La danza dell’effimero in Umberto Fiori

Nella parte iniziale del libro, Fiori ripercorre gli anni del suo «brancolante, velleitario apprendistato»: le letture scolastiche dei classici, le prime timide escursioni nella poesia italiana contemporanea, complice anche una delle antologie di Giacinto Spagnoletti ricevuta come (insolito) regalo per il suo dodicesimo compleanno, le idiosincrasie (per Lorca, Prévert) e le folgorazioni (per Sbarbaro e Montale, fra gli italiani, esponenti di un côté ligure particolarmente caro allo scrittore di Sarzana; e per Mallarmé, approfondito negli anni dell’università). Poi arriveranno l’esperienza con gli Stormy Six come «“paroliere” militante che doveva confezionare “messaggi” politicamente corretti da cantare di fronte a un pubblico popolare, che alla poesia era sostanzialmente estraneo»; la concomitante lettura di T.S. Eliot, dei Novissimi, di Andrea Zanzotto; le prime prove di scrittura poetica, che però risultano ancora troppo letterarie, inautentiche; i pareri, i suggerimenti, gli incoraggiamenti di alcuni lettori d’eccezione come Vittorio Sereni e Franco Fortini.

A quei tempi, insomma, Fiori era ancora in piena formazione: «cincischiavo e ricamavo sul nulla del niente – ricorda – dandomi le arie di saperla lunga, strizzando l’occhio a chissà chi». Ma all’inizio degli anni Ottanta, a conclusione di un periodo tormentato anche dal punto di vista personale, non solo espressivo, avviene quel decisivo clic di cui parlavo prima, che il poeta racconta in questo modo: «è lì che mi sono venute incontro le case. Le facciate delle case […] era come se non le avessi mai viste. O le avessi viste fin troppo. Erano l’inconcepibile ovvio. E l’ovvio – etimologicamente – è appunto ciò che ti viene incontro […]. Eppure, d’improvviso mi pareva che quella scena così scontata, così insignificante, volesse dire. Non tanto che avesse un suo senso determinato, ma che – per qualche oscura ragione – davvero volesse parlare. Parlarmi».

È uno spartiacque decisivo. A partire da quel momento, la poesia di Fiori matura, si evolve: trova, potremmo dire, non solo un suo paesaggio, ma una sua dimensione. Di più: una sua giustificazione, una necessità, un’urgenza espressiva. Come il personaggio del film di Auster, Fiori inizia perciò a fotografare ossessivamente le facciate delle case: «cercavo – spiega il poeta – di reimpadronirmi di quell’ovvio che mi spaesava, che mi si presentava come un enigma […]. L’ordinario e lo straordinario mi sfidavano. Si trattava di trovare le parole per raccontarli, per dar conto della mia esperienza».

Riconosciuto il paesaggio (anche interiore) più consono alla propria poesia, occorre adesso trovare le parole giuste per descriverlo o, meglio, per ‘farlo parlare’. In altri termini, occorre riconoscere e affinare la propria voce, che è, specifica Fiori, «il limite che si impone a ogni intenzione letteraria […]. Il verso di questo animale che siamo».

E la sua voce Fiori la calibra attraverso delle strategie espressive molto precise, tutte rivolte ad alimentare quell’originale lirismo asciutto, anti-patetico che caratterizza la sua poesia: la scelta di un soggetto lirico prevalentemente ‘diminuito’, impersonale, a volte un io o un tu generici, a volte un semplice pronome indefinito (uno, qualcuno); la predilezione per la similitudine che permette, rispetto alla metafora, una maggiore «trasparenza dei significati»; la mimesi del parlato, realizzata attraverso solecismi, anacoluti e altri espedienti che puntano a restituire «la grana della parola circolante, la sua casualità, la sua precarietà, il suo ritmo sghembo, la sua rozza vitalità».

Nella seconda parte del libro, Fiori ci fa osservare come tutte queste scelte stilistiche vengano applicate in alcuni suoi testi esemplari, commentandoli in maniera puntuale ma senza didascalismi (perché spiegare una poesia, scrive l’autore, «è un po’ come spiegare una barzelletta»), e ripercorrendo così, per intero, la sua ormai lunga esperienza poetica, dall’esordio di Case (1986) fino al recentissimo Autoritratto automatico (2023), l’opera in cui il poeta – e qui c’è ancora un’ altra analogia con la scena del film ricordata in apertura – prende spunto dalla sua collezione/album di circa settecento fototessere, iniziata nel lontano ’68, che gli permette di sviluppare un’intensa riflessione, in versi, sul concetto di identità, intesa (il che è solo apparentemente un ossimoro) come qualcosa di effimero, mutevole, sfuggente: «Colli che si raggrinzano nel colletto, / capelli sempre più grigi, poi bianchi, / occhiaie molli da lèmure, guance cascanti: / era questa l’idea, fin dall’origine. // Fissare il cambiamento, l’identità. / Contemplarli da fuori, / come in certi documentari il fiore / che di colpo si apre / con lo sprazzo di un fuoco d’artificio».

[«La Repubblica-Bari», 9 dicembre 2023]

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