L’unità politica favorì apprezzabili iniziative statali nel campo dell’istruzione, a partire dalla legge Coppino del 1877, che per la prima volta garantiva agli italiani alcuni anni di istruzione pubblica e obbligatoria. E parallelamente si generarono situazioni collettive e sviluppi che comportavano il ricorso alla scrittura: omogeneizzazione amministrativa e militare, incremento del giornalismo, partecipazione (sia pure dei soli ceti abbienti) alla vita politica, creazione di infrastrutture viarie, accumulo e concentrazione di capitali, industrializzazione (lo ha spiegato Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, libro fondamentale). Le grandi migrazioni di massa, interne ed esterne, e le due guerre mondiali indussero il bisogno di scrivere per necessità. Emigranti, soldati e prigionieri trovarono nella scrittura un rifugio contro la lontananza forzata, uno spazio in cui combattere l’isolamento e, in definitiva, una strategia di sopravvivenza. Donne e uomini, anche senza esserne pienamente capaci, presero la penna e forzarono una barriera. Rivendicarono così il diritto di esistere in una società in cui scrivere era un privilegio. Scrivere per non morire, affascinante! La posta che parte dai luoghi di emigrazione (in patria e fuori), dalle caserme, dal fronte, dal carcere e dai campi di prigionia sfiora raramente temi di portata generale: chi scrive si concentra sul proprio mondo lontano, familiare e abbandonato, tanto più vagheggiato ora che si è immersi in un universo estraneo o si soffre la prigionia o si vive l’angosciante prima linea del campo di battaglia.
Nel secondo dopoguerra del Novecento, dopo la fine del fascismo, reclamato da intellettuali lungimiranti, condiviso dalla parte migliore della classe politica del tempo, l’obiettivo di un’adeguata istruzione obbligatoria, generalizzata e pluriennale, è acquisito da settori ampi della popolazione: contadini e operai capiscono che l’istruzione costituisce veicolo per il progresso individuale, si accorgono che la laurea si rivela un formidabile ascensore sociale, constatano che i figli dei poveri (se studiano) possono migliorare la loro condizione. Il possesso dell’italiano scritto e orale, favorito dalla scolarizzazione delle fasce giovanili, è rinforzato da migrazioni interne verso le grandi città, da tutto il Sud e anche da regioni povere del Nord (Friuli, zone del Veneto, valli alpine), che portano masse di dialettofoni a cercare una lingua comune.
L’italiano è diventato lingua nazionale grazie allo sviluppo dell’insegnamento scolastico e delle relazioni sociali, grazie ai mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione), grazie alle migrazioni di Rocco e dei suoi fratelli (inurbati tra mille difficolta) e di milioni di uomini e donne diretti verso le fabbriche del Nord, con le valigie di cartone e parlando dialetto. La partecipazione alla vita dei partiti e dei sindacati non fu solo politichese, sindacalese e brogli, ma anche promozione culturale e sociale. La televisione riversò un fiume di italiano (garbato, semplice, “educato”) in case in cui si parlava quasi sempre dialetto. Non volgarità e pettegolezzi (come molta televisione dei nostri giorni), anche cultura e informazione seria. Decennio dopo decennio il possesso della lingua scritta nazionale migliora, il rapporto degli italiani con carta e penna diviene progressivamente meno ostico, pur se scrivere resta a lungo un’attività non facile né consueta.
Oggi l’italiano è diventato bene comune: i censimenti assicurano che circa il 94% della popolazione si esprime correntemente in italiano. Decisivo in questo processo fu l’insegnamento scolastico, maestre e maestri, professoresse e professori furono artefici dell’unificazione linguistica del paese. Il ruolo della scuola è centrale anche oggi, pur se molti lo ignorano, a partire dai gruppi dirigenti. Ricomincia l’anno scolastico, e non mancheranno dichiarazioni di esponenti politici e articoli sui giornali che parleranno della scuola e delle questioni, insolute e riemergenti, che ne ostacolano il buon funzionamento. Insegnanti precari e sottopagati, burocratizzazione crescente, digitalizzazione inadeguata, qualità dell’istruzione non sempre eccellente.
Tutto è enormemente complicato dalla struttura multi-etnica della nostra società, che nella scuola trova il primo fondamentale banco di prova. Saremo in grado di misurarci con tale questione epocale, saremo lucidi e tolleranti, punteremo all’integrazione di coloro che aspirano a essere cittadini italiano a pieno titolo, o li confineremo in classi di soli stranieri, come qualcuno fa già? Nella scuola si decide il futuro della società multi-etnica, ai problemi non si può sfuggire. In questo percorso la conoscenza della lingua nazionale è decisiva: si è cittadini italiani in primo luogo parlando e scrivendo l’italiano.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 settembre 2024]