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Leggo in Felice Riceputi, Storia della Valle Brembana, Museo Etnografico “Alta Valle Brembana”, Valtorta 1997, p. 38, che nel XIV secolo i lupi non erano affatto sconosciuti nella valle. “(…) sono rimaste famose le suppliche che venivano rivolte a S. Alessandro in molti comuni della Valle Brembana contro l’invasione dei lupi che in quel periodo infestavano la valle, con promessa dei nostri valligiani di visitare una volta all’anno le spoglie del santo a Bergamo, facendo offerta di tutto il formaggio ricavato dal latte in un giorno di mungitura”. Inoltre, a p. 106, sempre a proposito dei lupi, trovo scritto: “Nel 1530 ve ne fu [di lupi] un’invasione vera e propria che mise a repentaglio non solo le greggi ma anche gli uomini, tanto che il Consiglio di Bergamo stabilì un premio di venti lire per ogni lupo ammazzato”.
Dieci pagine prima, a p. 28, si legge: “Nel 1186 il vescovo Guala affitta il monte Cornello agli abitanti di Frerola e Bracca, riservandosi la decima e il diritto di caccia all’orso e al camoscio”.
Non è suggestivo pensare che sette-otto secoli fa, uscendo la sera per le mulattiere della valle, si potevano fare di questi incontri?
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Oggi buone notizie da Galatina. Ornella si è sottoposta a un’ecografia nell’ospedale di Lecce. Sofia sta bene, sbadiglia beatamente nel grembo materno, pesa già due chili, ed ha tutti gli organi ben formati. Inoltre si è messa in posizione per il prossimo parto. Siamo ormai alla trentaquattresima settimana. Speriamo che tutto vada bene.
Giulia è triste per la mia assenza, ma non lo dimostra apertamente, se non con alcuni segnali che Ornella mi riferisce. Pare che oggi abbia detto: “Mi sento come una bambina sperduta senza mamma e papà”, frase che ha sentito nel film-cartoon Peter Pann. Ma lei la ripete non senza un preciso riferimento alla sua situazione attuale. Eppure l’altro ieri, nella stazione di Lecce, mi salutava ridendo mentre il treno partiva, come se capisse che io partivo per necessità e per questo non drammatizzava la situazione, come tanti bambini piagnucolosi. Che questa bimba abbia veramente “nu cervieddru de crande”, come diceva il bisnonno materno?
6 maggio 1998
Oggi ho preparato i plichi da spedire a Perugia e a La Spezia, rispettivamente una poesia d’amore (Quadri urbinati) e un racconto di mare (Il vecchio pescatore).
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U. Eco, I limiti dell’interpretazione, cit, a p. 175 scrive: “I patrizi romani erano esteticamente soddisfatti da una copia di una statua greca, e chiedevano una firma contraffatta dell’autore originale. Alcuni turisti a Firenze ammirano la copia del David di Michelangelo senza essere disturbati dal fatto che non sia l’originale. Al Getty Museum di Malibu, California, statue e dipinti originali sono inseriti in ambienti “originali” molto ben riprodotti, e molti visitatori non sono interessati a sapere quali siano gli originali e quali le copie”.
Non potrebbero questi essere buoni argomenti da usare contro il feticismo dell’opera d’arte dell’era della sua riproducibilità tecnica?
Il feticismo dell’opera d’arte potrebbe essere spiegato come un fenomeno prodotto dal desiderio del sacro, oppure come una reazione alla democratizzazione dell’opera d’arte fruibile non più solo da un’élite, ma da chiunque abbia senso estetico.
Mio maggiore appagamento nello sfogliare un catalogo ben fatto che riproduce i dipinti di una mostra che nel visitare la stessa mostra. Il fatto è spiegabile considerando che nei locali della mostra si hanno mille condizionamenti (l’affollamento, la semplice presenza di un custode, il tempo limitato che si ha a disposizione, la stanchezza fisica, il desiderio dell’aria aperta, eccetera) mentre guardando le illustrazioni di un catalogo si è veramente a tu per tu con l’opera d’arte, e in piena libertà, che è la cosa fondamentale per chi desideri godere d’un opera d’arte. E che importa che essa sia una semplice riproduzione!
7 maggio 1998
Sera. Oggi l’anticiclone delle Azzorre ci ha regalato una giornata di sereno. Sulla strada per San Pellegrino ho visto le prime mucche coi loro campanacci che pascolavano nei prati. E’ nata una cugina di Giulia, Elisa, figlia di Roberto e di Melissa. Pesa due chili e settecentocinquanta grammi. Il parto è stato un po’ travagliato, ma poi tutto è andato bene.
Stamani ho spedito a Perugia e a La Spezia i due plichi che avevo preparato ieri. Ora, ancora una volta, bisognerà attendere.
Nel pomeriggio, passeggiata a Bergamo insieme a mia sorella. Ho comprato un bel libro: Amorum libri tres di Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano.
Infine, sul numero di maggio della rivista “Poesia” leggo che la premiazione della sedicesima edizione 1998 del premio Montale avverrà il 29 e 30 maggio a Cremona. Comincio a credere che riceverò presto la prima delusione.
8 maggio 1998
Sta per terminare una giornata faticosa, per metà dedicata alla scuola, per metà al riposo e alla correzione di alcuni racconti. Per il resto non è avvenuto proprio niente, ragion per cui questo diario oggi registra così poche, insignificanti parole.
Destino troppo poco tempo alla lettura, e questo mi rende scontento. Spero che presto finisca la scuola, e giunga l’estate, cioè il tempo delle mie infinite letture. Sono stanco e vado a letto.
10 maggio 1998
Ieri, giorno di inattività. Nel dopo scuola, una trementa vertigine dovuta forse ad una forma cervicale mi ha bloccato a letto per tutto il resto del giorno. Non riuscivo quasi neppure a leggere. Queste vertigini mi colpiscono un paio di volte all’anno, l’ultima volta alla fine dell’estate scorsa. Dovrò accertarne l’esatta origine e causa. Quest’estate mi sottoporrò all’esame del sangue.
Oggi è una magnifica giornata di sole, sembra che l’estate sia improvvisamente arrivata, con temperature che superano a Dossena i venti gradi centigradi. Mi sento sufficientemente bene, e più tardi mi recherò in Endenna, da mia sorella, per pranzare insieme a lei.
Ora rivedrò, limerò i miei racconti, pur col pensiero che due pacchi di compiti dei miei sfaticati alunni mi attendono per essere corretti.
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In una intervista di Luis Sepùlveda rilasciata a Laura Luche, pubblicata nell’Indice del mese di maggio 1988, pp. 5 e 7, a p. 5, l’autore sudamericano dice alcune cose degne di nota, che condivido.
“(…) il racconto è il genere più difficile perché il romanzo offre numerose possibilità di correzione: se un capitolo è debole lo si può rafforzare col capitolo successivo. Il racconto, al contrario, viene bene o non viene affatto”.
“Esiste un rispetto per il lettore e ci sono cose ovvie. Quando si esorcizzano demoni di situazioni terribili come la prigionia e le torture, si è consapevoli che l’umanità sa già di cosa si tratta, sicché descriverle minuziosamente sartebbe un atto d’insolenza e un’oscenità. Anche il dolore, infatti, possiede un’enorme oscenità”. E poi, facendo riferimento a Cortàzar: “Perché comprendere il senso della nostra condizione di uomini, di cittadini, ci obbliga ad assumere una posizione etica rispetto alla vita – e quella condizione etica si può chiamare, per esempio, militanza -, mentre comprendere il senso della condizione di artisti ci porta ad assumere un atteggiamento rigorosamente coerente rispetto all’estetica con cui lavoriamo. Poiché non può esistere separazione fra la letteratura e la vita, si deve cercare sempre di trasferire l’etica all’estetica, e di trasmettere l’estetica all’etica”.
Valga a proposito del film di Coppola, Schindler’s list, già da me criticato in questo diario.
Infine, discutendo il rapporto tra letteratura e cinema: “Quanto alla letteratura, io, come tanti, sono incapace di scrivere una sola riga se prima non vedo le cose, se non ho uno schermo ben installato in testa in cui non solo vedo cosa fanno i personaggi ma anche lo sfondo. Non mi basta visualizzare il personaggio che cammina per strada, se ci sono porte, devo sapere di che colore sono e cosa c’è dietro. Solo allora posso dar vita al personaggio, e questo è cinema puro”.
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Il difetto di U. Eco è quello di essere troppo cervellotico.
12 maggio 1998
Leggo in U. Eco, I limiti dell’interpretazione, cit., p. 325: “Interpretare significa reagire al testo del mondo o al mondo di un testo producendo altri testi”.
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Mi è giunta oggi una telefonata dalla scuola materna di Endenna, con la quale una maestra mi avvisa che Lunedì 18 maggio 1998, alle ore 20.30, ci sarà una riunione con i genitori in cui si parlerà di quello che posso chiamare il primo anno scolastico di Giulia. Dovrò andarci, per assolvere al mio primo compito serio di padre, almeno in ambito extrafamiliare. Provo una segreta contentezza.
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Leggo in Felice Riceputi, Storia della Valle Brembana, cit., p. 82, due righe tratte da una relazione del 1524 dei due rettori veneti di Bergamo, relative al carattere avaro degli abitanti della Valle: “Come se tocano sopra el denaro, non cognosceno alcuno; et chi li toca de un soldo, li cava le radici del core. Sono bergamaschi, né cognosceno altro sangue né altro Dio, solum la pecunia”.
Osservazione da me fatta migliaia di volte in questi anni.
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Mario Marchetti, Sul sommerso della scrittura, ne L’Indice di maggio 1998, p. 31, analizzando i racconti dei narratori che hanno concorso al Premio Calvino, alla cui prossima edizione anch’io parteciperò, scrive: “Nella pluralità dei casi ci troviamo di fronte a io narranti o a protagonisti (sovente alter ego di chi scrive) stemperati in emozioni, sentimenti, riflessioni, i quali, dalla loro “particolare” specola, rappresentano l’altro / gli altri unicamente in rapporto al proprio sé: una struttura narcisistica della narrazione, potremmo insomma dire”.
In effetti questa struttura narcisistica della narrazione è il pericolo più elementare, lo scoglio più vistoso, ma non per questo meno pericoloso, che lo scrittore, e non solo quello che scrive in prima persona, deve saper evitare. Si tratta in verità di uno scoglio assai sporgente fuori dalle acque, dunque ben visibile, e tuttavia le correnti dell’ego sospingono con forza verso quella direzione. È un io deleterio per la narrazione, perché dà una connotazione narcisistica al racconto, intrappolandolo nelle pastoie di elementi extratestuali, narcisistici appunto. Ma bisogna stare bene attenti a non confondere l’io dell’autore con l’io del narratore; cioè, occorre discernere con molta attenzione se l’io è una struttura funzionale al racconto, oppure se sia un elemento estraneo al testo, un ammasso di grasso che ricopre, uccidendolo, il corpo testuale. Allora la ricetta consiste nel salvaguardare sempre l’io del narratore, laddove esso esprime una funzione vitale per il racconto, e di espungere senza pietà l’io autoriale, laddove esso fa capolino sospinto dalla carica narcisistica che inevitabilmente, chi più chi meno, è in ognuno di noi. Solo allora saremo o ci sentiremo autorizzati a scrivere in prima persona. Si veda Dante e la pagina del Convivio in cui quel grande discute del parlare di sé.
Perché a quel punto non saremo più noi a parlare di noi stessi, ma sarà il testo a parlare di sé, e allora il racconto ci sarà veramente, come un fiume, un albero, una sedia; esso coprirà uno spazio vuoto nel mondo, sarà una presenza ineludibile, imprescindibile, e non sarà più il caso di discutere sulla legittimità del suo essere.
Queste cose ho pensate durante il collegio dei docenti di oggi, sulla base della mia ultima esperienza affabulatoria: Storia di Fefé e Fanny, titolo che cambierò nel più audace titolo Io, Fefé e Fanny.
13 maggio 1998
Leggere e rileggere dieci, cento volte un racconto, e rileggendo correggere, aggiustare, modificare, limare, eccetera, è lavoro simile a quello di un musicista che prova e riprova, finché lo strumento non diviene docile alle sue mani e non gli dà i risultati voluti.
15 maggio 1998
Ieri sera ho scritto la poesia Maggio a Dossena.
In questi giorni prosegue l’opera di revisione dei tredici racconti scritti. Non sto pensando a scriverne altri, perché voglio limare per bene, fino a renderli perfetti, quelli già scritti. Il racconto che mi ha dato più filo da torcere è stato Io, Fefé e Fanny, e per una ragione semplicissima. Esso nasce come necrologio di Gegé, dunque come rimemorazione di un fatto reale; pertanto ho dovuto fare molta fatica a trasformarlo radicalmente in racconto, con una linea drammatica ben precisa. Ci tengo molto a questo racconto perché con esso si apre l’intera raccolta.
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Da Galatina giungono notizie contrastanti circa lo stato di salute di mio padre. L’altro ieri ha avuto un febbrone, da cui si è riavuto dopo un giorno. Le analisi hanno dato esito negativo, per fortuna. Ma il fatto che non si riesca ad individuare la causa precisa che determina la febbre, questo non ci lascia tranquilli.
Oggi Ornella si sottoporrà ad una nuova visita ginecologica presso il dott. Lagna di Galatina.
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Andrò a scuola, per cercare di fare lezione; incontrerò alunni sempre più maleducati e indisciplinati, nei confronti dei quali non vale nessun mezzo a correggerli. Purtroppo, mi pagano (male) per subire. Ed io subisco!
16 maggio 1998
Ornella ed io siamo un po’ preoccupati, perché dall’ecografia effettuata ieri dal dott. Lagna risulta che Sofia ha assunto una posizione podalica, contrariamente a quanto ci aveva assicurato il dottor Lorenzo una decina di giorni fa, quando da un’altra ecografia risultava che Sofia aveva già assunto una posizione cefalica. Ornella in particolare è assai depressa, mentre io cerco di farle coraggio, sebbene anch’io mi senta alquanto nervoso.
Intanto, in questa solitudine dossenese, ricorreggo i miei racconti prima di mandarli a Piero Manni, editore di Lecce, per un’eventuale pubblicazione; mi sembra un editore abbastanza aperto alle nuove generazioni. Ho scritto una lettera d’accompagnamento, con una captatio benevolentiae niente male. È chiaro che non spedirò nulla, se prima non sarò sicuro che i racconti non siano più suscettibili di alcuna variazione.
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Scena scolastica. Prima del suono dell’ultima campanella vedo Tizio, studente scapestrato e irriducibile, che viene assalito a gamba tesa e coi pugni stretti da un suo compagno che io faccio appena in tempo a trattenere dal commettere una follia. Ma è certo che nella scuola veramente da un momento all’altro potrebbe accadere l’irreparabile, perché non c’è mezzo di ridurre al silenzio studenti irriguardosi e incontrollabili, e i professori sono, specialmente alla fine dell’anno, esausti. Essi durante tutto l’anno non hanno insegnato se non che a scuola è possibile fare tutto ciò che si vuole, che è essa il vero Paese dei balocchi. E se poi Tizio si tramuta in asino, chi vuoi che se ne importi?
19 maggio 1998
La vita procede normalmente, senza grandi novità. Ieri sera ho assolto al mio primo compito di padre, recandomi, previa convocazione delle maestre, insieme a zia Milena, presso la scuola materna di Endenna, che Giulia frequenterà il prossimo anno scolastico.
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Continuo, sia pure a fatica, a correggere e limare i miei racconti, e spesso sono colto dal dubbio che essi possano non interessare a nessuno. Intanto proseguo nel ricopiare gli articoli di mio padre su argomenti gobettiani.
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Gita a Milano con Milena, cui ho mostrato il Naviglio Grande, alcuni musei, eccetera. Mio pensiero che ritorna a venticinque anni fa, quando la inducevo a seguirmi con la bicicletta in luoghi di Galatina che lei non conosceva. Questo a conferma che nella vita di una persona cambiano le forme esteriori, ma non le strutture essenziali del comportamento e dell’esperienza. E non potrebbe essere questa una manifestazione del concetto niezschiano dell’eterno ritorno dell’uguale? Il ritorno dell’uguale è dunque la cifra della nostra vita, la modulazione che si ripete nelle diverse circostanze, la nostra identità. Ora, se noi applicassimo questa definizione, che riguarda noi stessi, al mondo intero, all’infinito/i universo/i, ecco che noi avremmo l’esatto senso della definizione di eterno ritorno dell’uguale. Questo potrebbe essere detto contro quanto afferma Gennaro Sasso, Tramonto di un mito, cit., p. 157, laddove dice che “(…) il tema dell'”eguale” (“identico”) [in Nietzsche] non riesce a risolvere in sé quello, non coincidente, del ritorno: il tema del “tempo” seguita a farsi sentire per entro la non temporale dimensione dell’eternità. E perciò è l’aporia che si riafferma, non la risoluzione dell’aporia”.
Ma l’aporia, dovrebbe saperlo il prof. Sasso, è priva d’ogni risoluzione, e va accettata com’è, senza altri ragionamenti.
20 maggio 1998
Ripenso a quanto ho letto sul “Corriere” di ieri a proposito della riforma Berlinguer, relativamente al tema d’Italiano nell’esame di maturità, che verrà sostituito da “un’analisi e commento di un testo letterario, una recensione, un saggio breve, un testo narrativo, una sceneggiatura”.
Ne vedremo delle belle. I nostri alunni che già ora credono di essere professori, saranno incoraggiati a credersi critici letterari, giornalisti, saggisti, scrittori e sceneggiatori, e chissà, anche attori e registi.
Altra assurdità: tutti saranno ammessi all’esame di maturità, come se fosse scontato che tutti se lo meritino sempre e in ogni caso. Penso che il senso della misura sia andato ormai smarrito. Vedremo.
22 maggio 1998
Momenti di panico, ieri, quando, non so come, un file contenente le mie lettere, è sparito. Ho portato il computer a Bergamo, per un controllo, e alla fine sono riuscito a recuperare il file. Eppure il brutto momento mi ha fatto convivere con l’idea della scomparsa di ciò che io avevo scritto. L’umanità non avrebbe perso nulla d’importante, se non avessi recuperato il file; ma è un fatto che il senso di smarrimento che mi ha sorpreso, mi ha fatto star male per un giorno intero, e mi ha fatto riflettere. Era la mia morte in effige?
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Notevoli cose ho letto oggi sul “Corriere della sera” a proposito della memoria e dell’arte del raccontare. L’articolo è firmato da Claudio Magris, ed è dedicato a Ezio Raimondi (in realtà è strutturato a due voci): Raimondi. L’avvenire dei nostri ricordi, p. 31. Voglio riportare qualche brano. Dice Magris: “In quasi tutto ciò che ho scritto, ho sentito fortemente questa necessità di raccontare per comprendere, perché raccontare significa unire giudizio e accettazione della vita al di là del giudizio, insomma ripercorrere l’esistenza.”
Più avanti Raimondi afferma: “Quando si legge un testo, quando si assume un punto di vista per osservarlo o per interpretarlo si tenta sempre di vederlo sotto una luce differente da quella già istituzionalizzata da altre letture e interpretazioni. Di fatto si compie un atto di decentramento, si sceglie uno spazio non ancora esplorato. Si va verso la periferia e di qui possono allora nascere relazioni non ancora messe a frutto, immagini rimaste in ombra, virtualità per così dire nuove. Nel lettore accade sempre poi uno sdoppiamento, egli osserva e si osserva. Questo è il momento della sua “ironia”, del suo subordinarsi alla verità di un testo, come avevano già intuito i grandi romantici. Il lettore non dev’essere superbo, ma responsabile, cioè consapevole della propria finitezza e della propria temporalità. L’ironia è allora una funzione dell’etica”.
Magris di seguito aggiunge: “La memoria è un grande valore; significa fedeltà, salvataggio delle cose dall’oblio, lotta contro la morte. Ma esiste anche una memoria regressiva e rancorosa, un’incapacità di liberarsi dai grovigli del passato, una livida coazione a ricordare e a vendicare torti patiti -così frequente nella Mitteleuropa- che toglie signorilità e libertà…”. Risponde di seguito Ezio Raimondi: “C’è sempre un’insidia nella memoria, come ammoniva Nietzsche; quella di indebolire il rapporto con il presente, di sostituire la nostalgia o il rimpianto al contatto diretto con le cose e gli uomini del nostro tempo. Ma la memoria con cui prendiamo consapevolezza della nostra storia passata, sospesa quasi nel vuoto del nostro stesso essere finito, può avere anche un ruolo attivo, come un invito al confronto con ciò che sta intorno, con i compiti, le speranza e forse anche le delusioni del nostro presente. Così ricordare è anche un procedere in avanti, quasi un rivivere il passato nel futuro. Allo stesso modo leggere bene è alla fine un atto etico, una scelta, un orientamento vitale”.
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Ornella è ormai al nono mese di gravidanza, per l’esattezza alla trentacinquesima settimana. Fra un mese circa nascerà Sofia. Speriamo che vada tutto bene. Ornella mi telefona a volte sconsolata, per chiedere conforto. Io le parlo con tutta l’energia di cui sono capace, per tirarla un po’ su. Ma sono momenti per fortuna passeggeri.
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È di oggi la notizia che la scuola dell’obbligo proseguirà fini a sedici anni a partire dall’anno prossimo. Penso ai miei alunni pastori o aspiranti manovali, alle immani sofferenze che lo Stato fa provare loro già ora che la scuola termina a quattordici anni, a quello che subiranno gli alunni di tutta Italia che si trovano nelle loro condizioni. Che gran spreco di energie! Chi ha inventato l’espressione diritto-dovere ha veramente inventato un raffinato strumento di sopraffazione e di tortura. Ma in nome dell’Europa, dobbiamo subire anche questo.
24 maggio 1998
Riflessione sulla scrittura come atto comunicativo. Mi capita di sentire l’urgenza di alcune correzioni solo quando sto per inviare un testo a qualcuno. Ragion per cui sospendo la spedizione, e la rinvio, per avere il tempo di intervenire sul testo, migliorandolo. Questo vuol dire che nella scrittura l’esigenza comunicativa ha un’importanza fondamentale, poiché la correzione interviene quando si sta avviando il processo comunicativo con chi si suppone che leggerà il testo che deve ancora essere spedito.
Insomma, non ce ne accorgiamo, ma parliamo, scriviamo sempre a qualcuno; del resto l’ultimo uomo della terra, colui che non avrà discendenza, il sopravvissuto, potremmo mai figurarcelo intento a scrivere le sue Memorie?
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Spero di aver terminato la correzione dei miei tredici racconti. È certo che ci ho impiegato più tempo a correggerli che a scriverli. Ma forse per un principiante come me, questo è del tutto normale.
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Oggi, tempo pessimo. Piove a dirotto.
26 maggio 1998
Continua il mal tempo, con piovaschi che si susseguono a schiarite, mentre la temperatura, dopo i picchi di trenta gradi quindici giorni fa, si è stabilizzata sulle medie stagionali. L’estate è ormai alle porte e con essa la fine della scuola. Che liberazione!
Ho riletto ancora una volta i miei racconti, ed un’altra volta li rileggerò per eliminare qualche piccolo errore residuo, prima di mandarli a Piero Manni.
In questo periodo sto leggendo Gerard Genette, Palinsesti. Il gardo secondo della letteratura, Einaudi, Torino 1997.
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È una di quelle sere nelle quali sembra che il mondo ci caschi addosso, e che abbiamo vissuto inutilmente fino ad oggi. L’idea del suicidio, ch’io non ho mai vagheggiato, si affaccia come un evento oscuro ma risolutivo. Mi trattiene nel mondo l’affetto dei miei cari, la cui sofferenza non sopporterei, neppure da morto.
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L’ultima esperienza letteraria che potrei provare, dopo la poesia, la saggistica, il racconto, è il romanzo. Potrei provare ad immaginare una trama narrativa, progettare una serie di episodi in sequenza. Già penso alla scena leucana, d’estate, con un protagonista sedicenne, in grado di ragionare ma anche d’essere bambino, con tutto ciò che ne consegue. Il tempo dell’azione potrei collocarlo negli anni Ottanta, o giù di lì. Aprirò un file intitolato romanzo.wps. Ma per scrivere un romanzo occorre molto tempo, e solitudine, e mancanza di altri impegni. Ed io per ora non credo di essere in queste condizioni.
28 maggio 1998
Ornella si è sottoposta ad una visita ginecologica. Il dott. Lagna questa volta dice che Sofia è in posizione cefalica, e non più podalica come l’altra volta. Io credo che la volta scorsa si sia sbagliato, poiché già un mese e mezzo fa la bambina si era preparata a venire alla luce nel migliore dei modi. Ornella ora è più tranquilla, e pure io.
Congedo dice che le terze bozze del libro di papà sono quasi pronte, e che arriveranno a casa presto.
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Ho riletto la pagina che ho scritto l’altro ieri, e veramente deploro questo eccesso a cui talvolta mi lascio andare. Con Gérerd Genette, Palinsesti, cit., p. 182 ora dico che “se c’è qualcosa di più angosciante dell’esser chiusi in un labirinto, è forse il credersi dentro quando se ne è fuori: si rischia in effetti, cercando l’uscita, di trovare l’entrata”.
Per il momento non invierò nulla a Manni, perché mi accorgo di dover limare ancora i miei racconti. C’è qualcosa che ancora in essi non mi soddisfa pienamente.
Fra qualche minuto andrò a scuola: quattro ore in cui sarà vietato pensare.
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Per la seconda volta in un mese, improvvisamente il telefono è disattivato per quasi ventiquattro ore di seguito. I lavori per la metanizzazione di Dossena hanno provocato un guasto nell’impianto cittadino. Senzazione di solitudine, impossibilità di comunicare col resto del mondo, lontananza delle persone care. Continua a piovere, e a dirotto.
Leggo di Gabriele D’Annunzio, Il fuoco.
29 maggio 1998
Continua a piovere da più di ventiquattro ore. Ore otto del mattino: vado a scuola. Oggi farò vedere ai ragazzi di terza di Vittorio De Sica, Ladri di biciclette.
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Ho inserito, dissimulandola, qualche citazione dannunziana nel racconto Dieci secondi di panico.
30 maggio 1998
Papà ha di nuovo la febbre, e non sappiamo cosa fare. Io ho insistito perché si ricoveri in ospedale, perché venga curato nel migliore dei modi. Sono molto preoccupato. Ornella sta bene e porta avanti la gravidanza nel migliore dei modi. Giulia mi chiede quando tornerò a casa. Le ho promesso che andremo in giro con la bicicletta, e lei è contenta.
Continuo a lavorare ai miei racconti. Dopo aver preso la decisione di non spedirli a Manni, sono più sereno, e lavoro meglio. Cercherò di rendere pubblici i miei racconti solo quando sarò convinto della loro perfezione formale, quando cioè essi non richiederanno più alcun mio intervento. Questo accadrà solo se, rileggendoli per l’ennesima volta, non mi capiterà di apportare alcuna correzione. Questo sarà il segno che posso tranquillamente congedarmi da loro.
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Il film Ladri di biciclette, naturalmente, è piaciuto ai ragazzi. È veramente un capolavoro. La figura del padre, Antonio, è veramente una scultura neorealistica. L’aura patetica che si respira, per una volta è intrinseca al soggetto, e non lascia alcun margine alla leziosità o al patetismo di maniera.
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Dice Giorgio Bassani in un discorso letto in occasione di un incontro con l’autore organizzato da Anna Dolfi, tenuto alla facoltà di Lettere dell’Università di Trento il 4 maggio 1991 e riportato nel “Corriere della Sera” di oggi, sotto il titolo Bassani: non chiamatemi crepuscolare, p. 33: “I poeti si confessano sempre attraverso uno dei loro personaggi. Anzi: tutti i loro personaggi, se sono tanti, sono forme del loro sentimento (…) Di che cosa devono parlare i poeti se non di ciò che ricordano? I romanzi che sono fabbricati come oggetti di consumo, che non esprimono la realtà intima e profonda di chi li scrive, non sono romanzi, sono fabbricazioni artigianali, che possono interessare chi studia la letteratura dal punto di vista esterno, ma non interessano chi si occupa di letteratura come di un fatto essenziale, fondamentale. A questo proposito direi che è ora di finirla con questa distinzione (che può anche essere utile, a patto, però, di non crederci troppo) fra narratori, poeti, teatranti, saggisti, eccetera. I poeti si esprimono sempre attraverso le cose che fanno, attraverso i versi, i romanzi, le opere teatrali”.
(continua)