Il rinnovo della riduzione del cuneo fiscale. Si è trattato di un “cavallo di battaglia” di questo Governo, che riproduce in toto un’idea – e un conseguente provvedimento – del Governo Prodi dell’ormai lontano 2007. La legge finanziaria (così era denominata) di quell’anno, elaborata da un esecutivo di centro-sinistra, impegnò circa 3 miliardi di euro (quasi 6 miliardi a partire dal 2008) di sconti Irap, riducendo del 5% la differenza fra salario lordo e salario netto dei lavoratori italiani. Con importi leggermente diversi, la riduzione del cuneo fiscale verrà costantemente riprodotta negli anni successivi, in particolare con il Governo Monti, il Governo Renzi e con il Governo Draghi: esecutivi – vale la pena ricordarlo – rispetto ai quali il Partito di maggioranza che regge l’attuale Governo era all’opposizione. È di un certo interesse osservare che l’effetto cumulato negli anni della riduzione del cuneo fiscale non è stato, come era invece nelle intenzioni, particolarmente apprezzabile sui consumi degli italiani: si calcola, a riguardo, che, nel nostro Paese, nel 2024 – con 21.778 euro pro capite – la spesa pro capite per consumi delle famiglie, sebbene abbia recuperato i livelli pre-pandemici, nel 2024 è ancora inferiore al picco raggiunto nel 2007 (-138 euro). Ciò, peraltro, si è verificato nel più lungo periodo di deflazione della Storia italiana, dunque nel periodo nel quale ci sarebbe dovuto essere il maggior incremento del potere d’acquisto. La lunga vicenda della riduzione del cuneo fiscale in Italia sembra, dunque, confermare l’ipotesi keynesiana per la quale, in regime di elevata incertezza, gli aumenti di reddito vengono destinati a risparmi precauzionali, senza effetti apprezzabili sulla domanda interna. L’incertezza, a sua volta, è determinata dal fatto che queste misure sono state sempre temporanee ed è ancora temporanea (come lo è stata lo scorso anno), per la validità di un anno, quella prevista dal Governo Meloni, il che rende difficile per i lavoratori che percepiscono gli aumenti salariali pianificare incrementi di consumi nel più lungo periodo.
In questa dinamica, l’Italia non è neppure riuscita a guadagnare posizioni nella classifica OCSE dei Paesi con minore cuneo fiscale, ammesso che questo risultato sia desiderabile: il cuneo fiscale è maggiore del nostro in Belgio, Germania e Francia e tendenzialmente elevato nei Paesi scandinavi. Ben pochi commentatori, poi, si sono interrogati sugli effetti collaterali del taglio del cuneo fiscale: il primo dei quali consiste nell’avere meno risorse disponibili per finanziare il Welfare, soprattutto in una fase – come questa – nella quale la Commissione Europea, dopo il Next Generation Europe, torna a chiedere ai Paesi molto inveitati (l’Italia fra questi) la massima disciplina fiscale. Quasi tutti i Paesi con basso cuneo fiscale hanno pressoché totalmente i servizi di Welfare privatizzati, come accade negli USA – uno dei Paesi, infatti, con minore cuneo fiscale al mondo. Un aumento dei redditi monetari dei lavoratori può quindi essere più che compensato da maggiori spese per l’accesso a beni e servizi pubblici (si pensi, a riguardo, ai tagli alla sanità e all’istruzione degli ultimi decenni, reiterati e accelerati dal Governo Meloni). Il secondo effetto collaterale risiede nella circostanza che, come mostrato dalla teoria economica e dall’evidenza empirica, la riduzione della tassazione ha effetti moltiplicativi sul Pil minori di quanto ne abbia l’aumento della spesa pubblica e ancora meno di quanto ne producano gli investimenti pubblici.
I prospettati tagli alle Università – altro recente tassello della manovra Meloni – riproducono una triste tradizione, ormai sufficientemente consolidata in Italia, che risale alla Legge finanziaria del 2009 del Governo Berlusconi (si ricorderà la tesi di Giulio Tremonti, per la quale “con la cultura non si mangia”), anche in questo caso con significativa continuità con gli esecutivi degli anni successivi, in particolare con quello – molto rilevante – del Governo Monti (Meloni all’opposizione). Non è irrilevante considerare che, come ha fatto osservare di recente Fabio Panetta, Governatore della Banca d’Italia, con il Governo in carica la spesa pubblica per istruzione e ricerca scientifica tende a eguagliare quella per gli interessi sul debito pubblico (cioè, in ultima analisi, per accrescere le rendite finanziarie, di banche italiane e internazionali).
Le agevolazioni fiscali alle imprese – reiterate da Meloni anche quest’anno – hanno visto la loro massima accelerazione durante il Governo Renzi (anche in questo caso, con Meloni all’opposizione) e con il Decreto Poletti, in particolare. L’annunciata spending review, inoltre, è stata sperimentata a partire dall’ormai lontano 1981, con significativa accelerazione negli anni del Governo Monti, peraltro senza risultati apprezzabili (sul tema si rinvia allo studio di Francesco Scinetti e Nicoletta Scutifiero, Perché in Italia le spending review non funzionano, Osservatorio CPI, 30 agosto 2023). Infine, ma non da ultimo per importanza, l’autonomia differenziata è un prodotto bipartisan: prospettata dal Governo Gentiloni di centro-sinistra (Meloni e Salvini all’opposizione), reiterata dal Governo Draghi (Meloni all’opposizione), portata avanti da questo esecutivo, viene proposta dimenticando la tenace opposizione dell’MSI e di Giorgio Almirante a qualsiasi ipotesi di decentramento istituzionale.
Si può allora concludere che la principale novità della manovra in atto è l’assenza di novità; che questa dipende dalla completa omologazione di questo esecutivo a quello che viene definito il “pensiero unico” di matrice liberista (e, dunque, l’omologazione a teorie e politiche economiche discutibili e che, di norma, generano risultati poco rilevanti o addirittura controproducenti), secondo una linea di pieno conformismo che si collega alla rimozione pubblica della memoria di chi governa (si potrebbe, a riguardo, ricordare che Giorgia Meloni era favorevole all’abbandono unilaterale dell’euro da parte dell’Italia: tema non solo mai più ripreso, ma sostituito con l’entusiastica proposta del Ministro Fitto alla Commissione Europea).
L’assenza di elaborazione di un pensiero autonomo, la dipendenza da centri di elaborazione esterni delle principali linee di politica economica (si consideri che il documento programmatico di bilancio è oggetto di valutazione da parte della Commissione Europea), la superiorità gerarchica dei mercati finanziari sulle politiche nazionali (i primi funzionano come creditori dei Governi e, in larga misura, ne condizionano le scelte) possono forse contribuire a spiegare questi fenomeni. Ma è probabilmente opportuno qui lasciare il campo alla politologia, limitandosi a richiamare l’adagio attribuito ad Albert Einstein, per il quale “è follia ripetere lo stesso errore aspettandosi risultati diversi”, giacché – continuava – “il progresso consiste nella deviazione dalla norma”.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 8 settembre 2024]