Quei grandi amori sognati con le storie dei fotoromanzi

Forse il mondo dei fotoromanzi comincia a dissolversi proprio in quel giorno di giugno. Quando si scopre che quei personaggi hanno vite vere, con le loro fortune e le loro tragedie, che le storie d’amore non vanno a finire tutte bene, che alle volte sono insidiate dalla nostalgia, dalla noia, dall’incomprensione.

I fotoromanzi vendevano milioni di copie a settimana. I partiti politici li usavano come canale pubblicitario. Il ceto popolare trovava nelle loro storie la possibilità di fantasticare avventure straordinarie. 

Scrive Ermanno Detti che a  partire dagli anni Sessanta una casa editrice di Roma, la Lancio (si chiamava così perché prima stampava foglietti pubblicitari da lanciare con gli aerei), investì molto sul fotoromanzo. A interpretare le parti furono chiamati addirittura personaggi già famosi nel campo dello spettacolo: per esempio  Giorgio Albertazzi, Renzo Arbore, Claudia Cardinale, Raffaella Carrà, Giuliano Gemma, Sandra Milo. Altri lo sarebbero diventati: per esempio  Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Ornella Muti.

I fotoromanzi erano la rappresentazione della dimensione miracolosa delle storie d’amore. Tutto accadeva all’improvviso, senza una causa, senza spiegazione. Un incontro. Uno sguardo. Un bacio. L’amore sospeso in una stanza, un’ automobile, un giardino. Battute spesso senza nesso, dai significati vuoti e zuccherosi.

Con il beffardo senno di poi però si capisce che probabilmente era proprio quella assoluta distanza dalla realtà, quella mancanza di ogni concretezza di destini a costituire un’attrazione. In quelle apparizioni favolose, nella esasperazione della finzione, le ragazze trovavano il varco per proiettarsi nella dimensione di un  sogno, e nel sogno davano movimento a quelle immagini fisse, una propria consistenza di senso all’astrazione dei racconti, un sentimento vero alla vaghezza delle espressioni. Entravano in quel varco ed elaboravano visioni del mondo e della vita, fantasticavano amori favolosi, avventure di bruciante e stravolgente passione. I fotoromanzi segnavano una separazione tra l’esistenza di dentro e quella di fuori. Fuori a volte c’era l’amarezza, c’era la delusione; dentro ogni esperienza rappresentava una condizione di libertà assoluta da qualsiasi privazione. Dentro ciascuna si costruiva una storia che si realizzava in relazione esclusiva con la bellezza e il desiderio, nella quale i personaggi pensavano e dicevano quello che si voleva che pensassero e dicessero, e le banalità delle storie di carta si trasformavano nella straordinarietà di un amore immaginato.

Chissà se poi non è stato il varco dentro il sogno che quelle maliziose innocenze si aprivano, chissà se non è stata l’abitudine alla fuga maturata in quell’età ad insegnare loro i segreti per non farsi travolgere dalle tempeste aspettate o improvvise della vita.

Chissà quante volte, quando è tutto grigio, tutto è insignificante, quando è tutto smorto e le emozioni sembrano essersi dissipate, in certi giorni che   sembrano così terribilmente scontati, nel déjà vu asfissiante, quando l’abitudine si insinua nelle vene e contagia il sangue,  chissà quante volte nella noia stopposa delle faccende quotidiane, quando la stanchezza gonfia i piedi e comincia il rodìo  dell’emicrania, chissà quante volte riattraversano il varco e si rifugiano nella memoria dolceamara dei fotoromanzi.

(Se non ci si deve vergognare delle cose che si sono lette, allora  non mi vergogno di aver letto fotoromanzi. In certi pomeriggi di caldo stagnante, quando tutti i Tex e i Diabolik e i Monelli erano finiti e Pavese non era ancora arrivato, allora m’imprestavo i fotoromanzi dalle vicine di casa).

Poi vennero gli anni Ottanta. Cominciarono con la strage del DC9 dell’Itavia abbattuto a Ustica e con quella alla stazione di Bologna. A Vermicino, Alfredino Rampi cade in un pozzo e muore dopo tre giorni.  Nello stadio Santiago Bernabeu di Madrid l’Italia di Enzo Bearzot conquista il terzo mondiale di calcio battendo la Germania per 3 a 1. In tribuna d’onore c’è il presidente Sandro Pertini, accanto al re di Spagna Juan Carlos.  Vennero le telenovelle. Vennero nuove passioni. La gente si allontanò dai fotoromanzi.  La produzione si fece più rara. Ma l’amore ha ancora la dimensione del sogno con “Il tempo delle mele”. Sophie Marceau, 13 anni, diventa una diva e nel ruolo di Vic, l’adolescente sognatrice che cerca il primo amore, restituisce vigore a quei sentimenti o a quel sentimentalismo che sembrava fosse stato definitivamente cancellato dalla contestazione giovanile. 

Quelle ragazzine che adesso hanno dai sessant’anni e via, ebbero  l’impressione che “ Il tempo  delle mele”  fosse immobile e noioso. Però a qualcuna di loro venne il sospetto che  l’immobilità fosse intenzionale, che volesse porsi come espressione di un’adolescenza che cresceva e  si trasformava indipendentemente dalla propria volontà, perché cambiavano le storie intorno ad essa senza che potesse fare nulla per indirizzarne il corso, per intervenire sulla trama e sull’intreccio. Forse il film voleva essere una rappresentazione del tempo interiore e profondo e, soprattutto,  voleva dare l’immagine dello stupore che si prova in quell’età fantastica e dolorosa di passaggio, quando si scoprono dentro  i turbamenti dell’amore, le inquietudini di una passione ancora acerba. A quel punto, le cose  che possono accadere intorno assumono un significato irrilevante. Nel confronto con le turbolenze di dentro il mondo appare davvero immobile. Il presente che si vive è soltanto una promessa per quello che si vivrà, si vedrà, si amerà, si soffrirà, per i sogni che verranno. Di tutta una vita forse quello è il migliore dei tempi. Quelli che vengono dopo non sono altro che repliche, qualche volta anche malriuscite.

Adesso come si fa ad escludere con certezza che quelle ragazzine che hanno da sessant’anni e via non conservino, forse segretamente,  da qualche parte, in un cassetto, tra i libri negli scaffali, uno di quei fotoromanzi con Franco Gasparri, che  di tanto in tanto non ne rileggano qualche scena.  Forse nelle sere che la malinconia scende più fitta. Come si fa ad escludere con certezza. 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 15 settembre 2024]

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