di Adele Errico
L’ultima raccolta di versi di Antonio Prete è intitolata Convito delle stagioni (Einaudi 2024). Il professore, poeta, traduttore, sembra raggiungere in quest’ultimo volume, dopo le tre raccolte precedenti -“Menhir” (Donzelli 2007), “Se la pietra fiorisce” (Donzelli 2012), “Tutto è sempre ora” (Einaudi 2019) – una totale armonia tra reale e irreale, senso e suono, visibile e invisibile. Le dicotomie che caratterizzano da sempre la scrittura di Prete si ammorbidiscono in un ritmo di altalena che si fa sempre più lento, sempre più lieve, quasi provocato da un vento leggero. L’incanto della scrittura di Antonio Prete è sempre stato evidente in ogni suo lavoro: leggere un suo saggio significa addentrarsi in un percorso che non è solo di ricerca o di studio o di approfondimento. È un percorso d’amore. D’amore per la letteratura e per i sentimenti che la letteratura, da sempre, indaga. Antonio Prete, nella sua carriera di studioso – appassionato, innamorato – li ha approfonditi e raccontati con un linguaggio che si avvicina moltissimo al linguaggio della musica. L’ermeneutica si srotola tra parole che, come le note musicali, messe una accanto all’altra, producono una magnifica melodia. Come fa nella saggistica, così questo uso delle parole raggiunge un livello ancora più alto di efficacia nel discorso poetico: protagonista di quest’ultima raccolta è spesso la parola. La parola ricercata, la parola sognata, la parola raccontata, la parola voluta e desiderata, la parola che comunica e quella che genera silenzio. La parola dell’uomo e la parola della natura. La parola dell’assenza e quella del ritorno.