Radio Argo Suite è un monologo che tiene lo spettatore inchiodato sulla poltrona. Per un’ora e venti minuti Mazzotta evoca sentimenti eterni, ripercorrendo le vicende precedenti e successive alla guerra più celebre della storia: la guerra mossa dagli Achei a Troia, per vendicare il rapimento di Elena da parte di Paride. Lo fa dando voce a sei diversi personaggi, protagonisti della tragedia di Eschilo, che uno dopo l’altro si succedono sul palco, venendo fuori dal buio e raccontando con ritmo incalzante vicende di violenza, guerra, dolore, sesso, omicidi nella forma più atroce, il sacrificio di una figlia e il matricidio. Le medesime atrocità che, dopo duemilacinquecento anni, affliggono l’umanità. Parla Ifigenia, sacrificata dal padre per rabbonire gli dei ostili: inconsapevole, quasi festante, racconta di essere andata con le sue amiche nel bosco di Pan dove c’è un albero bellissimo a cui lei ha dato il nome di Agamennone, il padre da cui verrà trucidata. Parla Egisto, satollo, ebbro e volgare, che in siciliano risponde «Cu è, chi minchia è?» alle incalzanti sollecitazioni di Clitennestra, che è stata informata del ritorno in patria di Agamennone e ne teme la vendetta; «aviti a parlare cu mi mugghiera, parlati cu Clitennestra, mi mugghiera, nu rumpiti i cugghiuni», blatera ancora Egisto, credendo che i servi disturbino il suo sonno, inconsapevole della morte che poi lo colpirà per mano di Oreste, vendicatore del padre. Parla Agamennone, tronfio e vincitore, anche lui ignaro della morte incombente, orgoglioso di possedere una schiava seducente come Cassandra: «sono benedetto da dio perché dio ha sempre fatto vincere i più forti, quelli a lui più cari. Chi pensa che dio ama i deboli è un bambino viziato che crede ancora alle favole. Sono ricco, sì sono ricco, ma grazie a me lo siete anche voi. È con la ricchezza che si fa la civiltà, non con l’innocenza, è con la ricchezza che si costruiscono case su case, strade larghe, mercati, teatri, mura ciclopiche; ciclopiche perché lo straniero possa solo immaginare al di là delle mura quale sia la ricchezza della nostra città, e se vorrà magari anche entrarci, col nostro permesso, e rimanerci, col nostro permesso, e farci da schiavo per tutta la vita». E infine Oreste: «Dove sono le guardie, i servi, perché non vengono ad acclamare il nuovo re? Faccio qualcosa di strano? Vi faccio paura?» Per concludere: «Strappate da voi la vanità, strappate da voi la vanità».
Fantasmi che tornano in vita per rivelarci che le guerre si somigliano e che l’orrore si ripete, come oggi ci mostrano le immagini provenienti dall’Ucraina e, atrocissime, da Gaza, che distrattamente guardiamo sugli schermi televisivi; l’innocenza sacrificata dalla menzogna (come conferma Agamennone) spiega il passato da cui veniamo e il presente in cui siamo immersi. Spettacolo straordinario, Radio Argo Suite, ricco di suggestioni esaltate dalla musica: alla fine applausi scroscianti, pubblico in piedi, mentre Mazzotta ringrazia un po’ intimidito, chiamando accanto a sé i musicisti che l’hanno così sapientemente accompagnato.
Siamo a Lucera, e per un istante sembra di essere in uno dei grandi teatri palermitani, napoletani, romani, fiorentini, milanesi che sono l’orgoglio del nostro paese. Vogliamo che prosperino, i teatri eccellenti, che non entrino in crisi a causa di scelte culturali disastrose. A Lucera, in una terra troppo spesso ricordata per carenze e insufficienze, da anni vive una rassegna teatrale di alto livello, che merita sostegno e supporti concreti da amministrazioni e enti del territorio. Quest’anno a Lucera si sono succeduti Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Fratto_X; Isabella Ragonese e Rodrigo D’Erasmo, Gli amori difficili di Italo Calvino; Ginevra Di Marco e Franco Arminio, È stato un tempo il mondo; Peppino Mazzotta, Radio Argo Suite; Lino Guanciale, Er corvaccio e li morti. Quali altre sedi possono vantare una lista come questa?
Non sono molti i giovani che assistono alla serie di «PrimaVera al Garibaldi». Ed è un peccato, un vero delitto di disattenzione. Tanto più che il biglietto non è caro, si spende di più per una pizza e una birra. Le prediche inutili non servono, e io non voglio essere un predicatore, le mie parole non sono prediche. Ma è giusto chiedersi se puntare sulla qualità, invece che sempre e solo sull’intrattenimento facile, non possa diventare l’obiettivo di una politica culturale lungimirante, praticata da presidenti, sindaci e assessori accorti. Non credo che solo la banalità garantisca consenso e voti, come molti dicono. Quando gli spettatori entrano in contatto con il bello, si abituano a distinguere e a scegliere. E quindi apprezzano la qualità, con beneficio collettivo e con riflessi sul futuro. Almeno, mi piace pensarla così.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 6 settembre 2024]