di Paolo Vincenti
Parto dal titolo del volume, La mano e l’intelletto: si fa riferimento ad alcuni versi delle Rime di Michelangelo Buonarroti, il quale, oltre al sommo artista che tutti conosciamo, era anche un buon letterato e il suo volume Rime è fra i prodotti letterari più belli del Cinquecento. In particolare, in questa lirica egli dice: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto c’un marmo solo in sé non circonscriva col suo superchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto”. Le mani, cioè, sono solo le esecutrici materiali dell’opera ma tutto nasce da dentro. Perché scocchi il fiat ci deve essere un’ispirazione, una accensione interiore per l’artista, il quale poi potrà tirare fuori dal blocco di marmo la sua opera, quella che ha già in mente. Quando Michelangelo è impegnato a Roma nella realizzazione di San Pietro, è raggiunto dalle sollecitazioni di Giorgio Vasari a trasferirsi a Firenze poiché aveva ricevuto ottime offerte dal Duca Cosimo de’ Medici. Ma Michelangelo è proprio sul punto di voltare la cupola, la sua impresa più grande e famosa, e scrive una lettera a Messer Giorgio, “pittore eccellentissimo”. Michelangelo chiede la benevolenza di Cosimo di lasciarlo lavorare a Roma fino a quando non avrà finito la sua opera e se ne potrà partire con onore e senza aver commesso peccato. Quindi, vediamo che Michelangelo nell’impresa impegna non soltanto il proprio talento artistico e il genio di artefice ma anche la propria coscienza e la propria fede di cristiano. E non avvertiamo alcuna ambizione smodata, nelle sue parole, nessuna arroganza, nessuna malcelata vanità, che, pure, è propria di ogni artista.