L’onestà e l’intelligenza: i bravi maestri di scuola

Poi un mattino  il compagno di baracca dalla branda non si alzò, e lui ai cari tutti non scrisse più. Allora si promise che se fosse ritornato avrebbe imparato a scrivere, e anche a leggere. Perché i conti se li sapeva fare. Se  gli serviva fare i conti, se li sapeva fare.

Quando la guerra finì, ritornò al paese. Riprese a portare il gregge a pascolare. Alcuni anni dopo,  qualcuno gli disse che in televisione  facevano  una trasmissione che insegnava a leggere e a scrivere. Così comprò un televisore.  Il programma si chiamava “Non è mai troppo tardi”. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta.  Erano lezioni in diretta con filmati lettere, parole,  bozzetti, che venivano disegnati con un carboncino  su una lavagna con grandi fogli. Andò in onda per otto anni, dal 15 novembre del Sessanta, dal lunedì al venerdì.

Il maestro che insegnava a leggere e a scrivere si chiamava Alberto Manzi. Era nato il 3 novembre del 1924, a Roma. Tra due mesi avrebbe compiuto cento anni. Morì nel 1997.

Con la sua trasmissione, un milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare. Manzi insegnava la lingua italiana agli italiani. 

Al provino strappò il copione e improvvisò una lezione.

Sapeva perfettamente che insegnare è un’arte che non vuole copione ma conoscenza e creatività, quelle condizioni che attraggono il pensiero dell’altro, di colui che si protende verso un apprendimento. “Non è mai troppo tardi” è stata la sfida che  la televisione italiana e un maestro elementare hanno lanciato contro l’analfabetismo. Sono stati i maestri elementari a fare l’unità d’Italia, gettando ponti fatti di linguaggio, di conoscenze condivise.

Sapeva perfettamente, il maestro Manzi, che un Paese può crescere, svilupparsi, progredire, soltanto se ha buoni maestri. Ma non maestri d’arte, di scienza, di letteratura. Un Paese ha innanzitutto un bisogno essenziale di buoni maestri di scuola. Perché, poi, da quelli dipende l’esistenza dei maestri d’arte, di scienza, di letteratura. Non c’è genio di numeri o  parole, nè di figure dipinte su una tela, non c’è genio di note, di tecniche, di tecnologie, che non abbia avuto, una volta, in un’aula, qualcuno che gli abbia insegnato a comporre una parola, a mettere insieme i numeri, a riconoscere mari e monti e fiumi su una cartina appesa alla parete. Sono stati i buoni maestri di scuola a fare grande questo Paese, insegnando a leggere, a scrivere, a far di conto, soltanto con un gesso e una lavagna, ai figli  dei contadini, degli operai, degli emigranti, adottando l’unico metodo che funziona in ogni tempo e senza distinzioni: quello della passione per il conoscere, per l’applicare il conoscere a favore delle cose che si fanno per gli altri, per se stessi, sia che si costruisca un ponte o che si curi una creatura, che si progetti un condominio di periferia o un parco al centro della città.

I  maestri e le maestre elementari sono stati intellettuali che hanno operato una sintesi sapiente di tendenze, tensioni, aspirazioni, speranze, aspettative, desideri individuali e sociali. Sono stati coloro che hanno permesso a chi non aveva alfabeti di realizzare il sogno di un figlio laureato medico ingegnere avvocato. Insegnando a leggere, scrivere, far di conto.

Alberto Manzi insegnava a leggere e a scrivere. Ma non si può insegnare  e non si può apprendere altro che questo.

In ogni tempo, elaborandolo  in relazione a quelli che sono i contesti e i testi delle culture che attraversano il sociale, a quelle che sono le forme e gli strumenti con cui si esprime il conoscere, il sapere.

Una volta, ai ragazzini che finivano la quinta scriveva così: 

“ Siete capaci di camminare da soli a testa alta, perché nessuno di voi è incapace di farlo. Ricordatevi che mai nessuno potrà bloccarvi se voi non lo volete, nessuno potrà mai distruggervi, se voi non lo volete. Perciò avanti serenamente, allegramente, con quel macinino del vostro cervello sempre in funzione; con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti che è già in voi e che deve sempre rimanere in voi; con onestà, onestà, onestà, e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla; e intelligenza, e ancora intelligenza e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa riuscire ad amare, e… amore, amore “.

L’ultima lezione di “Non è mai troppo tardi” fu trasmessa il 10 maggio del Sessantotto. Forse non a caso finì proprio in quell’anno. Arrivavano tempi differenti, qualche volta anche tempestosi; arrivavano nuove idee, altri scenari di società, altri costumi.

Alberto Manzi tornò ad insegnare nella scuola elementare “Fratelli Bandiera” di Roma. Nel 1965, , su indicazione dell’Unesco, al Congresso mondiale degli organismi radio-televisivi che si tenne a Tokyo,  “ Non è mai troppo tardi” ricevette il premio dell’Onu come uno dei programmi più significativi nella lotta contro l’analfabetismo.

Nelle due serate del 24 e  25 febbraio 2014 in prima visione assoluta,  è andata in onda al fiction di Rai 1 “Non è mai troppo tardi”, con  Claudio Santamaria per la regia di Giacomo Campiotti.

Quando nel 1981 la pagella fu sostituita dalla scheda di valutazione, Manzi si rifiutò di compilare la scheda.

Disse che non poteva bollare un bambino con un giudizio che avrebbe anche condizionato quello degli anni successivi. Fu sospeso dall’insegnamento e dallo stipendio. Diede la disponibilità a adottare una formula uguale per tutti da applicare con un timbro che diceva:  “Fa quel che può, quel che non può non fa”.

Allora l’importante, l’essenziale, è fare quello che si può, al meglio di come si può, imparando a leggere i segni del proprio tempo e di quello passato, e attraverso questa lettura intuire, prevedere, quali possano essere i segni che si manifesteranno nel futuro.

Imparare a scrivere per lasciare tracce nel corso del proprio attraversamento del bosco. 

L’uomo che aveva fatto guerra e prigionia, forse con le sue lettere  voleva lasciare una testimonianza del bosco che stava attraversando. Io qui sto benone, faceva scrivere per conto suo al compagno di baracca. Mangiava bucce di patata: quando mangiava. Ma in quel tempo della sua vita, in quel tempo della Storia, l’importante, l’essenziale, era che i suoi cari tutti sapessero che lui stava benone.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 8 settembre 2024]

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