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Sera.
Ecco come Gerard Genette, Palinsesti, cit., p. 303 immagina che Marcel Proust descriva la propria situazione narratologica: “Situazione che è più o meno la seguente: “In questo libro, io, Marcel Proust, racconto (in maniera fittizia) come incontro una certa Albertine, come me ne innamoro, come la sequestro, ecc. È a me stesso che in quest’opera attribuisco tali avventure, che nella realtà non mi sono affatto accadute, almeno non in questa forma. In altre parole, mi invento una vita e una personalità che non sono proprio (“non sempre”) le mie”. Come chiamare questo genere, questa forma di finzione – perché si tratta proprio di finzione, nel senso forte del termine? La definizione migliore sarebbe forse quella che Serge Doubrovsky applica al proprio racconto: autofinzione“.
Ora, mi chiedo, i racconti che ho scritto in prima persona, non sono forse anch’essi mie autofinzioni?
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Ho finito di ricopiare l’articolo di mio padre riguardante il Carteggio Benedetto Croce-Ada Gobetti. Papà non ha più la febbre, ma deve fare i conti, insieme a mia madre, con una situazione ospedaliera a dir poco pessima. Addirittura nel reparto di Medicina non si era in condizione di trovare una sedia a rotelle, e mia madre ha dovuto parlare col direttore dell’amministrazione e col primario del reparto per ottenerla, come un grande favore. Inoltre otto ammalati in una camera mi sembrano un po’ troppi; come gli sfollati durante la guerra, insomma.
3 giugno 1998
“Questi ippocastani saranno della natura di quelli che si coltivano in Lombardia per uso Passeggi e Giardinaggi e, per la migliore riuscita ed omogeneità di circostanze fisiche, verranno esclusivamente trascelti dal Parco Imperiale di Monza (…)”
Dall’ “Atto d’appalto dell’opera – toccata a Minossi Antonio – in data 12 marzo 1853” del Comune di San Pellegrino, citato in G. Pietro Galizzi, San Pellegrino Terme e la Valle Brembana, Ferrari Edizioni, Clusone 1996, p. 241. A p. 242 precisa che “L’opera fu collaudata nel 1854. Il filare parallelo e quelli verso i portici furono piantati negli anni successivi, come quello dei platani verso la fonte, ricordato dal Torricella nel 1872. Si augura che questo ornamento sia conservato”.
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Papà è in ospedale, sta bene, e si sta sottoponendo a tutte le cure e le analisi che gli vengono proposte. Ornella si è sottoposta a un’ecografia nell’ospedale di Lecce. Sofia sta bene, pesa due chili e ottocento grammi, ma girandosi nella pancia della mamma si è attocigliata il cordone ombelicale intorno al collo. I medici dicono che non fa nulla, che succede spesso, ma io sono un po’ in ansia, e così pure Ornella.
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Si legga quanto scrive Gerard Genette, Palinsesti, cit., p. 142 a proposito dell’autopastiche. Ebbene, credo proprio che il mio racconto dal titolo Dieci secondi di panico sia nient’altro che un autopastiche fatto da me medesimo. Infatti io imito parodicamente la mia tendenza a raffigurare la razionale complessità del reale, attraverso una subordinazione sintattica interrogativa o consecutiva (Perché, sicché), e la imito attraverso le perifrasi con cui descrivo il discorso del professore di Lettere del Liceo di Fontematta che, di fatto, non dice un ben niente. L’autopastiche non potrebbe dunque avere valore apotropaico? Intendo dire che io facendo la parodia del mio stile, ne avverto il limite, e cerco di superarlo col mostrarne l’inanità.
Il critico analizza l’autopastiche di Proust consegnato nella Prisonnière al personaggio di Albertine che “imita (oralmente) uno stile (scritto) che non ha mai avuto occasione di conoscere: lo stile che, nella finzione Marcel sarà destinato a praticare in seguito, nella sua opera futura, molto tempo dopo la morte di Albertine. È un pastiche palesemente – benché discretamente – satirico, per l’invadenza del procedimento che viene ridotto qui al solo virtuosismo, e privato di quella funzione estetica, addirittura metafisica, che gli verrà attribuita dal manifesto del Temps retrouvé. Perché con la critica che travolge e investe questo pezzo di bravura Marcel non si limita a sottolinearne l’inadeguatezza in una conversazione; egli vi trova comunque “una grazia un po’ facile”, una poesia “meno bizzarra, meno personale di quella di Céleste Albaret, per esempio”. Espressioni di questo tipo indicano come nonostante l’immenso potere attribuito alla “metafora” Proust avvertisse quel lato un po’ lezioso, e anche un po’ convenzionale, spesso presente nelle sue produzioni più spettacolari o dimostrative, ed è quest’unico tratto stilistico, il più esposto, vale a dire il più percepibile e al contempo il più vulnerabile, che egli consegna all’imitazione restrittiva di Albertine. In questo caso il ruolo (auto)critico del pastiche non si esercita quindi esagerando l’insieme dei tratti, ma isolandone uno solo, che di conseguenza viene privato della sua funzione strutturale rispetto alla totalità dell’opera e viene ridotto per questa stessa operazione allo stato di procedimento. Riduzione del tutto conforme alla spirito della caricatura classica: la metafora diventa qui – ciò che in effetti è – il proustismo per eccellenza. Crébillon, Balzac e altri Burnier-Rambaud direbbero probabilmente che Albertine non parla più il francese, ma il “Marcel Proust”. Questo, del resto, si chiama prousteggiare“.
4 giugno 1998
Ho aperto un nuovo file intitolandolo incontri.wps nel quale è mia intenzione di trascrivere le pagine aneddotiche degli scrittori che raccontano il loro incontro con altri scrittori. È un modo per ripercorrere uno dopo l’altro gli anelli della catena umana che ha nome letteratura. Mi sembra affascinante e suggestivo scoprire come si siano conosciuti o ignorati gli autori che hanno fatto la nostra storia letteraria; e forse questo è un modo per avvicinarsi, certo un modo molto estrinseco, a quell’immenso campo di studi che è la letteratura. Diciamo pure che è un modo che appaga la nostra curiosità spicciola. Eppure, se questi autori non si fossero incontrati, probabilmente il corso della nostra storia letteraria sarebbe stato diverso. Penso al rapporto Cavalcanti-Dante, Boccaccio-Petrarca ecc.
Riporterò non solo le fonti, ma qualora risultino convincenti, anche quelle pagine di autori critici che hanno ricostruito questi incontri.
6 maggio 1998
L’estate è arrivata improvvisamente, anticipando caldi eccessivi anche in montagna. Stamani, ore 9 e 30, il temometro segna 28 gradi. Ieri a Galatina c’erano 37 gradi. Papà uscirà dall’ospedale questa mattina, perché i dottori dicono che non ha nulla, che sta bene e che può tornarsene a casa. Gli hanno solo consigliato, dopo le sue e nostre innumerevoli pressioni, di ricoverarsi venerdì prossimo, per sottoporsi a una TAC di accertamento.
Ornella sta bene, e insieme, anche se lontani, attendiamo la piccola Sofia. Giulia è sempre una birba di prima categoria, ma a me piace così. Io continuo a trascrivere gli articoli di mio madre (l’ultimo, inedito, ha per titolo Il Modernismo tra ascetismo e misticismo); inoltre, limo ancora i miei racconti, e noto con piacere che con le ultime letture, non ho apportato grandi variazioni, il che vuol dire che mi sto avvicinando alla versione definitiva dei miei racconti. Ora riporto ciò che dice G. Genette, Palinsesti, cit., p. 333, in proposito: “(…) potremmo forse distinguere due grandi famiglie di scrittori: quelli in cui predomina la riduzione, e che non riescono a rileggersi senza cancellarsi (Flaubert, Chateaubriand, Mauriac, Buffon), e quelli che non possono rivedere il proprio lavoro senza apporre aggiunte a margine, fra una riga e l’altra, su bécquets e parerolles, fino alle bozze e, dopo la pubblicazione, agli esemplari interfogliati: Proust, naturalmente, ma anche Balzac o Montaigne. La maggior parte delle volte, tuttavia, questi due movimenti coesistono e cooperano, oppure si alternano. L’opera oscilla incessantemente, alla ricerca di un “compimento” e di una giusta misura, fra il troppo e il troppo poco. Fino alla decisione spesso imposta, o arbitraria – e subito sancita, se non addirittura santificata (feticizzata), dalla critica e dalla posterità”.
Ecco, io perlopiù cancello, sottoponendo il racconto ad una specie di cura dimagrante, togliendo tutto quello che non è strettamente funzionale, ma talvolta anche aggiungo una frase, un noticina, a completamento o a chiarificazione di ciò che già è scritto. E si noti che questo rimaneggiamento non è per nulla facile. Forse l’ho già detto, e qui mi ripeto: ho impiegato meno tempo a scrivere i miei tredici racconti, di quanto non ne abbia impiegato a correggerli.
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Leggo ne “L’Indice” del mese di giugno 1998, p. 19, in un articolo di Antonio Franchini dal titolo Ossessioni e marginalità, come ricostituenti, questa affermazione sulla letteratura, che condivido e, dunque, riporto: “Mi sembra che la letteratura debba coltivare la propria marginalità perché il tono più autentico che le conosco, il suo destino naturale, sta nel lavoro sul particolare, nell’accedere alla profondità del senso attraverso le feritoie, i varchi ostruiti, le porte di servizio. Mi piace, a costo di sembrare patetico, sottolineare come il lavoro dello scrittore marginale ed estromesso dal grande gioco contemporaneo della produzione d’immaginario per le folle goda di un vantaggio che è una sua caratteristica di sempre ma che, oggi, condivide con un numero sempre minore di attività umane, ed è il vantaggio della totale libertà, accompagnato dal gradevolissimo peso della totale responsabilità”.
7 giugno 1998
Così mi piace immaginare Femio e Demodoco, i cantori omerici, come due personaggi marginali nei palazzi greci, usati dai potenti per la loro arte, rispettati anche, perché il loro essere maestri li rendeva sacri, come sacerdoti laici d’una divinità capace di perpetuare il ricordo: Mnemosyne. I poeti sono in balia del potere, che oggi è individuabile nel gusto facile e mutevole della massa di lettori, i quali, prima d’essere lettori sono spettatori televisivi, assuefatti alle brutture d’ogni specie che infestano i film e gli spettacoli. Ma il poeta non vive in una rocca isolata e imprendibile; egli è seduto in un angolo, ed assiste al banchetto organizzato dai proci a spese di Odisseo, ed è chiamato a cantare, talvolta, a far risuonare le sue storie nel bailamme della festa. Ma chi vuoi che in realtà lo ascolti? Odisseo non arriverà, egli pensa, a seminare il terrore e la strage, a fare tutt’intorno silenzio. La voce del poeta si confonderà con le risa degli ingordi, con le grida delle serve infedeli. Il poeta è rassegnato al peggio, non spera più nell’arrivo del padrone, di nessun padrone, non lo auspica nemmeno, perché un nuovo padrone sarebbe violento quanto Odisseo, ma la sua violenza sarebbe più devastante. I ricordi lo incalzano, e lo inducono a non cessare il suo canto. È la giustizia che lo fa cantare, la misura della sua poesia, il suo ritmo; da essa egli auspica che venga la vendetta sui proci, non dall’arco di Odisseo. La mancanza di misura sarà sopraffatta dalla misura, il non senso dell’ignavia, della presunzione e dell’incapacità di fare dalla poesia, l’aritmia dal ritmo. Così sarà fatta giustizia, prima dell’arrivo del padrone.
9 giugno 1998
Da qualche giorno sto preparando i pacchi contenenti tutto ciò che non porterò con me durante le vacanze estive. Come accade ormai da circa dieci anni a questa parte, all’inizio di giugno bisogna che mi dia da fare per riporre la roba invernale, cappotti, maglioni, pentole, tegami e tutto il resto. Quest’anno poi, non essendo con me Ornella, devo fare tutto da solo, anche se, devo ammettere, prima di Pasqua Ornella aveva provveduto a riporre un bel po’ di roba. In questi anni, non potendo vivere del solo necessario, si sono accumulate in casa molte cose superflue, ed ora venti cartoni di medie dimensioni non bastano a contenerle tutte.
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Ornella negli ultimi giorni è un po’ nervosa, lo sento dal modo in cui parla al telefono, incapace di nascondere le sue emozioni. Perché dovrebbe? Beh, almeno per non tenermi sulle spine! Oggi, ad esempio un mediconzolo incontrato per caso l’ha inutilmente allarmata, e lei mi ha riversato addosso tutta la sua inquietudine, cosicché io sono stato in pena per molte ore, finché l’allarme è cessato.
A volte penso che per mettere al mondo un bambino bisogna essere un po’ spregiudicati e temerari. Ma forse questa è una virtù da contrapporre all’ignavia e alla viltà. Solo spero di riuscire ad assicurare a Sofia, come a Giulia, delle condizioni di vita almeno discrete, perché non possano mai dolersi d’essere state messe al mondo.
10 giugno 1998
A proposito del racconto Dieci secondi di panico, ho trovato una bella definizione della parola panico data da Gerard Genette, Palinsesti, cit., p. 433: “È quello che, in stile nobile, viene chiamato sentimento panico, parola che esprime piuttosto chiaramente quanta grandezza possa esserci nella fifa”.
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Se Tizio, parlando con Caio, assume un atteggiamento di chi vuol spiegare una cosa, sottintendendo con questo che Caio quella cosa non la conosce, si pone in una posizione di superiorità rispetto a Caio, sicché Caio, sebbene non conosca l’argomento di cui gli parla Tizio, lo guarderà in cagnesco, come farebbe ogni uomo con un proprio io narcissico ben strutturato, e subito dopo, magari dopo averne carpito l’argomento, e dunque sentendosi alla pari con Caio, o anche a lui superiore, lo manderà a quel paese. Questo avviene in situazioni di piena libertà, tra persone perfettamente normali.
Ora trasferiamo le modalità di questo normale rapporto in un’aula scolastica, e consideriamo il rapporto studente-insegnante. Bene, il rapporto studente-insegnante è identico, si svolge con identiche modalità e dà luogo alle stesse reazioni psicologiche. Perché dunque lo studente non manda a quel paese l’insegnante? In realtà lo manda a quel paese ogni giorno, e se non lo fa apertamente è perché a scuola non vive in regime di piena libertà. Se il rapporto di subordinazione insegnante-studente dovesse saltare, sarebbe impossibile fare lezione.
A ciò si aggiunga che nel rapporto scolastico tra Tizio e Caio si inserisce anche Sempronio, il genitore, il cui fine è diverso da quello dell’insegnante. Per riassumere, l’insegnante ha come fine ultimo quello di istruire ed educare lo studente, fornendogli un habitus culturale e critico, oltreché un bagaglio tecnico e scientifico. Il genitore vuol vedere il proprio figliolo presto realizzato nella vita, autonomo e indipendente, e a questo fine egli coopera col figlio, sgombrando il suo cammino da tutti gli ostacoli dell’esistenza. Bene, spesso accade che l’insegnante o la scuola in generale sia considerato dal genitore un ostacolo sulla via della piena realizzazione del proprio figliolo.
Da quanto è detto si desuma la ragione per cui Sempronio (il genitore) debba essere tenuto a distanza nel rapporto studente-insegnante, come elemento che, in questo rapporto, funge da ostacolo alla piena realizzazione del dialogo educativo.
Accade (quando il genitore è invadente) che lo studente, non volendo, o preferendo non accollarsi le proprie responsabilità, faccia leva sull’amore dei genitori in funzione anti-insegnante, dipingendo l’insegnante come colui che impedisce la sua crescita vitale.
Si danno due tipi di genitore: il primo fiducioso nell’insegnante, il secondo non fiducioso. Nel primo caso il rapporto studente-insegnante si realizza, nel secondo no. Lo studente è sempre condizionato dal rapporto che si stabilisce tra i due adulti (insegnante e genitore), e laddove questo rapporto non è positivo, mai il rapporto studente-insegnante potrà esserlo.
Penso a queste cose, tre ore prima di procedere alla scrutinio finale.
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Neanche a farlo apposta, leggendo stasera un’intervista rilasciata da Franco Fortini nel 1993 e pubblicata dalla rivista “Poesia”, giugno 1998, a cura di Sergio Palumbo, trovo parole simili alle mie dei giorni scorsi, dedicate al tema del rapporto poeta-potere. A p. 30 leggo: “Dal punto di vista sociologico, la sorte del poeta è stata segnata una volta per tutte nell’Odissea. Quando Ulisse, tornato a Itaca, si vendica dei proci, massacrandoli, poi, spaventatissimo, salta fuori il cantore che gli chiede di risparmiarlo perché confessa di aver cantato per i pretendenti al suo trono, ma sotto costrizione, mentre ora potrà farlo liberamente per lui. Ulisse non lo uccide, ma da quel momento il destino dello scrittore in Occidente è segnato. Questa è la contraddizione implicita nella poesia come impegno”.
Ma non c’è nessuna contraddizione, perché, come Fortini stesso afferma poco prima “Il cantore un tempo, dopo aver allietato il signore con i suoi versi, passava la notte in una squallida osteria come il resto della servitù, perché questa era la sua posizione sociale” (ibidem).
E non è difficile intuire che Femio, se chiede di essere risparmiato, è perché non vuol morire, e vende la sua arte al nuovo padrone, che lo risparmia. Omero sa tutto questo, e ce lo dipinge con colori evidentissimi, in un certo modo confessandosi, mostrando lo stato di necessità in cui versa il poeta, e la sua unica possibilità di sopravvivenza, la sua arte. Non c’è contraddizione, ma accettazione del destino dell’artista occidentale, engagé per forza di cose. Ma che cosa dunque dovrebbe cantare, ricordare, il poeta, se non il contrasto tra gli uomini, la lotta per il potere, che è la lotta per la sopravvivenza? Forse capire questa verità significa accettarla, e dunque acquistare in saggezza, sapere qual è il proprio limite e la propria misura.
Femio prima della venuta di Ulisse avrebbe cantato “sotto costrizione”; mentre d’ora innanzi canterà “liberamente”. Questo vuol dire che Femio riconosce un potere per il quale si può cantare “liberamente”, come se questo potere non fosse costrittivo, fosse giusto, a differenza di quello dei proci che era ingiusto e privo d’ogni legittimità. In questo senso il poeta accetta senza alcuna remora di rientrare nell’ottica del rapporto di potere. Egli sa che questa è l’unica organizzazione possibile tra gli uomini, ed è l’unica veramente, verosimilmente rappresentabile.
13 giugno 1998
È con grande gioia, e con un senso di liberazione, che scrivo questa data. Essa segna la fine delle lezioni. Ora rimangono solo gli impegni relativi all’esame di licenza media, e poi potrò riabbracciare i miei cari. Chi leggerà questo diario penserà: “Ma perché costui non cambia mestiere, visto che l’insegnamento gli è così gravoso?”. A chi dovesse fare questa domanda, rispondo che, anche se l’insegnamento è stata una scelta per così dire obbligata, esso mi piace, e vado a scuola volentieri. Ma insegnare a chi non ne vuol sapere di apprendere, e dover lottare contro un preside buonista per bocciare qualcuno che ha solo turbato con un continuo comportamento scorretto le lezioni, e perdere nella discussione su questo argomento più tempo di quanto il fanciullo in questione ha dedicato allo studio durante l’intero anno scolastico, ebbene, tutto questo proprio non mi va. E poi le famiglie che brigano, quando per tutto l’anno sono state assenti, e gli stessi alunni che ti guardano in cagnesco, come se fosse un loro diritto quello d’essere promossi….
Purtroppo è in queste condizioni che si lavora. Ma oggi finisce la scuola, ed è meglio non pensarci più.
Continuo a copiare su file gli articoli di mio padre editi e inediti. Ieri sera ho finito di copiare un articolo inedito sull’ateismo leopardiano; oggi sarà la volta di un altro inedito sullo Zibaldone. Intanto mio padre da ieri sera è in ospedale, per sottoporsi alla TAC, come già stabilito dai dottori. Lui (e anche tutti noi) spera di rimanerci quanto meno è possibile, perché l’ambiente ospedaliero lo deprime.
Rileggo per l’ultima volta i miei racconti.
14 giugno 1998
Ho deciso. Mandero all’editore Piero Manni di Lecce le mie Storie, con una gentile e sobria lettera di accompagnamento. Vedremo se mi risponderà e come mi risponderà. Domattina farò la spedizione. La decisione di non spedire nulla, evidentemente, non era definitiva. Speriamo che questa lo sia.
Ho trascritto quasi per intero un altro articolo di mio padre su Leopardi, una recensione al libro di Fabiana Cacciapuoti edito da Donzelli.
Ho anche preparato le tracce che, se il consiglio di classe sarà d’accordo, proporremo ai nostri allievi di terza, mercoledì prossimo.
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Riprendo la lettura di S. Freud, L’interpretazione dei sogni, e la biografia di Mussolini di De Felice, che avevo lasciato in sospeso qualche tempo fa. Finisco di leggere Il Fuoco di Gabriele D’Annunzio. Devo dire che la forza espressiva del D’Annunzio prosatore è davvero grande, anche se poi tutto sembra svanire in una bolla di sapone. Voglio dire che si avverte nella sua prosa come una promessa di nuovi sviluppi del dramma, che poi, alla fine, è lasciato in sospeso. A parte non poche esagerazioni retoriche, il tessuto linguistico è compatto e resistentissimo, degno invero dei migliori prosatori del Novecento. Dovrò approfondire la lettura; il prossimo libro che leggerò sarà L’innocente.
16 giugno 1998
Ieri mattina ho spedito a Piero Manni editore i miei racconti. Sono emozionato, e mi faccio forza, dicendo a me stesso di non dover sperare in nulla; solo così la delusione sarà meno grave.
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Ieri sera, messo da parte per ora D’Annuzio, ho incominciato a leggere Nabokov, Lolita, Adelphi, Milano 1997 (1955) e veramente trovo che sia un capolavoro. Ho ricopiato le parole con le quali l’autore “accoglie” nel suo libro il personaggio femminile, parole che entreranno nella mia raccolta di incontri o apparimenti testuali. A questo proposito, ho pensato di dividere il libro di citazioni a venire in due sezioni: nella prima descriverei gli incontri tra scrittori, nella seconda gli incontri tra personaggi o i loro “apparimenti” ad altri personaggi, il loro ingresso sulla scena, così come è ideato e realizzato dall’autore. Penso, oltre che a Lolita, a Beatrice che “appare” a Dante, un’altra Lolita, come Nabokov suggerisce, oppure a Gilberte che “appare” per la prima volta a Marcel, ecc. Sono momenti di forte tensione emotiva e drammatica, laddove l’azione di un romanzo si coagula e l’autore rappresenta con la massima intensità il destino di un personaggio.
Le due sezioni del libro saranno precedute da una introduzione nella quale spiegherò il senso di questa operazione critica (perché tale dovrà essere).
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Oggi è una magnifica giornata di sole. Temperature stranamente primaverili, né troppo calde né troppo fredde. I tracciati quotidiani di Ornella vanno bene. Ormai ci avviciniamo al lieto evento, non senza una segreta, intensa emozione. Chi sarà colei che verrà al mondo?
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Fra qualche ora assolverò agli ultimi impegni scolastici: distribuzione delle schede ai familiari degli studenti, e seduta plenaria con la Commissaria esterna che presiederà la Commissione d’esame di licenza media. Sarò impegnato tutto il pomeriggio.
Ora ricopio una parte di un articolo di mio padre su Il Parini ovvero della gloria di G. Leopardi.
18 giugno 1998
Da Galatina giunge la notizia che sono stato segnalato dalla giuria del Premio Montale. Su più di ottocento candidati, sette hanno acquisito il diritto alla pubblicazione presso Scheiwiller, e una ventina sono stati segnalati. Bene, anche se non ho vinto un bel niente, perlomeno ora so che le mie poesie, almeno a qualcuno, sono piaciute. L’ho saputo poco fa, mentre stavo spazzando la mia casa, sempre piena di lanugini che non si capisce proprio da dove provengano e come si formino. Voglio lasciare la casa pulita, prima di partire per qualche giorno per Galatina. Ho idea che Sofia nascerà la settimana prossima, e pertanto ho chiesto un permesso a scuola per essere presente al momento del lieto evento. Ho comprato per Giulia La pentola magica, un cartone animato molto pubblicizzato in televisione negli ultimi tempi.
19 giugno 1998
Stamani mi sono svegliato di buonora (questo sì che si dice prousteggiare), alle sei del mattino, tra il cinguettio di uccelli che non conosco, eccetto il solito cuculo. Sono le sette. A quest’ora la luce è bianca e cristallina, trasparente, certo come quella che l’Alighieri riuscì a rendere così bene quando dipinse il suo personaggio sulla spiaggetta del purgatorio: dolce color d’oriental zaffiro.
Ripenso alla notizia della mia segnalazione al Premio Montale: forse è più di quando avrei potuto aspettarmi; e tuttavia non provo una gran gioia, ma solo un intenso desiderio di non desistere, di non fermarmi, di andare avanti. Quella segnalazione forse potrà avere valore di stimolo, e ne avrei bisogno, dal momento che la vena poetica sembra essere esaurita. Ho l’impressione di lavorare in una miniera abbandonata, e di scoprire solo quello che altri, molto più sapienti di me (in fatto di poesia) hanno trascurato, perché avevano le gerle troppo cariche di prezioso materiale. Sono pochi, pochissimi i versi ch’io ho finora scritto, ed ho trentacinque anni compiuti, e nessuna scusante.
Domani sera partirò per Galatina, da dove tornerò a Dossena venerdì prossimo (oggi è venerdì), a sera. È molto probabile che al mio ritorno scriva in questo diario la notizia della nascita di Sofia!
Ho finito di ricopiare gli articoli leopardiani di mio padre, ed ora passo a un articolo già edito dal titolo Franco Antonicelli letterato. Un epigono di Gobetti, che potrebbe figurare in appendice al lavoro su Gobetti.
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Il capitalismo è l’unico sistema economico possibile? Certamente no, si dirà; eppure bisognerà ammettere che gli uomini se ne sono dotati perché esso offre garanzia di benessere materiale ad un numero abbastanza grande di persone. Che ne consegua l’ineguaglianza fra gli uomini, non è condizione sufficiente ad auspicarne o determinarne o procurarne la fine. Difatti, che m’importa se in media uno vive nel lusso più sfrenato, e cento sopravvivono con un magro salario, se il sistema così concepito consente a me, che sono nel novero dei salariati, di mettere al mondo i miei figli e di sopravvivere almeno fino alla morte naturale? Tanto più se, poi, con qualche sforzo o con un pizzico di fortuna, oppure sfruttando al meglio le mie capacità di animale intelligente, posso aspirare, in un domani più o meno lontano, di essere io quell’uno che vive nel lusso più sfrenato, barca a vela di venti metri, Ferrari, ville a destra e a manca, ecc., mentre cento miei simili sbarcano il lunario a fatica, cibandosi di sogni televisivi. Questo è il ragionamento implicito, inespresso, ma onnipresente, in tutte le teste degli uomini, che legittima il sistema e ne perpetua il meccanismo. Bisogna ammettere, ripeto, che si tratta di un meccanismo veramente economico, nel senso che col dispendio minimo (quell’uno che vive nel lusso) l’umanità si è data un’organizzazione che le permette di espandersi e di ingrassare, com’è evidentemente nelle aspirazioni genetiche di ogni animale e quindi anche dell’uomo.
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Un problema che vorrei affrontare prima di por termine a questo diario (che è, come si sa, strettamente legato alla mia permanenza a Dossena; il che non toglie che potrei decidere, una volta tornato a Galatina, di proseguirlo), è il seguente: fino a che punto io ho detto tutta la verità in queste pagine, e fino a che punto ho taciuto o, a limite, ho mentito?
Voglio subito sgombrare il campo da ogni malinteso, e dire che è mia convinzione che mai alcun uomo ha potuto dire tutto quello che realmente pensava, tanto più che spesso molti pensieri che circolano anche per giorni e giorni nella nostra mente sono larve, fantasmi, errori, e non avrebbe senso riportarli liberamente in un diario. Il diario diverrebbe allora il luogo di un esercizio sterile, il resoconto di associazioni di idee che uno psicanalista potrebbe carpirci per interpretarle a nostro danno. Io ho voluto invece che le parole di questo diario, che non è stato scritto solo per me, ma per chi lo vorrà leggere, in ambito familiare o extrafamiliare, sia lo specchio fedele di questa fase particolare della mia vita. Forse le letture che ho fatto e dalle quali ho tratto insegnamenti o spunti di riflessione, validi innanzitutto per me, potrebbero interessare anche ad altri. Ed è certo che sarebbe nel falso chi pensasse ch’io voglia ostentare questa mia dedizione per puro gusto dell’esibizione, perché dimostrerebbe di ignorare una semplice verità, che spesso, con profonda tristezza, vado ripetendo a me stesso, soprattutto nei momenti di sconforto, e cioè che purtroppo io non saprei fare altro che studiare, leggere e scrivere. Forse aveva ragione mia madre quando diceva che avrei dovuto imparare un mestiere.
Non ho detto tutto di me, perché non m’importa scrivere di me, e perché i miei pensieri più intimi non hanno un significato per gli altri, e tanto meno per me, essendo essi larve, fantasmi, come ho già detto. Il pensiero dicibile, esprimibile, comunicabile, nasce al dileguare dei fantasmi della vita, come le forme della realtà occupano la vanità dello spazio vuoto.
Ma è certo anche che non ho detto che la verità. Ma cos’è poi questa verità, se non tutto il dicibile? E allora è più probabile che porre il problema in questi termini voglia dire essere completamente fuori strada.
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Qualche giorno fa ho letto sul “Corriere” un elzeviro sulla vecchiaia dal titolo significativo Accorrete volontarie nella notte dell’uomo di Guido Ceronetti che, dietro la crosta spessa del letterato, dice cose vere e di grande attualità. Il poeta biasima il fatto che il vecchio viva per trenta, quarant’anni, magari tenuto in vita da una medicina selvaggia, senza ricevere o dare una carezza, e provocatoriamente invita le donne che amano veramente gli uomini, e sono poche, ad amarli anche nella loro vecchiaia. Naturalmente uno o due giorni dopo Isabella Bossi Fedrigotti gli ha risposto dimostrando di non capire nulla (e dei suoi argomenti a noi non cale).
Ora, ad integrazione di quanto scrive Ceronetti, si legga Nabokov, Lolita, cit., pp. 158-159, e si consideri bene il narratore che depreca la separazione tra molto adulto e mondo infantile con queste parole: “Il fatto è che l’antico legame tra mondo adulto e mondo infantile è stato nettamente reciso da nuove usanze e nuove leggi.”, e si avrà un quadro abbastanza chiaro della nostra condizione di uomini moderni, chiusi in caste sessuali, incomunicabili, all’interno delle quali altri vincoli e tabù vietano la libera espressione della sessualità. Ma non è forse questo alla base della nostra organizzazione sociale, e non è forse questa complessa organizzazione che ci rende particolarmente efficaci nella nostra riproduzione in quanto specie?
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Se si guarda al fatto letterario ed estetico, la grandezza del romanzo di Nabokov consiste proprio nell’aver creato uno spazio fittizio percorso dall’azione incredibile dei suoi personaggi, che sono evidentemente impossibili, irreali, e quindi propriamente concernono la letteratura, cioè tutto ciò che noi non siamo, un mondo che noi non abitiamo, i sogni dai quali ogni giorno all’alba ci svegliamo. La stessa cosa valga per le donne consolatrici di vecchi amanti di cui scrive Guido Ceronetti.
20 giugno 1998
Aggiungo una considerazione a quanto detto ieri. Penso al verso montaliano: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, e mi par di capire che la poesia consista in questa negazione, e in null’altro. È molto probabile che la necessità del discorso poetico si possa dedurre proprio da questa negazione, poiché la nostra realtà è strutturata in modo polare, cioè ad ogni segno positivo deve corrispondere uno negativo; pertanto non c’è da stupirsi, se si considera che la poesia tende per sua natura a confermare lo status quo, poiché davanti ad ognuna delle sue negazioni la realtà positiva del mondo si riafferma, e contemporaneamente dota di senso il discorso poetico, come al più (+) corrisponde il meno (-). La poesia, dunque, non può che vivere in questo circolo di significato, che sancisce l’accettazione piena da parte del poeta di tutto ciò che è.
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Oggi scade la quarantesima settimana della gravidanza di Ornella. Stasera partirò per Galatina, e arriverò domattina, domenica, alle ore 9 alla stazione di Lecce. Speriamo che tutto vada bene.
26 giugno 1998
Sono rientrato a Dossena appena mezz’ora fa, dopo un viaggio lunghissimo. Sono le ore 21.00, e sul fuoco bolle una pentola con dentro cinque patate. Ne approfitto per aggiornare questo diario, che si sta avviando verso la conclusione.
I pochi giorni che ho trascorso a Galatina sono stati fra i più intensi e stressanti della mia vita. Neanche un attimo di riposo tra un viaggio e l’altro. In compenso, è nata Sofia. È nata il giorno lunedì, 22 giugno 1998, alle ore 22.05, con nostra somma gioia. Io ho assistito al parto. Grazie al cielo, tutto si è svolto nel migliore dei modi, senza complicazioni di sorta, secondo natura. Ora Sofia è nella sua culla, a casa, e vive i suoi primi giorni di vita. Mamma Ornella sta benone, e ora allatta la piccola. Giulia è, come al solito, una gran birba. Bisogna controllarla perché non giochi qualche brutto scherzo a Sofia.
27 giugno 1998
Mi piace pensare che questo diario si apra con il concepimento di Sofia (che per la verità è avvenuto qualche giorno prima del nostro arrivo a Dossena, il primo di ottobre) e si chiuda con la sua nascita. Questo diario ha la durata di nove mesi, la durata della gestazione di un essere umano. Nel frattempo io ho preso servizio nella scuola media di Dossena e ho terminato l’anno scolastico con le ultime operazioni di scrutinio degli esami di licenza media (che avverranno dopodomani); sono accadute tante cose, piccole e insignificanti alcune, degne di nota altre, alcune delle quali ho annotato in questo diario, altre ho sottaciuto, perché non ho voluto, con una meticolosità che non mi appartiene, diventarne schiavo. Non so se quest’estate continuerò a redigerlo, o se lo interromperò (il che ora mi pare più verosimile). Sta di fatto che la forma diaristica comincia a starmi troppo stretta. Del resto non ho alcuna intenzione di comportarmi come quell’Amiel citato da Blanchot che pur avendo scritto quattordicimila pagine di diario non era per questo diventato scrittore, ed anzi rinveniva in esse la causa del suo fallimento.
La ragione che mi ha indotto nove mesi fa a scrivere un diario credo sia da ricercare nella novità della situazione, del luogo in cui mi sono venuto a trovare con la mia famiglia; la routine probabilmente non richiede di essere annotata giorno per giorno. So bene di non aver detto nulla di eclatante, ma il mio stato d’animo dossenese mi ha consentito di sentirmi in una condizione inusuale, nuova e originale. Dall’alto di questa montagna, dove avrei potuto anche non arrivare mai, e da dove occorre discendere per vedere il mondo, l’unica cosa che potevo fare era guardare dentro di me, riflettere, annotare, pensare, studiare. Da qui, inoltre, ho anche cominciato a comunicare col mondo, inviando le mie poesie e i miei racconti, cosa che non avevo mai fatto prima, se non in forma strettamente privata. Insomma, se ripenso a questi nove mesi trascorsi a Dossena, e cerco di farne un bilancio, mi vado convincendo che non sono passati invano.
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Sono giunte le terze bozze del libro di mio padre, che rivedrò fra qualche giorno, non appena tornerò a Galatina. Il risultato della TAC di mio padre ha rivelato la presenza di un calcolo nelle vie biliari che andrà rimosso per via endoscopica nei prossimi giorni. L’operazione avverrà nell’ospedale di Casarano. Insomma, di ritorno a Galatina, avrò un bel da fare.
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Il torpore dei meridionali, la loro inattività nelle ore più calde del giorno, soprattutto d’estate, quando è impossibile lavorare, credo che sia una delle causa del ritardo del Sud rispetto al Nord. Constatazione fatta sulla mia persona, molto più attiva a Nord che a Sud.
28 giugno 1998
Ore 11.30. Passa la processione per le vie del paese, accompagnata dalla banda che suona una solenne e commovente musica, sfila sotto le mie finestre. È la festa di San Giovanni Battista, patrono di Dossena, cui è intitolata la chiesa arcipresbiterale. Le donne hanno addobbato tutti i balconi delle case, esibendo le migliori coperte o le lenzuola meglio ricamate del loro corredo. Non c’è nulla di più conservatore delle tradizioni connesse al culto religioso; posso facilmente immaginare che duecento anni fa la processione sia avvenuta allo stesso modo.
Sento che tutto questo è necessario alla vita dell’uomo, come è necessaria l’innovazione, e che tutto il nostro vivere dipende dall’equilibrio di forze conservatrici e innovatrici che si fronteggiano nel mondo.
Non sono uscito sul balcone.
Finisco di copiare l’articolo di mio padre su Franco Antonicelli.
29 giugno 1998
Ultimo giorno a Dossena. Con gli scrutini finali e la riunione plenaria oggi ho finalmente terminato di lavorare. Domattina, appena sveglio, quindi anche all’alba, partirò per Galatina. La casa in cui sono ha già acquisito un aspetto un po’ estraneo, priva com’è dei molti oggetti che ho riposto negli scatoli. Respiro un’aria da smobilitazione. Persino il rumore della tastiera risuona in modo diverso nella stanza. Ieri sera ho scritto un paio di poesiole dal titolo Per ringraziamento e Calcoli. Nella prima ringrazio la giuria del Premio “Montale”; nella seconda faccio il conto di quanto tempo ho trascorso negli ultimi dieci anni in giro sulle autostrade o nei treni. Il tutto detto con una certa malinconica ironia. Oggi è il giorno di San Pietro, e dunque il mio secondo onomastico. I Galatinesi a quest’ora sono in festa. Io arriverò a casa a festa conclusa.
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Ho idea che se non continuerò questo diario, almeno continuerò a riportare citazioni e miei commenti e idee in una specie di Zibaldone di pensieri alla maniera leopardiana, evitando con cura di fare riferimento a fatti della mia vita o della vita dei miei familiari che con uno Zibaldone di pensieri non hanno nulla a che vedere. Credo necessaria questa raccolta perché non vada disperso quanto andrò studiando e pensando nei prossimi tempi. Inoltre essa rappresenta un ottimo esercizio di scrittura. Chissà poi che, scrivendo, non mi venga in mente qualche idea brillante, da tradurre in una nuova opera?
Bene, a questo punto credo proprio di non avere nient’altro da aggiungere, e dunque posso considerare terminato questo diario dossenese.
(Fine)