Diario dossenese (ottobre 1997-giugno 1998) 6. Marzo

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“Quanto alla posizione naturale di Dossena è tra le più infelici, soprattutto per mancanza di tutte le necessità indispensabili alla vita fisica di una popolazione. La difficoltà della vita e dell’accesso al paese, diventa assai maggiore nella stagione invernale, per le nevi e per i ghiacci che rendono i sentieri pressoché impraticabili”.

Da un Allegato da unire alla lettera scritta da un comitato di parrocchiani di Dossena (per ottenere la benedizione al festeggiato arciprete don Pietro Rigoli nel 25° anniversario della sua venuta a Dossena) per Sua Santità P. Pio XI in data 14 novembre 1924. Dall’archivio parrocchiale di Dossena, in Claudio Gotti, L’arciprete di Dossena Don Pietro Rigoli, Comune di Dossena, s.d., ma 1989, p. 94.

S’intenda che queste parole sono viziate dalla volontà dei parrocchiani di accentuare l’eroismo del “festeggiato”, al fine di ottenere la benedizione papale. Inoltre, oggi nessuno potrebbe ripetere le stesse parole, dal momento che Dossena ha tre strade di comunicazione col fondo valle: Dossena-San Pellegrino (iniziata nel 1927), Dossena-San Giovanni Bianco, Dossena-Serina, tutte strade che servono solo ai dossenesi, perché da questo paese non si passa per nessun motivo, a meno che non si voglia arrivarci intenzionalmente, o perché costretti da qualche necessità.

2 marzo 1998

“Pensiamo all’istituzione dei premi letterari. La si può spiegare facilmente con la struttura dell’editoria moderna e l’organizzazione sociale ed economica della vita intellettuale. Ma se pensiamo alla soddisfazione che, salvo poche eccezioni, lo scrittore non manca di provare ricevendo un premio che spesso non significa niente, la spiegheremo, non come un piacere della vanità, ma come forte bisogno di quella comunicazione anteriore alla comunicazione che è il consenso pubblico, come appello al rumore profondo, superficiale, in cui tutto sembra sospeso – apparizione, sparizione – in una vaga presenza: una specie di Stige che scorre in pieno giorno per le nostre strade, che chiama irresistibilmente i vivi, come se già fossero pure ombre, avidi di diventare memorabili per poter essere meglio dimenticati”.

M. Blanchot, Il libro a venire, cit., pp. 246-247.

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Lavoro al racconto Don Samuele, e lo porto a termine. Dovrò però ancora limarlo.

3 marzo 1998

Ho scritto una poesia dal titolo Acrostico.

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Se non avessi tante restrizioni, impedimenti, ostacoli, censure, non riuscirei a scrivere nulla di buono. Se la mia strada fosse piana o in discesa, vi scivolerei tranquillamente, senza darmi pensiero di nulla. Forse questo spiega perché durante un collegio dei docenti, dove non si può scrivere, mi vengono idee brillanti. È nei collegi dei docenti che molte mie poesie sono nate (come quella su citata), oppure durante i corsi d’aggiornamento, dove psicopegagogiste-sanguisughe (sanguisughe travestite da psicopedagogiste) hanno cercato e cercano di succhiarmi il cervello, come gli exstraterrestri d’un film di cui non ricordo il titolo, i quali imprigionavano gli uomini in bozzoli dentro una rete, prima di cibarsi della loro materia cerebrale.

4 marzo 1998

Stamani mi sono svegliato presto. È il mio giorno libero e me lo voglio godere proprio tutto. Ho portato a termine il racconto d’ambientazione dossenese dal titolo Don Samuele.

5 marzo 1998

Leggo in P. Levi, I sommersi e i salvati, in Opere, I, Einaudi, 1987, pp. 663-664 un’analisi del funzionamento della memoria che voglio riportare. Naturalmente Levi scrive a proposito dell’olocausto, ma credo che la sua definizione possa avere valore universale, come del resto risulta dal tono delle parole del medesimo autore. La citazione è questa:

“Si conoscono alcuni meccanismi che falsificano la memoria in condizioni particolari: i traumi, non solo quelli celebrali; l’interferenza da parte di altri ricordi “concorrenziali”; stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni. Tuttavia, anche in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono. È probabile che si possa riconoscere qui una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. È certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese”.

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Ricopio molte citazioni da Elio Gianola, Leopardi, la malinconia, cit., che ho trovato molto interessante soprattutto nella parte in cui egli critica l’impostazione storicistica della critica leopardiana (Binni-Luporini, Timpanaro). Si vedano le citazioni nel file critleop.wps.

Qui mi limito a riportare una citazione sul tema malinconia-morte che trovo in Gianola, cit., pp. 236-237, che a sua volta cita Eugenio Borgna, definito “splendido fenomenologo della condizione malinconica”: “”Il tema della morte (della dilemmaticità e della irraggiungibilità della morte, della sua possibilità e della sua impossibilità) si intravede in ogni esperienza malinconica; e non si può comprendere fino in fondo la significazione psicologica e umana della malinconia se non risalendo dalla fatale pressione della morte. Nella malinconia non si muore, la vita non si spegne, e nondimeno in essa si è già alla fine […]; si è nel deserto di un vuoto indicibile che si esprime nel vissuto di un essere-morti interiormente”” [in nota 9 Gianola rimanda a Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 118]. Dovrò procurarmi questo libro.

Mia malinconia post-adolescenziale, quando mai avrei previsto di giungere l’età di trentacinque anni, quando il pensiero della morte era la mia ombra.

6 marzo 1998

Riporto ancora una citazione da E. Gianola, cit., p. 262, che  a sua volta cita G. Agamben, Stanze, Einaudi, Torino 1977, p. 26: “Se la libido si comporta come se una perdita fosse avvenuta, benché nulla sia stato in realtà perduto, ciò è perché essa inscena così una simulazione nel cui ambito ciò che non poteva essere perduto perché non era mai stato posseduto appare come perduto e ciò che non poteva essere perduto perché, forse, non era mai stato reale,  può essere appropriato in quanto oggetto perduto. […] Ricoprendo il suo oggetto coi funebri addobbi del lutto, la malinconia gli conferisce la fantasmagorica realtà del perduto; ma in quanto essa è il lutto per un oggetto inappropriabile, la sua strategia apre uno spazio all’esistenza dell’irreale e delimita una scena in cui l’io può entrare in rapporto con esso e tentare un’appropriazione che nessun possesso potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare”.”

Non è questo il luogo della finzione della poesia, della letteratura, dell’arte? Non è forse questo l’unico luogo dove il possesso è sicuro perché tutto è già in partenza perduto? Non è questo il luogo della vera, possibile felicità?

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L’Autobiografia di Norberto Bobbio, a cura di Alberto Papuzzi, edita da Laterza, Roma-Bari 1997, p. 3, inizia con queste parole: “In un dato momento della nostra vita – i venti mesi che separano l’8 settembre 1943 dal 25 aprile 1945 – siamo stati coinvolti in eventi più grandi di noi. Dalla totale mancanza di partecipazione alla vita politica italiana, cui ci aveva costretto il fascismo, ci siamo trovati, per così dire, moralmente obbligati a occuparci di politica in circostanze eccezionali, che sono quelle dell’occupazione tedesca e della guerra di Liberazione. La nostra vita è stata sconvolta. Tutti noi abbiamo conosciuto vicende dolorose: paura, fughe, arresti, prigionia; e la perdita di persone care. Perciò dopo non siamo più stati come eravamo prima. La nostra vita è stata divisa in due parti, un “prima” e un “dopo”, che nel mio caso sono quasi simmetriche, perché il 25 luglio 1943, quando cadde il fascismo, avevo trentaquattro anni: ero giunto “nel mezzo del cammin” della mia vita. Nei venti mesi fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 sono nato a una nuova esistenza, completamente diversa da quella precedente, che io considero come una pura e semplice anticipazione della vita autentica, iniziata con la Resistenza, alla quale partecipai come membro del partito d’azione”.

Bobbio è del 1909. Questa rievocazione delle due fasi più importanti della sua vita, mi ha fatto pensare a mio padre, alle sue Memorie di Galatina, nelle quali i venti mesi (estesi da mio padre al 18 aprile 1948) indicati da Bobbio sono fatti oggetto di studio per la loro rilevanza politica generazionale. Credo che tutta la generazione nata nel primo venticinquennio (mio padre è del 1921) del secolo sia stata segnata da quei venti mesi; il che non è accaduto alla mia generazione che non ha raccolto che i fallimenti e le ipocrisie del post-sessantotto.

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Ricopio gli articoli di mio padre su Gobetti. Il titolo del libro che sto ricomponendo potrebbe essere: Due maestri (con riferimento a Leopardi e Gobetti), oppure semplicemente: Maestri.

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La cosa estremamente affascinante di Dossena, come già ho detto, è che questo paesino è posto fuori da ogni via di comunicazione; nessuno vi passa per andare da nessuna parte, per cui l’isolamento è completo. Non è questo il luogo ideale della poesia, il non-luogo? Per gli altri, difatti, questo paesino potrebbe anche non esistere, e non cambierebbe niente della loro vita. Non è la prima volta che sperimento il significato del vivere al di fuori d’ogni via di comunicazione. Già da piccolo, e poi da giovinetto, ne ho sentito il fascino e il timore, quando andavamo a Santa Maria di Leuca de finibus terrae per passare le vacanze estive. Bisognava arrivarci apposta, e ci si arrivava da Galatina passando per una diecina di paesini, quando ancora non c’era la superstrada Lecce-Maglie. E poi, dopo Gagliano, una lunga discesa, e infine il mare luccicante. Lì, a Leuca, nessuno sarebbe mai arrivato. Lì era possibile la vera vacanza, la fuga dalla vita consueta, l’assenza, l’oblio di se stessi. Io credo che questo sia stato il senso della scelta da parte di mio padre di quel luogo, e non di un altro, per passare le vacanze.

8 marzo 1998

La conclusione critica di E. Gianola, cit., p. 469 riguardante Leopardi, credo che valga oggi più che mai. Eccola: A p. 469: “Il flâneur è esattamente il contrario dell’engagé e concepisce il letterario da un punto di vista esclusivamente estetico, al di fuori di ogni intenzione di utilità, in un distacco ironico-doloroso dal contesto sociale che testimonia della sua irriducibile “diversità”. L'”inutile” proclama il diritto della poesia ad essere tale, in un mondo in cui il politico inesorabilmente chiede alla poesia di adeguarsi ai suoi progetti o di scomparire. L’impoliticità radicale di Leopardi è lo stesso della sua natura di poeta anti-contemporaneo, del tutto sradicato dall’attualità per il suo proiettarsi al di là delle ideologie che stanno prendendo il dominio della cultura, e anche del potere, nel cuore dell’epoca borghese: il suo modello dell'”antico” è il modello dell’alterità del poetico, a fronte di quelle ideologie che, a partire dall’idealismo, prevedono in un modo o nell’altro la morte della poesia, nella morsa inesorabile del reale-razionale e del politico come prospettiva totalizzante”.

10 marzo 1998

Ho scritto un altro racconto, Il vecchio pescatore, di ambientazione leucana, e devo dire di sentirmi abbastanza soddisfatto. Sto evidentemente attraversando un periodo di intensa creatività, e spero che duri. Interrompo per il momento la scrittura di questo diario e mi trasferisco su un altro file per iniziare addirittura un altro racconto.

12 marzo 1998

Confermo: questo è sicuramente per me un momento di grande creatività. In meno di una settimana ho scritto tre racconti, l’ultimo dei quali l’ho rifinito oggi. È intitolato Storia di Giampiero. Speriamo che continui così. Se riuscissi a scrivere dieci racconti (in tutto ne ho scritti solo cinque) potrei pensare di farne un libro e di proporne la pubblicazione a qualche editore. Vedremo.

Intanto, oggi ho chiuso il plico da inviare domattina a Carpi per il Premio di narrativa “Arturo Loria”, II edizione. Vi partecipo con il racconto Il lupo di Dossena.

Nota dolente: è morta lunedì scorso, all’età di 84 anni, Anna Maria Ortese.

Ho cominciato a leggere Fango del giovane narratore Ammaniti. Sono incuriosito (ma poi neanche tanto) da questi cannibali che l’industria editoriale sforna a ripetizione. Lo leggerò nei ritagli di tempo.

Nei prossimi giorni devo scrivere a Enrico: gli manderò qualche racconto, anzi tutti e cinque. Ma prima devo rivederli.

Vado a cena.

13 marzo 1998

Domani spedirò a Roma-Trullo dieci poesie in cinque copie con cui partecipo al Premio Dario Bellezza indetta dall’omonima Associazione Culturale. Ho appena finito di stampare le copie e di preparare il plico. Sono stanco.

Ieri sera ho letto qualche pagina di Ammaniti, parte del primo racconto della raccolta Fango, dal titolo L’ultimo capodanno dell’umanità, e devo dire che mi ha divertito, in qualche caso mi ha fatto proprio ridere. Costui tratta la scrittura con una leggerezza veramente sorprendente, e forse, dopo tanto sperimentare, dopo tante porcherie ributtanti, un po’ di leggerezza senza pretese fa bene all’anima, ci riconcilia con la vita. Non sempre giova speculare sui massimi sistemi, tanto più quando lo si è fatto per tanto tempo, e non si è cavato un ragno dal buco. Continuerò a leggere Ammaniti.

14 marzo 1998

Finalmente buone notizie da Galatina. Le analisi del sangue e delle urine di mio padre vanno bene e, malgrado qualche sporadica febbre, la cui origine non è ancora stata chiarita, mio padre si sente in forma. Inoltre Congedo si è deciso a mandare a mio padre le prime bozze del suo libro, il che vuol dire che qualcosa si muove nell’immota aura galatinese.

Stamani, prima di andare a scuola ho stampato i cinque racconti che invierò a Enrico la settimana prossima, con una lettera che devo ancora scrivere.

Oggi, approfittando di questo sabato rigido ma pieno di sole, faremo una capatina a Bergamo.

15 marzo 1998

È incredibile: la mia vena sembra veramente ricca! Oggi ho scritto il mio sesto racconto dal titolo Il compleanno di Serena di ambientazione urbinate, e ne sono abbastanza soddisfatto. Questa mia nuova occupazione mi distoglie dallo scrivere con puntualità questo diario, sicché comprendo ancora una volta quanto sia vero ciò che afferma Blanchot a proposito del rapporto opera-diario. Inoltre, sto trascurando anche le letture che avevo iniziato. Spero che la gentile signorina bibliotecaria di San Pellegrino Terme non debba rimproverarmi qualche ritardo nella consegna. Tutto sommato, sono abbastanza contento, perché mi sto dedicando a qualcosa che reputo veramente importante. La meta è sempre quella dei dieci racconti, poiché almeno dieci racconti rappresentano un’unità narrativa abbastanza significativa da sottoporre all’attenzione di qualche editore.

Dopo lungo pensare, sono giunto alla conclusione che la mia opera su Dante non potrà essere che la mia opera seconda o addirittura terza, perché mai a nessuno interesserà uno studio su Dante, se non quando io mi sia fatto un nome o come poeta o come narratore. Per questo motivo sto cercando in questo periodo di pubblicizzare la mia opera poetica, inviandola  ai Premi letterari, e contemporaneamente mi sto dedicando alla scrittura di racconti. Noto con piacere che nella stesura dei racconti non v’è nulla di forzato, perché mi vengono fuori di getto, quasi non trovo intoppi nello scriverli, e questo mi certifica almeno della loro genuinità.

16 marzo 1998

Ho finito di leggere le poesie di Bassani, In rima e senza, e continuo la lettura dell’autobiografia di Bobbio da cui ho tratto alcune citazioni (vedi il file Blibliaut.wps). Inoltre finisco di leggere il primo racconto di Fango, e penso alla candida ingenuità con cui è scritto. Ammaniti rovescia nello scritto tutte le porcherie mass-mediatiche che circolano in giro, utilizzandone il linguaggio in presa diretta. La prosa appare ancora una volta ancilla dei programmi televisivi, della fumettistica corrente, in una rincorsa sfrenata dello stereotipo: perciò, forse, mi sembrava tanto leggera. Ammaniti ha mescolato tutto questo col candore d’un fanciullo, e lo ha riversato sul lettore, allettandolo con qualche soluzione comica e con la stereotipia dei personaggi e delle situazioni. È la tipica lettura da spiaggia, quando il solleone ci lascia capire solo le cose già capite, e nulla più.

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Quel che importa in una storia non è tanto il personaggio o l’azione, quanto la situazione complessiva che si vuol descrivere, che può essere più o meno significativa. Dalla situazione complessiva dipende la vita del personaggio, il dinamismo dell’azione, e la riuscita del racconto.

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Ho scritto a Enrico e gli ho mandato i miei primi sei racconti. Vedremo quello che ne pensa.

18 marzo 1998

Mi son procurato Il libro nero del Comunismo, Editore Mondadori, Milano 1998, che il Berlusca ha distribuito nel congresso di Verona del Polo, l’altro giorno. È un librone di quasi 800 pagine e non ho certo intenzione di leggerlo tutto. Spizzicherò, piluccherò, qua e là. Anche perché l’approccio al problema del comunismo mi sembra di primo acchito arbitrario e unilaterale. Cito da p. 5: “Il nostro approccio va al di là del singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme, nell’intero arco della sua esistenza”.

Ricopio intanto gli articoli di mio padre su Gobetti.

19 marzo 1998

Oggi ho finito di scrivere a mio padre per illustrargli il progetto per la Presentazione delle sue Memorie di Galatina, che presuntivamente dovrebbe avvenire durante la Mostra Mercato di Galatina, alla fine di giugno. Spero che accolga le mie idee in proposito, nelle quali propongo di invitare anche persone che non condividono il taglio politico che mio padre ha dato al suo lavoro. Vedremo.

Oggi Ornella ha ritirato l’esito delle ultime analisi, cui si è sottoposta ieri mattina. Le manca solo un po’ di ferro che potrà riacquistare con un integratore. Inotre si è sottoposta ad una ecografia che ci ha consentito dei vedere il profilo della piccola Sofia che tiene un dito, credo il pollice, in bocca, e sembra fare marameo.

22 marzo 1998

Oggi sono nel mezzo del cammin di nostra vita, avendo compiuto il mio trentacinquesimo anno di età. Credo che Dante abbia sottolineato l’importanza di quest’età con cognizione di causa, perché la pienezza intellettuale, il vigore fisico e psichico che in quest’età si raggiunge possono favorire una rigenerazione completa dell’individuo; se questa non avviene, l’appiattimento sull’esistente è inevitabile.

Nei due giorni passati ho scritto un racconto di una quindicina di pagine dal titolo La donna del capitano, ambientato nel napoletano, per il quale ho attinto ai miei ricordi di militare. C’è in esso qualcosa che non mi soddisfa, e pertanto dovrò rivederlo.

Oggi con Ornella e Giulia ho visitato Novara. Ne ho tratto l’impressione di città  semiabbandonata: palazzi cadenti o disabitati, muri senza intonaco, una struttura cittadina che sembra sacrificare i monumenti, le chiese, ecc. Insomma, se dovessi fare un paragone con le altre città della vicina Lombardia da me visitate, direi che Novara cede a quelle per bellezza e cura del patrimonio architettonico.

23 marzo 1998

Oggi è il terzo giorno di primavera, e stamani ci siamo svegliati sotto un manto bianco di neve. Questa neve distruggerà tutti i germogli e i fiori, e tuttavia la suggestione del paesaggio innevato è grande.

Oggi ho rivisto il racconto dal titolo La donna del capitano, che è risultato essere il racconto più lungo tra quelli da me scritti finora. Comincia a piacermi: l’argomento è pieno di pericoli, poiché la vicenda raccontata ha a che fare con l’8 settembre, su cui gli storici continuano a scontrarsi.

Sto trascurando le mie letture, ma che farci? Non si può scrivere e leggere contemporaneamente, e qualcosa alla fine risulta trascurato. Leggo tuttavia il saggio di Nicolas Wert, Violenze, repressioni, terrori nell’Unione Sovietica, ne Il libro nero del comunismo, cit., che mi sembra molto interessante.

25 marzo 1998

Riporto di seguito un brano tratto dall’Autobiografia di Bobbio, cit., pp. 213-214: “Pur avendo scritto articoli di giornale per molti anni (ma ora non ne scrivo più), sono convinto, anzi sempre più convinto, che l’opinionista non abbia quell’influenza sull’azione politica che crede di avere: la politica la fanno i politici di professione, non i giornalisti o gli intellettuali. Rispetto a ciò che costituisce realmente lotta politica, l’intellettuale non è in grado di esercitare alcuna concreta influenza. Questo vale per me ma anche per gli altri. (…). Ma si tratta di dimensioni del tutto diverse: una cosa è la storia delle idee, una cosa è la politica reale. Sono due mondi diversi, che non si sovrappongono né si incrociano, ma procedono l’uno accanto all’altro, senza quasi mai incontrarsi. Di una cosa sono assolutamente certo: il potere ideologico, l’unico potere che hanno gli intellettuali, conta molto meno del potere che  possono esercitare ed esercitano di fatto coloro che partecipano in maniera diretta alla vita politica”.

Queste parole dovrebbero far pensare quanti discutono del rapporto tra intellettuali e potere.

Nella stessa Autobiografia, a p. 248, Bobbio riporta un passo dal suo De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, Torino, 1996, p. 49 che riporto perché costituisce una riflessione da vecchio sul tema della memoria: “E il passato rivive nella memoria. Il grande patrimonio del vecchio è nel mondo meraviglioso della memoria, fonte inesauribile di riflessioni su noi stessi, sull’universo in cui siamo vissuti, sulle persone e gli eventi che lungo la via hanno attratto la nostra attenzione. Meraviglioso, questo mondo, per la quantità e la varietà insospettabile e incalcolabile delle cose che ci sono dentro: immagini di volti scomparsi da tempo, di luoghi visitati in anni lontani e non mai più riveduti, personaggi di romanzi letti quando eravamo adolescenti, frammenti di poesie imparate a memoria a scuola e mai più dimenticate; e quante scene di film e di palcoscenico e quanti volti di attori e attrici dimenticati da chi sa quanto tempo ma sempre pronti a ricomparire nel momento in cui ti viene il desiderio di rivederli e quando li rivedi provi la stessa emozione della prima volta; e quanti motivi di canzonette, arie di opere, brani di sonate e di concerti, che ricanti dentro di te”.

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Darò in lettura a don Imerio i due raccontini di ambientazione dossenese. Don Imerio è il parroco di Dossena, una bravissima persona, intelligente e mite, che ispira fiducia. È mio collega a scuola.

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Alle volte penso che per diventare un buon narratore bisogna conquistarsi il diritto di narrare. E questa conquista non può che avvenire in due direzioni: da una parte il narratore deve saper narrare, dall’altra deve avere qualcosa da narrare. Se al presunto narratore manca una di queste due cose, è meglio che taccia.

27 marzo 1998

Oggi mio padre ha compiuto settantasette anni. Gli ho dato gli auguri per telefono. Ha letto la mia lettera, e mi ha risposto oralmente che ne discuteremo a voce, al mio ritorno a Galatina.

Comincio a leggere di Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, da cui, eventualmente, riporterò alcune citazioni. Trovo Eco molto interessante dal punto di vista teorico, anche se a volte un po’ cervellotico.

Ho chiesto in prestito alla biblioteca di San Pellegrino Terme  un libro di Giovanni Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, II, Mondadori, Milano 1978, che leggerò soprattutto nella parte riguardante l’8 settembre, la fuga del re e la situazione nell’Italia meridionale in quel periodo. Me ne potrò avvalere per dare uno sfondo storico al racconto La donna del capitano, che si sta rivelando come il mio racconto più difficile e impegnativo. Continuo a lavorarci da diversi giorni, senza ancora essere del tutto soddisfatto.

Riporto di seguito il pensiero che l’Artieri premette al II vol. della sua opera: “Il narrare dei suoi tempi scema fede nei racconti, per la opinione universale che lo storico di cose presenti, menato dagli odi e dagli amori, falsifica e svolge la verità. Ma la storia è testimonianza, lo storico dice cose viste o apprese da chi le vide; la condizione di contemporaneo, mediata o immediata, è indispensabile.

Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, nella pref. di Gino Capponi, p. 18.”

29 marzo 1998

Oggi ho scritto un nuovo racconto dal titolo La prima volta. L’entrata in vigore dell’orario legale ci ha donato un’ora in più di luce. Sono le ore  18.45: esco per fare una passeggiata con Giulia.

31 marzo 1998

Ho rivisto il racconto La prima volta, e devo dire che l’ho trovato discreto: è il mio ottavo racconto. La meta è sempre quella dei dieci racconti, che costituirebbero una sufficiente unità narrativa, da consegnare al giudizio di qualche editore.

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Trascrivo una traccia che potrei assegnare per compito ai miei allievi: “Una mattina ti svegli e ti accorgi che, durante la notte, sei stato trasformato in adulto. In preda al panico, ti precipiti in camera dei tuoi genitori. Loro sono stati trasformati in bambini. Racconta il seguito.”

È la traccia che il prof. Crastaing, insegnante in una scuola media di Belleville, nella periferia parigina, dà a tre suoi allievi per punizione.

Dal romanzo di Daniel Pennac, Signori bambini, Ed. Feltrinelli, 1998.

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Stasera i miei alunni passeranno coi campanacci per salutare marzo: mi hanno già avvertito stamani, a scuola. Io ho messo da parte le caramelle che getterò dalla finestra al loro passaggio.

(continua)

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