Le complesse strutture metanarrative sovrappongono di continuo l’oggetto del racconto al soggetto scrivente, dando vita a un sottile gioco di specchi dal sapore borgesiano, cioè alla storia di uno scrittore-«guardone» che contempla il mondo, salvo poi scoprire che quel mondo è tutto e solo dentro la sua testa, o meglio nell’inchiostro della sua macchina per scrivere, la sua «olivettina», che con un’improbabile hybris, arriva perfino a contestarne le scelte, battendo autonomamente, a mo’ di sberleffo, alcune lettere sconnesse sulla pagina.
I trofei raccontano dunque le peripezie di questo scrittore alle prese con il suo progetto di libro-mondo «che racchiuda le parole della vita, che sia nient’altro che la vita», la cui stesura dovrà affrontare innumerevoli ostacoli.
Il più arduo dei quali è lo stesso che già si riscontrava nel precedente libro di Verri, La Betissa (1987, anch’esso ripubblicato da Kurumuny nel 2022): le parole non corrispondono più alle cose, le strutture logico-concettuali hanno ceduto, per cui è sempre più invalicabile l’abisso che separa scrittura e realtà: «Il liscio involucro non consente appigli e non è difficile trovare vili fonemi e minutissime frasi arroganti che navigano come in una nebbia, oppure sbandate parole che come in un sogno ad altre si aggrappano, suoni affidando al caso e insolenti significati».
In più, stavolta, il corto circuito parole/cose non riguarda solamente il livello lessicale ma si estende come una metastasi alla frase, al periodo e agli interi blocchi narrativi. Tuttavia il linguaggio conserva ancora intatta la sua potenzialità creatrice: le parole «sanno che è solo grazie a loro che si moltiplicherà la lusinga, e che ci saranno fiabe solo grazie a loro, e tremoleranno speranze solo grazie a loro», per cui vale la pena ritentare l’impresa, adoperarsi di nuovo per la costruzione di un mirabile congegno, che Verri chiama «declaro», «il suo declaro. Fino alle forme ultime, tanto vicine ai corpi. Un guardone che scompone e ricompone, spia i fatti, li gonfia fino a farli diventare, tutto ingigantire, una riscrittura, forse prepara già una rete. Guisnes avrà un suo racconto».
Ancora una volta, però, il sogno di racchiudere il mondo dentro un libro è destinato al fallimento: «Corre e soffia una gelida utopia tra i morti viali» della città di Guisnes, la città fantasma, specimen della società capitalistico-borghese che «sfricolerà. Sarà la città dei flebili trofei, delle ovazioni. […]. Guisnes sarà putrida, rosicchiata, visionaria, senza audacia. Un esercito di marionette».
Lo sforzo dello scrittore si rivelerà vano: dalla città di Guisnes riuscirà ad ottenere, come unico ‘trofeo’, soltanto un residuale, insignificante lacerto di quel libro che, ambiziosamente, andava apparecchiando: «Le minuzie, i fonemi, le voci fitte fitte che sono chiuse in ogni cosa, i grumi verbali».
Ma già questo trofeo è di per sé un tesoro da custodire con cura: è il punto da dove cominciare a ripensare il suo progetto impossibile di scrittura.
La storia riparte così dal suo inizio, dal tema delle parole («vuoto guscio sonoro») che hanno perduto l’aderenza alla realtà; e tutto sembra allora ricalcare il ritmo, l’andamento circolare di un’immensa clessidra che, al passaggio dell’ultimo granello, si rovescia e ricomincia daccapo.
Simone Giorgino
[«Repubblica-Bari», 9 maggio 2023]