di Antonio Devicienti
Ne avevo sentito parlare dai miei professori del Liceo Capece, lo avevo sentito lodare come qualcuno di cui noi Salentini dovevamo andare orgogliosi (lo stesso avevo udito dire di Oreste Macrì).
“Matricola” dell’Università di Lecce, iscritto a Lingue e Letterature straniere, avevo imparato presto a frequentare la Biblioteca situata nel palazzo del Rettorato dove mi si era spalancato un universo vertiginoso e inesauribile di titoli che corrispondevano ognuno a un libro che, finalmente, avrei potuto leggere dopo anni di attesa (pochissimo, ovviamente, il denaro nelle mie tasche fin dagli anni del Liceo, necessario, ora, per l’abbonamento ferroviario e i pasti alla mensa universitaria, per i libri obbligatori dei diversi corsi e per la poca cancelleria – il prestito librario fu risolutivo per la fame che avevo).
In biblioteca incontravo studenti delle altre facoltà, cominciavo a capire meglio il mondo universitario leccese.
Accadde così che qualcuno (non ricordo più chi), conoscendo il mio (ingenuo? infantile? da sempliciotto?) desiderio di “vedere” Mario Marti me lo indicò sottovoce – credo sia significativo il fatto ch’io ricordi invece distintamente tre circostanze concomitanti e cioè che era una mattinata assolata (la primavera salentina quando già prelude all’estate), che scendevamo lungo la scalinata che dal Rettorato porta direttamente a Porta Napoli e che Mario Marti mi apparve un umile, nobile contadino come ce ne sono ancora in Terra d’Otranto.
Mi colpì non poco il fatto che uno degli studiosi e intellettuali italiani migliori di quegli anni conservasse nel proprio aspetto e nella propria riservatezza un’evidente radice contadina che negli anni ho imparato ad amare perché umile, laboriosa, esperta della fatica e paziente, cosciente del fatto che l’esistere matura in tempi che vanno ascoltati e assecondati.
Mario Marti indossava una giacca chiara, di taglio semplice, saliva senza fretta i gradini, riconobbi un volto bruciato dal sole del lavoro contadino e ancora oggi (non ho più avuto la fortuna né d’incrociarlo ancora, né di parlargli) amo immaginarlo esporre il volto al sole, anch’esso bruciante, delle pagine che più amava e anche le sue mani, indaffarate con la penna o la macchina per scrivere, si saranno guadagnate i solchi e i calli del lavoro quotidiano, quasi «aperte pietre sui grembi» come scrive Vittorio Bodini delle antiche donne Salentine sedute, a sera, «sulle soglie, in ascolto».
Quella mattina Mario Marti saliva per entrare in Università, noi scendevamo verso la città incontro a un altro pomeriggio di studio.