Con “Convito delle stagioni” Antonio Prete scova l’essenza del discorso poetico, si avvicina a una fusione di senso e suono che si stagliano come unica entità sullo sfondo del reale. Ritroviamo la natura, elemento irrinunciabile nella poetica di Prete, una natura che si fa ancora più vivida, quasi bruciante nei nostri occhi di lettori, una natura selvatica e domestica al tempo stesso, nella quale smarrirsi come si fa in un bosco e riappacificarsi come si fa in un orto: “Il senso, in quel giardino, è un fiore, il suono/ è il suo profumo, la sua propria luce./ Lo stormire è il pensiero delle foglie./Attendono, le parole, in silenzio,/che appaia, prossima, la terra dove/la lingua è vento, fiume, albero, stella./Vi abita, dicono, la poesia”. Il profumo dei fiori, il rumore delle foglie. Sembra quasi di averli davanti: “vento, fiume, albero, stella”. Come in un dipinto nel quale gli elementi che lo compongono, se guardati da vicino, si distinguono ciascuno nelle proprie caratteristiche ma, se si fa un passo indietro ad osservare l’insieme, si legano nell’armonia delle luci e delle ombre. Ma la libertà della poesia di Prete risiede nell’idea che non c’è un ordine predefinito nell’immaginare questi elementi. È una natura che prende la forma e il colore degli occhi di chi la guarda. La sola certezza è che, quasi dolcemente sepolta, in questa natura vi abita la poesia. Ed è in questo verso che tutto assume un senso. La poesia non è fumosa, non è sospesa, non è astratta, non è invisibile. È il verbo “abitare” che la rende concreta, tangibile, perché se la poesia ha una dimora allora significa che presso di essa ci si può recare, si può bussare alla sua porta, si può attendere che risponda. Prete ci dice dove abita: nelle foglie e nel vento, nel profumo dei fiori. Si muove in tutta la raccolta (quasi striscia, sibilante) un sentimento che era già presente nelle raccolte precedenti ma che si è fatto più imponente: la nostalgia. Tuttavia, questa volta, non è la nostalgia di un tempo andato, di una persona perduta, di un luogo vissuto e mai più rivisto. Assomiglia alla nostalgia di cui scriveva Guido Gozzano: “Non amo che le rose/che non colsi./Non amo che le cose/che potevano essere e non sono/state…”. È la nostalgia non di quello che si è perduto, ma di quello che non è stato. Ritornano i fantasmi, ritornano le lontananze, le figure piene di abbandono, i luoghi vuoti, le stanze piene di eco, un voltarsi indietro che è tutto uno scorticarsi, uno strapparsi via la pelle di dosso nell’impossibilità di raggiungere quello che, oramai, è stato: “La casa rosa è dietro di te:/non so da quale lontananza ti vedo,/quale istante è tua veste, tuo profumo./Sei in un tempo che non è più il tuo tempo,/e anch’io, a causa della distanza da te,/sono in un tempo che è vuoto di tempo”. Prete, originario del Salento, nato a Copertino, al quale è stato recentemente attribuito il premio “Olio della poesia” 2024, ritorna costantemente, all’interno dei suoi versi, al senso delle radici. C’è qualcosa di brullo dei suoi versi, di nero e aspro come la terra del Salento e di dolce e malinconico come le nenie dell’infanzia. Gioca con la lingua, con le parole, con i suoni, tesse e disfa una tela di immagini e ricordi, di invenzioni e memorie che si imprimono come impronte di dita su un cuscino negli occhi di chi legge.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 2 settembre 2024]