Ritornano i temi cari a Graziano Gala, il ricordo e la scoperta, la solitudine e l’incontro, l’infanzia e la vecchiaia ma affrontati, rispetto alle scritture precedenti, con l’accento su nuove sfumature. In “Sangue di Giuda” la figura del padre era un fantasma infestante che, seppur presente in ogni angolo della piccola casa di Giuda, era in verità, poi, annidato nella sua testa. Era qualcosa da cui fuggire, un ingombro di cui liberarsi. Giuda ha una vita alle spalle. Giuda ha dentro di sé un cuore buono ma ferito, una bontà che lo rende folle agli occhi degli altri. È il principe dei reietti, l’eroe dei dimenticati. Popoff ha una vita davanti. Non conosce il mondo, non conosce le parole. Si serve di un linguaggio primordiale attraverso il quale comunica con lo stuolo di personaggi che incontra sul proprio cammino (li incontra o li va a cercare, bussando insistentemente alla loro porta?). Popoff non ha esperienza del mondo, sembra appena uscito dalla caverna buia nella quale, rivolti al muro, si osservano le piante e gli animali solo nei movimenti della loro ombra. Ma Popoff è proprio come quel cosacco rotondetto della canzone: della propria inesperienza fa ineguagliabile virtù, dalla propria inadeguatezza trae coraggio di osare. La sua avventura comincia con una porta alla quale bussa nel cuore della notte. Dall’altra parte apre un vecchio. Alla porta una domanda diretta, quasi dolorosa, una richiesta fatta con occhi grandi di curiosità (“mi scusi, signore, ha visto per caso mio padre?”). Allora l’avventura di Popoff diventa anche quella di Cimino e degli abitanti del piccolo paese che appare come un mondo a sé. Sembra non esistere nulla al di fuori di esso. Tutto quello di cui Popoff ha bisogno per affrontare la propria ricerca è lì. Lì è l’acqua (santa e non), lì è la luce, lì il cibo che gli serve per sopravvivere, lì i colori che gli servono per stupirsi. Lì è una chiesa nella quale andare a pregare con parole acerbe, inadatte. Lì un “crocefisso sempre è fermo sull’attenti: dallo sguardo sembra triste, brutto impiccio quei suoi chiodi”. Lì è il dolore e lì è la gioia. Lì tutto il bene e tutto il male di questa terra, lì è messo in scena lo spettacolo del mondo, tragico e grottesco, euforico e liberatorio. Lì è il suo essere “bambino, soltanto bambino. Nient’altro”. Così la bellezza di essere bambini, la bellezza di essere Popoff è “avere un dispiacere e saper dimenticarlo”. Giuda non sapeva dimenticare quel suo dispiacere, quel padre che lo batteva, quel padre che lo rendeva sempre piccolo nonostante fosse grande. Giuda non sapeva schivare i colpi che quel padre gli sferzava, nonostante fossero, oramai, solo nella sua testa (e con Giuda abbiamo sofferto. E con Giuda abbiamo pianto e ci siamo inteneriti). Popoff, proprio come Giuda, ha un tarlo. Popoff, come Giuda, ha paura. Paura di bambino, che “si aggroviglia, fa la tana nella pancia”. Ma ha anche qualcosa in più. L’entusiasmo della scoperta, l’emozione della ricerca, il luccichio negli occhi che guardano il mondo per la prima volta (e con Popoff proviamo stupore. E con Popoff posiamo lo sguardo sulla bellezza di una vita che, nonostante tutto, promette, ancora, felicità).
Si fa fatica a definire Popoff semplicemente “personaggio”. Popoff è figura, simbolo e sogno, rappresentazione di quella minuscola luce che ogni adulto ha dentro di sé. Popoff è lucciola dell’infanzia. Sofferta, bastonata, lacerata, scorticata, inghiottita dal buio della mancanza. Ma, nonostante tutto, splendente.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 13 settembre 2024]