di Rosario Coluccia
La lingua italiana vive da più di mille anni. Le più antiche manifestazioni scritte della nostra lingua risalgono al IX-X secolo: graffiti, iscrizioni, testi giuridici e religiosi, atti notarili rispondono a bisogni primari e pratici della comunicazione. Poi, poco alla volta, si mettono per iscritto altri tipi di testi (compresa, lentamente, la letteratura), nati per soddisfare più complesse esigenze del vivere associato e rispondere a sollecitazioni differenti. Per secoli pochi erano in grado di scrivere. La scrittura era appannaggio di cerchie ristrette, poche categorie avevano accesso all’alfabeto (poeti e scrittori, ecclesiastici, notai, cancellieri, mercanti, ecc.). Gli altri, illetterati e non scolarizzati, non sapevano scrivere (o scrivevano stentatamente) e anche nell’oralità si esprimevano per lo più in dialetto. Ancora al momento dell’Unità politica (raggiunta solo nel 1861) l’Italia aveva una percentuale complessiva di analfabetismo all’incirca del 70% e una generale condizione di arretratezza culturale. Vi erano fortissime differenze territoriali, fra aree e aree del paese: la percentuale di popolazione analfabeta, già critica nelle regioni del Nord, aumentava nel centro d’Italia, crescendo ulteriormente e arrivando a sfiorare il 90% nel Mezzogiorno continentale e nelle isole. L’analfabetismo comportava condizioni economiche miserrime per popolazioni in larga maggioranza contadine, servi della gleba nell’Italia unita. I nostri progenitori di oltre un secolo e mezzo fa, in una vita tutta chiusa in ambiti angusti, comunicavano quasi esclusivamente in dialetto, in uno dei tanti dialetti della penisola, dal Piemonte alla Sicilia.