Bodiniana

(bodiniana 2) Con un gelato / di corvi in mano

Il delfino che ha in bocca la mezzaluna guarda l’Arco di Carlo V e in quel luogo-soglia tra la città murata e la città nuova (magnifiche le sorti e progressive? – forse no, presi anche noi nelle spire del boom) s’intuisce una sospensione strana, un indugio sospetto, un rettangolo dove spettri e malintesi si calcinano alla luce canicolare oppure si colorano d’un verde fosforico nella notte.

Tra i viali soffocati di traffico e la città vecchia chiusa nelle mura c’era l’andirivieni di una melancolia, di un desiderio di essere altrove e di non saper essere se non qui, di buie insoddisfazioni al passaggio del treno verso il nord che faceva male.

Se ète taranta làssala ballare, se ète malincunìa càcciala fore…

(bodiniana 3) Xanti Yaca

Si potrebbe affermare che le monocolture hanno fatto la fortuna di pochi e la miseria di molti (si pensi alla coltivazione e alla lavorazione del tabacco, al pur nobilissimo olivo ucciso ora dalla xylella). Chi metteva sotto le ascelle le foglie di Xanti Yaca per tremare di febbri che l’avrebbero sottratto alla leva obbligatoria emetteva il proprio giudizio sui governi e sulla storia, scrive Bodini che altrove dice dei disoccupati seduti sulle ginocchia del municipio a prendere l’oro del sole.

Non è lavoro la fatica che non riscatta e nega dignità, non è lavoro la fatica dei sottopagati e degli sfruttati, è ovvio, eppure continua a esistere la fatica che schiavizza, offende, uccide.

(bodiniana 4) È qui che i Salentini dopo morti / fanno ritorno / col cappello in testa

Malgrado due millenni di Cristianesimo l’antica Grecia e civiltà mediterranee precedenti continuano ad affiorare nella mitologia popolare e nell’inconscio collettivo dei Salentini –  i morti non sanno staccarsi dalla terra, né i vivi dai morti.

Nel Salento contadino il cappello (almeno quello “buono”) veniva indossato nelle cerimonie importanti o nelle ore di riposo quando, in paese, ci s’incontrava con i conoscenti; la morte era presenza costante nella vita di ognuno, accompagnava la fatica contadina, per questo si apriva la visione collettiva di processioni di morti che silenziosi entrano, in una notte intemporale, nel Sanuario di Leuca de Finibus Terrae.

Finisce qui il Salento terra dura da lavorare, è qui soglia e passaggio nell’oltrevita, ma la poca rissa d’acque ai piedi d’un faro segna la sproporzione tra un’Italia meschina e ingrata e folle di trapassati che ancora sanno cos’è lavoro, speranza frustrata, tenacia di vivere. 

(bodiniana 5) La fidanzata fantasma in un vicolo cieco / si pettinava i capelli sulla lunghezza d’onda d’un telefono in fiore

Emigrare.

Chi resta si consuma coltivando il sentimento d’assenza e aspetta il ritorno.

Tornare non sempre significa riconoscere e riconoscersi.

Chi aspetta non sempre riconosce l’aspettato.

Andare via è una frattura, ritornare pure.

Le amare giade dell’insonnia alimentano vuoti e inconfessabili desideri, distanze irreparabili e ulteriori assenze.

(bodiniana 6) Ho cinque piedi e cinque mani / e non posso più vivere 

Surrealismo è sognarsi creatura polimorfa, conoscere la potenza dell’immaginazione. È l’impossibilità di vivere in una realtà soffocante e senza sogni – per questo le dita diventano mani e piedi, l’andare e lo scrivere varcano confini.

Sono certi marinai o pagliacci filiformi di Lorca con il cuore rosso ben visibile, le mani sanguinanti, oppure i pesci e le sirene e le barche di Rafael Alberti, sono i tramonti del Sud (anch’essi sanguinanti) e l’amaro miele del dopoguerra, mentre i Salentini pérdono sé stessi.

I cavalli bodiniani continuano a passarsi una mano sulla fronte.

(bodiniana 7) Tutto sarà più se stesso / se lei continua quieta a ricamare

La bodiniana angoscia di non comprendere più il senso del reale e delle cose – allorché i viali si faranno ovali, avanzando la civiltà industriale, sentendosi stritolare nelle spire del boom – trova in Luisa Sanfelice, ritratta da Gioacchino Toma nella cella di Castel Sant’Elmo, sereno approdo.

Generazioni di Salentine hanno imparato a ricamare, donne costrette a essere subalterne a padri, fratelli e mariti. Sarebbero dovute diventare tabacchine, essere così impietosamente sfruttate e angariate per cominciare a prendere coscienza di sé e dei propri diritti, o meglio, per iniziare, coraggiose, a lottare per i propri diritti.

La Sanfelice che quieta ricama, invece, ha già una coscienza politica, ha già scelto da che parte stare; ma la luminosa stagione della Repubblica Partenopea non riuscì a riscattare gli sfruttati e i reietti – dopo un secolo e più il Mezzogiorno era ancora terra di masse popolari angariate.

Il poeta e intellettuale che percorreva le campagne salentine udiva un canto levarsi dai campi di tabacco, leggeva Tommaso Fiore e Gaetano Salvemini, pensando la Luisa Sanfelice in carcere si provava a concepire idee chiare e distinte, ricamava una scrittura che fosse coscienza del presente.     

(bodiniana 8) Sbattevano i lenzuoli sulle terrazze

Vittorio non riconoscerebbe questa Lecce svenduta (anima e corpo) al turismo di massa, rigurgitante di b&b, di locali dove assaggiare la “vera cucina salentina”.

Ho fatto in tempo ad aggirarmi per una Lecce dov’era possibile avvertire l’odore del sapone con cui erano state lavate le lenzuola stese in una corte ad asciugare, dove in uno stanzone seminterrato qualcuno riparava le radio a transistor.

Ma non chiamatela nostalgia.

Chiamatelo desiderio di conservare un’anima annodata al passato e al futuro, presente alla vita: lo scorrere della luce solare su muri abitati dai secoli, un gioco di bambini in una piazzetta lastricata (arancio limone mandarino), un pomeriggio di compiti a casa.

Ma forse continua a essere vero che noi Salentini dobbiamo fare un nodo al fazzoletto per ricordarci del cuore.

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