Introduzione a Piero Pascali – Daniele Capone, Le contrade di Bacco. Nardò e le terre dell’Arneo

Nei testi antichi non c’è traccia di questa leggenda, ma il racconto ci è parso intrigante e abbiamo deciso di proporlo ai lettori.

Delle terre di Bacco ci occuperemo in questo volume – sesto della serie – e, come di consueto, le “visiteremo” senza pretesa di esaustività, ma al solo scopo d’invogliare il lettore a una conoscenza più approfondita, con l’ausilio della fine matita e del­l’inchiostro di china di Piero Pascali.

Abbiamo delimitato l’area di cui al sottotitolo ai nove comuni che fanno parte del Gruppo di Azione Locale “Terra d’Arneo” sin dalla sua costituzione (1995). In anni recenti altri se ne sono aggiunti: Alezio, Galatone e Gallipoli, centri di cui abbiamo già parlato nel precedente lavoro I luoghi della Sirena. Come più volte detto, la partecipazione di un ente pubblico o di un privato a un determinato GAL non risponde a un criterio rigido, ma piuttosto – data la natura di tali associazioni – solo a scelte amministrative che quasi sempre hanno ottime ragioni per essere assunte. Tra l’altro, l’Arneo propriamente detto non coincide con il territorio dei nove comuni qui trattati e men che meno con quelli degli altri tre che ne sono entrati a far parte. Lasciamoci guidare da due autori ai quali facciamo molto spesso riferimento per comprendere appieno cos’era (cos’è) l’Arneo. Scrive Giacomo Arditi: «Arnèo è una famosa e vasta tenuta di macchie e masserie ad ovest di Lecce, distesa in più territori tra i Circondari di Gallipoli, Taranto e Brindisi, lontana da Nardò circa 20 chilometri. Molte paludi ne infestano l’aria specialmente in estate ma principali son quelle che si addimandano San Isidoro, Cesaria, Tamaro, Feta, Conte, Colimena, piazzate nella landa del mare verso l’occaso. Essendo un luogo di grasse pasture, in ogni anno dal 25 novembre al 10 maggio scendono a pascolarvi da Martina, da Taranto e da Noci in quel di Bari le mandre di vacche che provvedono di ottimi latticini i circondari di Gallipoli e di Lecce. Ubertosa è la terra seminale, abbondante la caccia in lepri, volpi, tassi, beccacce, tordi, anitre ed altro tra cui volta il cinghiale, e più di rado il caprio. Secondo il Frontino era questo l’Agro di Varna (ager Varnus), città distrutta poco lungi da Manduria. Per lo che il suo vero nome fu Varnèo, campo di Varna, cambiato poi dal volgo in Arnèo [...] Il conte Goffredo lo donò alla Mensa vescovile di Nardò. Al 1412 vi era ancora un casale appellato S. Nicolò d’Arnèo, abitato da 390 anime con Parrocchia ed Arciprete dipendenti dal vescovo di Nardò. Distrutto, rimase uno dei 24 feudi nobili Neritini, così registrato nei Regi Quinternionii, e soggetto alla adoa e al rilevio in beneficio del Fisco. Ora quella spaziosa ed umida campagna la posseggono in tante ricche masserie principalmente il Duca Acquaviva di Conversano, il Marchese Imperiale, il Principe di Belmonte, il Commendatore Tamborino, ed i signori Tafuri, Personè, Vaglio ed altri». (G. Arditi, La Corografia, p. 51. Nel testo adoa è scritto senza h: “adoha” e rilevio sta per “relevio”. Anche il riferimento cronologico alla diocesi neritina si è rivelato, alla luce degli studi successivi, non esatto). Gli fa eco il nostro mentore: «Salice, Veglie e Leverano si trovano proprio nel mezzo della Penisola salentina, in quel tratto che si dice Istmo salentino, e sono congiunti da una strada provinciale, la quale continua verso Copertino dalla parte di Leverano, e verso Taranto e Brindisi dalla parte di Salice. I miasmi delle non lontane paludi di Belvedere e del Conte, che costeggiano il Jonio, regalano a questi paesi le febbri periodiche, soprattutto nei mesi estivi ed autunnali; e perciò fra Leverano, Veglie, S. Pancrazio, Manduria e Maruggio vi è un’estesa contrada detta Arneo, priva quasi affatto di paesi. E dire che nel medio evo quivi sorgevano i casali di Albaro, di Torricella, di S. Angelo, di Sasina (presso il porto Cesareo), di S.ͣ Susanna, di S.ͣ Costantina, di S. Nicolò d’Arneo, di Cugnano, di Bucidina, di S.ͣ Venia, di Mutonato, di S. Giorgio, di S.ͣ Maria del Casale, di S. Marco, di Ruggiano, di Bagnolo, di Olivaro, di Fellino e di Castigno. Oggi è attraversata dalla strada provinciale che mena da Nardò ad Avetrana e di lì a Manduria ed è occupata da grosse fattorie e da macchieti». (C. De Giorgi, La Provincia di Lecce, vol. II, p. 323). Il paesaggio descritto dall’Arditi e le febbri di cui parla il De Giorgi non ci sono più: le grandi bonifiche dei primi decenni del XX secolo hanno profondamente cambiato la situazione e il paesaggio. Nel secondo dopoguerra l’Arneo è stato teatro di una delle vicende più importanti della recente storia salentina: la lotta per l’emancipazione sociale dei lavoratori agricoli e la riforma agraria. Su questo tema, fatto di luci e ombre, si leggano nella sezione Per approfondire i due interessantissimi saggi di Salvatore Coppola e di Mario Spedicato. Entrambi gli scritti sono la riproposizione di testi, opportunamente rivisti e aggiornati, già pubblicati in volume[1].

In antico non mancavano vigneti nelle zone di cui parlano Arditi e De Giorgi – come dimostra la storia dei de Castris – ma solo da circa un secolo, grazie alle bonifiche, queste sono diventate come a noi è piaciuto definirle “le contrade di Bacco”. Non che in altre zone del Salento non ci fossero e non ci siano viti. Ottimi vini grazie a sapienti enologi si producono oggi in diverse aree della nostra provincia (ad Alezio, per esempio, che non a caso ha aderito al GAL dell’Arneo). È indubitabile però (e nessuno ce ne voglia) che i vini salentini di fama nazionale e spesso anche sovranazionale abbiano una targa: le terre dell’Arneo.

L’intero Salento in passato è stato prodigo della “sacra bevanda” che partiva verso le aziende del Centro-Nord Italia al fine di essere utilizzato come “vino da taglio” per i già affermati marchi ivi esistenti. Ricordo che anche a Surbo, nella strada in cui abitavo, era presente uno stabilimento che trattava quintali e quintali di uve. Un intenso profumo e un dorato sfavillio di api riempiva il quartiere nelle settembrine radiose giornate di fine estate. Poi alcuni mesi dopo arrivavano grandi autobotti per portare il prezioso liquido da taglio nelle case vinicole del Nord e della Toscana. Mi ha raccontato un amico, la cui famiglia era proprietaria dello stabilimento di cui dicevo prima, che Luigi Veronelli era solito dire che se il Chianti avesse potuto parlare avrebbe parlato dialetto salentino. Anche celebri grappe venete, aggiungo, perché le vinacce venivano caricate per essere trasportate e distillate nel Nord-Est. Poi, a un certo punto, anche in Salento si è affermata la scienza del fare il vino e finalmente è accaduto quello che abbiamo detto nelle righe precedenti: bottiglie di nostri vini in giro per il mondo.

Il GAL Terra d’Arneo rientra nel grande Parco del Negroamaro, costituito per promuovere l’enogastronomia locale e i vitigni autoctoni (in primis negroamaro, primitivo, malvasia e susumaniello). Di tale istituzione fanno parte 26 comuni, cinque dei quali del Brindisino, a ridosso dei confini nord dell’area qui trattata. Non è pleonastico fornirne l’elenco: Arnesano, Campi Salentina, Carmiano, Copertino, Galatina, Guagnano, Lecce, Lequile, Leverano, Monteroni, Nardò, Novoli, Porto Cesareo, Salice Salentino, San Cesario, San Donato, San Pietro in Lama, Squinzano, Surbo, Trepuzzi, Veglie, (per quanto riguarda la provincia di Lecce), Cellino San Marco, San Donaci, San Pancrazio Salentino, San Pietro Vernotico e Torchiarolo (in provincia di Brindisi). Numerosi i vini DOC prodotti in alcuni di questi paesi. Al lettore che conosce i luoghi non sfuggirà che del Parco fanno parte anche comuni nei cui territori i vigneti sono solo un ricordo (ad esempio Surbo) ma che vantano saporose tradizioni enogastronomiche: cibi che è indispensabile accompagnare con un bicchiere di buon vino. In un’area che ha fatto del nettare di Bacco il proprio vanto, non potevano mancare veri e propri piccoli musei del vino (a Salice e Guagnano ad esempio) anche presso aziende che ormai esportano dappertutto il loro prodotto.

La tradizione vitivinicola è anche appannaggio di Nardò, la “capitale di provincia” alla quale sono dedicate moltissime pagine di questo volume, soprattutto nella sezione per approfondire.

“Capitale di provincia”. A prescindere dal vino, ci sarà un motivo se il De Giorgi scrive queste righe: «Due vie conducono dalla città della lupa a quella del toro, dall’Atene delle Puglie all’antica Atene della Japigia». Atene: sinonimo di civiltà, arte e cultura… E ancora: «Un tempo questa città fu rinomatissima in tutto il Bel Paese. Nel secolo XI, al tempo dei Normanni, Nardò era appellata l’Atene delle lettere e le sue scuole erano conosciutissime non solo in questa provincia ma nelle altre del regno. Il De Ferrariis, lodando Belisario Acquaviva che signoreggiava in Nardò, sullo scorcio del XV secolo, e che fu largo dei suoi favori alla università neritina, prorompeva in questa enfatica esclamazione: “Se v’ha disciplina in ogni angolo della terra certamente ebbe origine da Nardò!”. Da quello che ci affermano gli storici vi erano in questa università le diverse facoltà di giurisprudenza, di letteratura, di medicina, di filosofia. Uomini dottissimi erano chiamati a dettare lezioni da quelle cattedre, e venivano da città lontanissime dell’Italia. Qui accorrevano i giovani per educarsi ed istruirsi». E, per finire, volendo noi ritornare sull’importanza della cittadina dal punto di vista economico e della produzione vinicola in ambito provinciale: «Nardò era appellata dai nostri nonni il magazzino della provincia di Lecce, come del Tavoliere della Capitanata si diceva essere il magazzino delle Puglie», e De Giorgi elenca la grande produzione di cereali, di leguminose, di poponi, di tabacco: tutti prodotti di qualità eccellente. Non mancano ovviamente gli ulivi, caratteristica di tutta la provincia e «Anche i pometi e vigneti sono molto estesi in questo territorio. Rechiamoci sulla via che da Nardò conduce alla spiaggia di S.ͣ Caterina e verso la contrada detta le Cenate. Qui sorgono tutte le ville dei neritini. Lungo la via incontreremo dei vigneti, circondati da piante di alto fusto, cioè da fichi, peri, peschi ed albicocchi. Osserveremo dei vitigni di trenta e fin quarant’anni, perché qui si crede volgarmente che la vigna vecchia dia un vino più generoso»[2].

I nove comuni di cui si parla in questo volume hanno una particolarità rispetto ad altre aree del Salento: essi fanno parte di tre distinte diocesi. Appartengono alla diocesi di Nardò-Gallipoli[3]: Nardò, Copertino e Porto Cesareo; a quella di Brindisi: Leverano, Veglie, Salice Salentino e Guagnano; fanno invece parte della diocesi di Lecce: Carmiano e Campi Salentina. Queste ultime due cittadine gravitano indubbiamente sul capoluogo, in particolare Campi, e con questa cittadina ci avviciniamo a tutta l’area che tratteremo nel prossimo volume: i paesi dell’hinterland leccese.

Come di consueto, impreziosiscono la parte illustrata del volume i godibilissimi saggi della sezione Per approfondire e l’Appendice. I saggi, come sempre, sono opera di specialisti e/o esperti del settore. Vogliono essere “per taglio” e scelta del linguaggio alla portata di qualsiasi lettore, ma anche testi che possono aprire strade per nuove ricerche. Dopo quelli di Coppola e Spedicato, dei quali si è detto, la sezione propone quelli di Fabrizio Lelli, Antonio Romano, Giancarlo De Pascalis e Roberta Durante. Lelli ci racconta la vicenda dei profughi scampati allo sterminio nazista e ospitati a Santa Maria al Bagno e in altre contrade neritine. Romano continua la sua avvincente indagine sulle particolarità dei dialetti salentini: dopo la Grecìa e Gallipoli è ora la volta di Nardò. De Pascalis, sulla scorta dei lavori di magistri scalpellini operanti in Nardò, sottolinea come il barocco salentino rimanga ancorato a una tradizione di modelli costruttivi medievali, contaminati all’interno di esemplificazioni manieristiche cinquecentesche. Roberta Durante, nella sua affascinate ricognizione delle cripte salentine, ci parla di quelle presenti nell’agro di Nardò, di Copertino e di Veglie, testimonianza di un Salento ellenofono in un particolare periodo di transizione, quando la nostra terra, ancora di cultura marcatamente bizantina, cominciava ad aprirsi alla cultura e ai riti che si irradiavano dalla Roma papale.

In Appendice, a conclusione del volume, un suggestivo pezzo di Antonio Errico dedicato a Torre Uluzzo, articolo apparso su Quotidiano del 20 agosto 2022, giornale sul quale lo scrittore tiene da anni una rubrica fissa (I resti di Babele) – testo, quello di Errico, che ascrivo a fascinoso esempio “di prosa d’arte”– e infine un piccolo estratto di un mio romanzo breve che parla anche di una vicenda legata alla presenza a Santa Maria al Bagno degli scampati alla Shoah.


(2023)

 

Avvertenza: Nella sezione illustrata non vengono utilizzate note. I riferimenti bibliografici sono inseriti nel testo. Per rendere più agevole la lettura tali riferimenti sono riportati in maniera sommaria: per l’indicazione completa dei testi utilizzati si rimanda alla Bibliografia di riferimento.

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[1] Quello di M. Spedicato in M. Proto, a cura di, Agricoltura, Mezzogiorno, Europa: a cinquant’anni dalle lotte contadine nell’Arneo e nel Salento. Atti del Convegno di Studio su “Le lotte contadine e l’Arneo”, Nardò, Copertino, Leverano e Campi 12-14 gennaio 2001, Roma-Manduria, Lacaita, 2001, pp. 179-89, e quello di S. Coppola nella miscellanea La CGIL, il Salento. 70 anni di lotte per l’emancipazione sociale e la dignità del lavoro, Castiglione di Lecce, Giorgiani, 2018, pp. 32-136.

[2] C. De Giorgi, La Provincia di Lecce, vol. I. Le citazioni sono tratte, rispettivamente, dalle pagine 225, 239 e 241-242.

Al lettore non sarà sfuggito che Cosimo De Giorgi usa “neritini”, con la “i” (e anche l’Arditi lo fa). Tutti sappiamo che, pur essendo ammessi entrambi gli usi – uno derivante dalla denominazione greca della città, l’altro da quella latina – “neretino”, con la “e”, è entrato nell’uso comune. Nei miei testi lo scrivo con la “i”. Non è un vezzo erudito e fuori dal tempo: vuole solo essere un modestissimo, personale, omaggio a un Grande del quale, lo scorso anno, la SSPP di Lecce, con altre istituzioni, ha ricordato con convegni e giornate di studio il centenario della morte.

[3] La moderna diocesi è nata nel 1983 a seguito dell’unione in persona episcopi delle due distinte diocesi di Gallipoli (molto più antica) e di Nardò. Circa l’anno di fondazione di quella neritina non mancano pareri assai discordanti e persino falsi documenti. Gli studi più accreditati ne fissano la data di nascita al 1413.

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