Racconti sovietici 9. Quarantunesimo 10

di Boris Andreevič Lavrenëv

(Continuazione)

Capitolo Decimo

In cui il tenente Govorucha-Otrok sente il fragore del pianeta perito, invece l’autore declina ogni responsabilità per l’epilogo.

Per tre giorni dopo lo screzio Marjutka e il tenente non si parlarono, ma non potevano sfuggirsi su un’isola. Da paciere fece la primavera, arrivata con l’irruenza, con il suo caldo respiro riconciliante.

Sull’isola, sotto i colpi degli zoccoli d’oro, si era ormai frantumata la corazza sottile della neve, divenuta un soffice manto di un giallo canarino vivo, sul blu scuro dell’acqua densa.

La sabbia con il sole allo zenit, diventava come una fornace, faceva male soltanto a sfiorarla.

Nel blu carico del cielo, si infuriava l’ardente ruota del sole lavato dai venti del disgelo.

Per il sole, per il vento disgelato, per lo scorbuto si erano ambedue indeboliti del tutto. Neppure si pensava alle liti.

Per intere giornate stettero sdraiati sulla sabbia in riva al mare, scrutavano incessantemente la distesa blu cristallina con lo sguardo, cercavano con gli occhi infiammati una vela.

«Sono agli sgoccioli della pazienza! Se fra tre giorni non arriveranno i pescatori, giuro, mi sparo!» – gemette disperatamente Marjutka, non staccando gli occhi dal pesante blu indifferente.

Il tenente fischiò leggermente.

«Chiamavi me uno smidollato, un verme, ed ora stai cedendo? Hai dimenticato il nostro detto? “Coraggio e nervi saldi, diventerai di sicuro un capo dei cosacchi!” A quanto pare, non avrai altra strada che diventare un capo dei briganti!»

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