, si esplicita nella terza parte (Per un bestiario) che, ordine animale delle cose, mette in scena un’altra folgorante epifania («[…] Un lampo: nella sparizione / lasciò il cervo un biancore di corna, / un’orma nivea nell’aria, il disegno / dell’angelo tornato già nel regno» – Un cervo, p. 63), tratteggia i moti e le immobilità della lucertola («[…] / Un tremito è l’attenzione, uno scatto / fulmineo la domanda della luce» – Lucertola, p. 64, quasi un “bestiario salentino”, ma non solo ovviamente, che potrebbe far pensare anche a Salvatore Toma), celebra «gli stellari / silenzi, l’indecifrata distanza» di Due gatte (p. 65) di baudelairiana suggestione, unisce la figura dell’airone ricamata dalla madre su un cuscino ricordo d’infanzia a questo che ora vola e che è cenerino (p. 67), rievoca la lupa Luna (p. 69, già apparsa in Nominazione) o il gallo udito nell’infanzia, poi a Istanbul, poi a Creta e l’amatissimo gallo silvestre, protagonista dell’Operetta leopardiana e titolo della rivista che Antonio Prete ha fondato e diretto per diversi anni (p. 74).

Se il grande tempo del mondo e del cosmo, il tempo interiore del vivere sentire e pensare, quello ciclico delle stagioni, quello a ritroso della memoria ha innervato fin qui il libro, con Lezione di tenebre siamo nel centro fisico, per dir così, del Convito (tre parti lo precedono, tre parti lo seguono, seppure ognuna di diversa consistenza in numero di testi) e il tempo è quello presente della storia, dei conflitti in atto, delle migrazioni. La voce che, in esergo, apre la sezione appartiene a Paul Celan: «Wahr spricht, wer Schatten spricht / Dice il vero, chi dice ombra» e invita a fare i conti con l’ombra malvagia e violenta scatenata dall’uomo contro l’uomo, con «la trama / sconfinata di ferite che è il mondo», com’è già scritto nei versi finali di Mattino di mezzagosto a p. 23. La poesia s’immerge in pieno nel dolore del mondo, guarda Di là dal sipario (p. 79) che inizia con una quartina d’idilliaca quiete: «Il cielo, questo meriggio, è una maiolica / blu. Dal tappeto delle spighe il rombo / lontano della trebbiatrice. Nuvole / stordite corrono verso la faggeta» – il “rombo” è quello del lavoro pacifico della mietitura, il cielo delle Crete sembra maiolica blu, MA – «Ma di là dal sipario vagano ombre. / Vagano tra i crolli, nel fumo, vagano / tra le rovine. Corpi insepolti, intorno. / Il confine è un altare: voragine di vittime». La guerra in Ucraina infuria, «Alta è la fede / nella perfezione delle armi» (ibidem), «Pugnalate tutte le lettere della pietà» (ibidem), mentre dalle tre quartine centrali (da cui ho citato alcuni versi) si giunge alla quartina finale che chiude circolarmente l’intero testo: «Qui volano le gazze, radenti, verso gli ulivi. / Sul sentiero, tra i corimbi del sambuco, ginestre già sfiorite. Si spegne la primavera. / Il mondo corre verso la sua sera». Gli amati animali (qui le gazze) e gli altrettanto amati olivi non possono e non devono far ignorare la Distruzione (è Prete stesso a scrivere il vocabolo con l’iniziale maiuscola) che divora altre regioni del mondo; senza alcuna retorica, ma affidandosi proprio alla forza espressiva ED ETICA della poesia, Antonio Prete compone questa sequenza di testi che nello Stabat mater di p. 80 sembra raccogliere anche l’insegnamento dei grandi pittori senesi del Duecento e del Trecento che espressero nella figura della Vergine e del Crocifisso l’amore e il dolore umani, messaggio diretto e parlante a chiunque, credente o meno.

Gocce di marmo sul viso.

Una spada la memoria

del suo verbo, del suo riso,

del suo passo nella gloria.

Sul volto spento del Figlio

i bagliori delle stragi,

sul vetro scuro del ciglio

i riflessi dei naufragi.

L’afflizione è un deserto

che contempla nere lune,

con carcasse allo scoperto

e rapaci sulle dune.

E c’è questo male oscuro

che nei corpi s’accanisce,

alla luce si fa muro,

la speranza affievolisce.

Siamo, stille del suo pianto,

nella tenebra dell’ora.

Come scorgere l’incanto

d’una trasparente aurora?

Ovviamente gli ottonari a rima alternata rimandano anch’essi alla tradizione stavolta della poesia religiosa umbro-toscana del XII e del XIII secolo, per cui è d’uopo osservare come il rigore stilistico-espressivo di Prete, inserendosi nell’alveo della grande tradizione italiana (ma non si dimentichi in tal senso Baudelaire), voglia eliminare ogni rischio di sentimentalismo e di stucchevole retorica proprio perché si ha a che fare con una materia magmatica e incandescente, tristissima al punto da ingenerare una Melencolia (p. 81) che, ispirata alla prima delle omonime incisioni düreriane, interrompe (ahimè a ragione) il flusso gioioso che si diceva caratterizzare Convito delle stagioni: «Gli occhi persi in un pulviscolo cenere, / l’angelo è solo. Inservibili le ali: / non c’è volo in un cielo fatto tenebra. // […] // Aspro il sapore della conoscenza. // C’è un globo: con fulgore di nevi / e incanto di foreste. Lungo il viaggio / la rovina scurisce la bellezza» – e si pensa pure agli angeli di Paul Klee, di Rafael Alberti, di Rainer Maria Rilke, magari anche di Wim Wenders e di Anselm Kiefer, messaggeri tutti che, precipitati nell’umano e irrimediabilmente umani, partecipano del dolore degli umani, sono figurazioni dell’arte dotata di ali nella sua aspirazione a elevarsi al di sopra delle miserie del mondo e che, tuttavia, vuol restare umana partecipando delle sventure umane.

E un angelo può avere anche il nome di una giovanissima infermiera palestinese uccisa dal fuoco israeliano mentre il primo giugno 2018 soccorreva i feriti durante una manifestazione al confine di Gaza:

Razan al-Najjar

Raggiavano i suoi vent’anni nel fumo

degli spari.

                  Razan Ashraf al-Najjar,

infermiera palestinese, uccisa

mentre correva a soccorrere feriti.

Pietà crivellata di piombo.

Secchi i gigli bianchi, sfiorite le piante

di nardo e di croco, di cannella

e di cinnamomo.

                           La gazzella e il cerbiatto

si sono nascosti nella rupe.

Nessuna speranza ospita

la pazienza del cavallo stellato.

Di qua dal filo spinato,

la mano di Razan è ancora ferma nell’aria.

(p. 82)

Lezione di tenebre accoglie anche un testo che ricorda la pandemia da Covid 19 per  articolarsi poi nei sette testi eponimi i quali, nello spirito della “lezione di tenebre” classica, commenta le prime sette lettere dell’alfabeto ebraico: «Alef  // […] L‘alef è l’ala del visibile: la gloria del suo essere abolisce il vuoto. Dissolti, al suo passaggio, i riverberi del niente. Ma l’eden presto fu in fiamme: sopra il fumo si levava il vortice delle galassie, la perfezione delle ellissi astrali. Senza confini la geografia terrestre del dolore» (p. 85); «Bet // […] C’erano carovane in cammino verso nuovi attendamenti: corpi feriti portavano sulle spalle altri corpi privi di vita. La distruzione fu vestita di ragioni, prese il nome di storia. E nella storia tutte le lettere dell’alfabeto furono scompigliate»(ibidem); «Dalet //  Il suo pensiero era rivolto alle quattro direzioni del mondo, era questo che la lettera dalet chiedeva, ma andando seguiva un solo cammino, quello che conduceva verso la porta della città. […] la memoria del naufragio sulla pelle, i volti degli scomparsi nel battito del cuore. […] Nell’esplosa primavera ciascuno era solo con il suo dolore» (p. 86); «Vau //  E vide che tutt’intorno era cenere. Le strade erano fiumi di polvere, i piedi si sollevavano a fatica dalla melma. Sopra, il cielo ea di pietra. // Armi nelle strade: gli inermi trucidati. E di là dal confine, rase al suolo le città, gli ospedali e i campi dei profughi bombardati, tutto un popolo messo in fuga, allontanato dalle proprie case, i feriti nascosti sotto le macerie» (p. 87); «Zayn // […] Di qua, il barcone sferzato dalle onde, occhi che vedono i corpi spenti galleggiare, braccia che stringono il vuoto di un figlio senza respiro» (ibidem).

È interessante segnalare che nel 2020 la Casa Editrice maceratese Giometti & Antonello pubblica un libro di Giorgio Agamben (Quando la casa brucia) articolato in quattro parti, la cui terza parte è intitolata Lezione nelle tenebre e che, ispirandosi a ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico, il filosofo riflette sull’aspetto politico della lingua, sul rapporto tra la parola e la lingua, tra l’idioma e la grammatica, tra lingua nazionale e dialetto, tra i nomi e le cose; scrive tra l’altro: «Zajin // Chi compie questa esperienza della parola, chi è, in questo senso, poeta e non soltanto lettore della sua parola, ne scorge la segnatura in ogni minimo fatto, ne testimonia in ogni evento e in ogni circostanza, senza arroganza né enfasi, come se percepisse con chiarezza che tutto ciò che gli capita, commisurato all’annuncio, depone ogni estraneità e ogni potere, gli è più intimo e, insieme, remoto» (Quando la casa brucia, op. cit., p. 43), osservazione che trovo estremamente calzante leggendo l’autore del Convito delle stagioni.

Un’ultima notazione a proposito di Lezione di tenebre: i sette frammenti eponimi sono esplicitamente dedicati alla memoria di Edmond Jabès («esegeta poetico di molti luoghi del Talmud e delle sue variazioni narrative nella diaspora», scrive Prete in nota) e di José Ángel Valente, il poeta spagnolo, traduttore di Jabès in castigliano, autore a sua volta «di un testo poetico intitolato Tre lezioni di tenebre (Tres lecciones de tinieblas, 1980): meditazioni o variazioni sulle prime quattordici lettere dell’alfabeto ebraico» (sempre Prete nella medesima nota) – Prete e Valente si sono conosciuti a Parigi proprio grazie a Jabès e Valente è una di quelle voci sia poetiche che amicali che nel Convito concorrono a quel “soffio che fa essere le cose” e, aggiungerei, che fa essere la scrittura in poesia, che chiama appunto a convito diverse esperienze esistenziali e artistiche.

Avviamoci ora nella terz’ultima parte del libro, riaffacciamoci sul mare salentino attraversando il Quaderno blu marino e, anche, ricordando che in Tutto è sempre ora esiste una parte intitolata Taccuino blu, circostanza che mi spinge a consigliare, se possibile, di leggere insieme i due libri einaudiani, scoprendo così che si tratta di un dittico le cui due ante posseggono molte corrispondenze e molti rimandi reciproci e, volendo, si possono aggiungere Menhir e Se la pietra fiorisce in un ideale polittico poetico spero ancora in fieri:

Il Sud nei pensieri

Quieti mostri che reggono balconi,

pensosi visi di leoni, stemmi

inghirlandati d’acanto, febbrile

grido di pietra tra statue di martiri

sulle facciate delle chiese, dove

lo scirocco sfigura in arabeschi

le cornici, vicoletti di calce

in cui la luce trascina l’azzurro,

ombrose corti, con il ficus alto

addossato alle arcuate scalinate,

torri moresche che graffiano i cieli,

cupole che da maioliche rosse

mandano lampi verso l’imbrunire,

sfilacci viola di nubi che cadono

sopra le insenature, acqua che romba

nelle grotte e schiaffeggia le scogliere:

è il Sud, lingua del ricordo, polvere

celeste nella materia dei giorni,

il Sud che è lontananza e insieme spina,

terra rossa, tumulto di partenze,

il Sud delle ferite e dell’attesa,

dove gli angeli stanno rintanati

dentro l’anima della cartapesta,

il Sud che è il vento dei pensieri.

(p. 91)

È testo degno di figurare assieme ad altri classici della poesia salentina (la Lecce di Bodini, di Claudia Ruggeri, di Vittorio Pagano, d’Ilaria Seclì, la campagna salentina di Comi, di Carla Saracino, di Salvatore Toma e – perché no? – insieme con la pittura di Vincenzo Ciardo, di Nino Della Notte), sequenza di quartine amorosamente intese a cantare un Sud ricco di bellezza e memoria, pur ferito e oltraggiato. Ma il segreto di questa poesia sembra stare nella parola che, quando s’apre e distende i suoi silenzi, diventa «un tappeto per il cammino» (La parola, p. 94) – e abbiamo già notato il carattere anche odeporico del Convito nel cui andare si profila infatti Il monastero di Casole (p. 97), già faro di civiltà greca in Terra d’Otranto e oggi visibile in pochi resti isolati nella campagna: «Poco a Sud di Otranto, in mezzo al lentisco / e alla ginestra spinosa ho cercato / i resti del Cenobio basiliano. / […] / Il suono dellla simandra, cadenza / di preghiera e di scrittura, è il soffio / del libeccio nel canneto. L’affanno / sulla metrica d’un epodo greco / è grido della poiana che cerca / la palude» – la visita si conclude col ricordo dell’assedio turco del 1480 e con il riferimento alla vicina base radar militare, anche in questo caso mostrando la stratificazione temporale che continua a fare del Salento una terra al contempo antichissima e contemporanea (ivi compresi i suoi risvolti negativi e minacciosi). Càsole è nome luminoso e glorioso, importanti manoscritti copiati nel suo scriptorium si trovano nelle biblioteche d’Europa e la dedica all’amico Domenico Pazzini, studioso di patristica, rafforza un doppio filo conduttore del Convito consistente nell’amore per la cultura e nell’amicizia la quale ha, spesso, uno dei suoi motivi fondanti proprio nella comune passione per la cultura e per la bellezza, in una linea d’ascendenza dantesca (non mi stancherò di sottolineare quanto Dante sia presente nel libro di Prete) che ha nell’affinità tra sodali praticanti la poesia, la ricerca, la filologia un suo tratto distintivo. Ed ecco, infatti, già alla pagina successiva (la 98, Punta Palascía) il testo che si conclude col verso dantesco «Dolce color d’orïental zaffiro», perché qui siamo nel punto più orientale d’Italia, perché qui si dà a vedere «Una fioca trasparenza sul confine: / il profilo dell’Albania, tremante / lucore che svapora» (si noti il pregnante enjambement tra “tremante” e “lucore”, la forte presenza dei due punti dopo “confine” e non sfuggano le scelte lessicali che rimandano, immediate, al lessico del Purgatorio dantesco).

Punta Palascìa al mattino: «Dolce color d’orïental zaffiro»

Da Dante a Mandel’štam il cammino appare quasi obbligato, per cui dal verso incipitario, mandel’štamiano «Simile a una cesura il giorno si dilata» (Le sillabe, il giorno, p. 102 – si noti anche la bellezza in sé di molti titoli) si sviluppa una danza di gru, di sillabe che si cercano come nuvole, quel che non accade è un lampo nel cuore del verso, la sopravveniente notte, dopo il vespro estivo, «affonda le frasi nel vuoto», mentre brilla una moltitudine di astri e «non c’è lingua che possa decifrare / il geroglifico di quel perduto scintillio» (altrove Prete aveva detto della luce stellare che spesso ci raggiunge nel momento in cui la stella che la emise è già estinta in una dolorosa asincronicità tra tempo astrale e tempo umano). Ci si soffermi sul significato della cesura, non semplice elemento del verso e della prosodia, ma presenza fondante del respiro stesso e quindi dei ritmi vitali in un rispecchiamento continuo tra macrocosmo e microcosmo, tra vita biologica e vita intellettuale, tra cicli naturali e cicli interiori dell’essere umano; il dilatarsi del giorno-cesura è in rapporto diretto con la percezione che gli umani hanno dell’alternarsi di luce e di buio, di moto e di stasi, di suono e di silenzio, musica sottesa all’esistere stesso del cosmo tutto (e si veda qui il senso profondo di Convito delle stagioni, la sua capacità di restituire l’intuizione di tali ritmi); la concezione dell’armonia cosmica che è vero Dante eredita dagli antichi, ma che con sensibilità eccelsa trasfonde nel mirabile poema e che il poeta russo, pur tra atroci sofferenze e pur fatto oggetto di feroci minacce, mai perde di vista esprimendola anche in forma di lingua della poesia, accende di bellezza la scrittura di Prete, induce a rileggere certi notturni leopardiani (anche il Convito è denso di notturni e di lune), certi testi di Jaccottet, di Machado, di Eliot, di Rilke e potrei continuare… 

Ma Quaderno blu marino si chiude con un breve testo in prosa che rievoca la Xylella (p. 110) iniziando con una bellissima immagine («Lungo le strade, selvose onde di ulivi, un tempo: un mare che confinava con il blu dell’altro mare») che il triste presente rende struggente ricordo, ché «Dovunque, ora, intrichi di brunite ramaglie, grovigli di spettrali fronde»; la brevità del testo e l’assenza di toni patetici, il realismo  invece impietoso della descrizione della devastazione ne sigillano la necessità (non si può tacere su quello che è accaduto nel Salento negli ultimi anni, né su errori ed equivoci) e testimoniano un’attenzione che rifiuta di rifugiarsi infantilmente in un “tempo che fu”, in paesaggi belli e idilliaci che non sono mai esistiti, visto che lo splendore della campagna salentina significava anche fatica, lavoro malpagato per migliaia di contadini, sfruttamento delle classi subalterne – mi preme scrivere questo in quanto Antonio Prete non possiede mai un atteggiamento estetizzante nei confronti del reale, la ricerca della bellezza non significa affatto non voler vedere le ferite inferte alla natura e agli esseri umani.

I Fiori d’aria della penultima parte sono sei testi in versi composti (prendo in prestito l’espressione contenuta in Il nome a p. 116) con «velature da pastello acquoso», assai interessanti in quanto non esplicitano mai il loro tema, ma, accennandovi e subito come ritraendosi, sembrano muoversi in regioni, appunto, sfumate (velate) tra elegia, memoria, ricordo di un amore passato, lutto per un’assenza – questo mi permette di richiamare l’attenzione sul fatto che Antonio Prete, all’interno del rigore e della coerenza che contraddistingue tutto il suo lavoro, sperimenti le diverse possibilità espressivo-artistiche della scrittura, seguendo filoni tematici acclarati («Nello specchio della lontananza / traspaiono volti salvati dalla giostra / del tempo» in Incerta luce, p. 118,«Un fiore d’aria, il ricordo» in Lungo la scogliera, p. 117, «Il desiderio, insonnia delle sillabe, / arsura dei pensieri» in Nozione dell’alba, p. 115) egli modula le diverse possibilità ritmico-linguistiche, l’amore per la lingua (asse portante, tra l’altro, della collana La pantera profumata da lui curata per l’Editore Manni) l’amore della lingua, scrivevo, sta anche in queste modulazioni e variazioni ed esplorazioni. Il fatto che sia sempre una figura femminile a profilarsi (la madre o l’amata) torna a rafforzare l’idea che scrivere in poesia significhi coltivare la lingua materna in quanto trasmissione, lungo la linea del concepimento e della vita, di un saper dire il vivere e il vivente.

Lingua materna (o come lui stesso efficacemente scrive in nota “lingua prima”) è per Prete, già lo sappiamo, sorgivamente il dialetto salentino di Copertino, La lengua, lu ientu dei tre testi in versi con i quali si chiude il libro.

Tempesta

Lu ientu sta’ mpazzesce a mmienz’a l’àrriri,

nuegghie neure, sta chiànginu li pethre.

A’ n croce la spiranza cu lucesce,

l’angilu ti lu crai stae ‘n funnu a mmare.

Turbina, pazzo, il vento in mezzo agli alberi,

nuvole nere, piangono le pietre.

Crocefissa la speranza dell’alba,

l’angelo del domani è in fondo al mare.

(p. 121)

Se l’Angelus Novus di Paul Klee, commenta Walter Benjamin, può essere interpretato come l’Angelo della Storia che ha gli occhi fissi sulle catastrofi del passato (vorrebbe risvegliare i morti, riparare ciò che è stato distrutto, restare) mentre la tempesta che ha ingabbiato le sue ali lo spinge verso il futuro, ebbene mi spingo a riconoscere il medesimo angelo in questi due distici, anche perché la chiusa delle liriche successive è altrettanto amara: «E ghé iernu, lu iernu ti lu munnu – Ed è inverno, l’inverno del mondo» (Iernu, p. 122), «Ti ddò sta bbene sta ‘oce, ti quale / ciardinu sale sta ‘ndore di chiante / ca l’anni e li cilate anu siccatu? – Da dove viene questa voce, quale / giardino manda il profumo di piante / che gli anni e le gelate hanno seccato?» (La cumeta / L’aquilone, p. 123). La lingua prima non, dunque, come folcloristica archeologia linguistica, ma, anzi, come protesta politica e civile, come presa di posizione chiara contro le derive che stanno avvelenando la terra e uccidendo migliaia di innocenti. La lingua prima è un ritornare di voci o dal passato o dal profondo della mente: si pensi soltanto alla nominazione, precisa e amorevole, delle singole parti della cumeta/aquilone (zínzuli ti cote/sfilacci di code, li canne/le canne, li ricchini/gli orecchini) e al librarsi nel vento dell’aquilone che, sul mare, sembra andare insieme a una vela, entrambi sembrano sparire nel crepuscolo serale, non si resti insensibili al richiamo che apre il testo («”Uagnuni, issíti, issíti, nc’è ‘n cielu / ‘na cumeta ca sta bula” / “Ragazzi, uscite, uscite, c’è in cielo / un aquilone che vola”») che sembra un appello ad aprirsi al mondo, al ricordo, al profondo (e all’alto) del pensare e del sentire.

“Recupero” infine due testi che mi piace collocare in chiusura di questo mio attraversamento l’uno perché, richiamando com’era già accaduto in Tutto è sempre ora, il Site transitoire di Jean-Paul Philippe e aggiungendo la figura di Luca Signorelli in viaggio verso l’abbazia di Monte Oliveto (ma i “tappeti gialli di spighe” e i “cipressi” mi fanno pensare anche a Van Gogh), conferma il carattere itinerante e nomade del Convito, l’altro perché, cantando l’alfabeto/gli alfabeti, sembra capace di rispecchiare nel volgere dei suoi 15 versi l’intero libro.

Verso Asciano

La ruvida asperità dei calanchi

si apre nell’onda dolce collinare

sotto una volta che è di pietra azzurra.

Tappeti gialli di spighe. Un corteo

di cipressi che sale verso torri

inselvate. Sopra gli specchi d’acqua

il grido dell’estate è un giuoco d’ombre.

Ma lungo le giravolte s’addensano

parvenze. Sono transiti, ascensioni,

passi di antichi viandanti in ascolto:

la ferita della terra era in dialogo

con la promessa di un celeste approdo.

Andava Signorelli, in questa luce,

andava sotto il volo alto dei falchi

verso il tripudio narrante del chiostro.

(p. 35)

Gli alfabeti

Alfabeti di antiche lingue

che inseguono il suono perduto.

Alfabeti che stormiscono come alberi al vento.

Alfabeti vigorosi: ogni lettera un urlo.

Alfabeti che in ogni lettera

custodiscono il grido di una passione.

Alfabeti in cui risuona la voce del mare,

delle onde alla scogliera, della risacca.

Alfabeti che sanno la tempesta, i bisbigli

notturni dei boschi, i versi degli uccelli.

Alfabeti in cui ogni lettera è soglia

di un silenzio infinito.

Le lettere di tutti gli alfabeti

cercano un suono che un poco somigli

al soffio che fa essere le cose.

(p. 96)

[“Via Lepsius” del 12 settembre 2024]

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