“Convito delle stagioni” ovvero un’indagine in versi di Antonio Prete sul respiro dell’esistenza

Dunque, un invito a interrogarsi su questioni incandescenti, fondative, che diventano materia e sostanza di questo alto e ormai ben riconoscibile itinerario poetico. In un’epoca in cui, per inciso, la poesia degli anni Zero-Venti, fra ombelicali esibizioni dell’io, pratiche sperimentali sempre più dissonanti ed estreme, derive manieristiche o, al contrario, disinvolto disinteresse nei confronti della tradizione letteraria, sembra percorrere tutt’altre strade.

Questa indagine in versi sul respiro dell’esistenza, che si basa sull’ascolto delle enigmatiche armonie dei moti astrali («cartografo celeste», si autodefinisce il poeta) e dei loro riverberi immanenti nel creato, nella physis, nel qui e ora in cui si colloca l’osservazione, si distingue per le folgoranti accensioni dello sguardo, per i suoi movimenti meditativi e intermittenti fra due poli distinti ma in fondo misteriosamente speculari: dal ‘terrestre’ al ‘celeste’, appunto, proprio come nel luziano Viaggio di Simone Martini: e proprio Mario Luzi, si capisce, è forse il poeta più assimilabile a Prete per musicalità, tono, timbro, concentrazione del dettato. Ma davvero ininterrotto è il dialogo che si instaura, in queste pagine, con altri grandi poeti, frequentati, tradotti o semplicemente letti e amati da Prete: da Yves Bonnefoy a Edmond Jabès, da José Ángel Valente a Ida Vitale, da Wallace Stevens a Paul Celan, alcuni dei quali sono ricordati affettuosamente nell’intensa poesia Passi d’ombra.

La riflessione sul tempo, inteso non come χρόνος (chronos) cioè tempo evenemenziale, ma come αἰών (aion) cioè tempo verticale, durata; o piuttosto come dimensione propria e privilegiata del soggetto lirico che accoglie in sé, agostinianamente, nell’accadere della sua meditazione, la memoria del passato e l’attesa del futuro, occupa un posto strategicamente decisivo nella poesia di Prete. Si dispiega, così, un tempo misurato da una prospettiva sincretico-sincronica; come chiarisce, d’altronde, lo stesso titolo Convito delle stagioni, che rimanda al concetto, di straordinaria potenzialità suggestiva, della compresenza dei tempi, della durata del passato nella trama inafferrabile di un presente fuggitivo, aperto ai presagi del futuro.

In questa assorta riflessione sul tempo si innestano alcuni elementi saldamente legati allo spazio che ci introducono spesso in un paesaggio immediatamente riconoscibile, cioè nei luoghi di origine di Prete, nativo di Copertino, nel Salento. Ma, è chiaro, quel paesaggio non è uno sfondo inerte, un belvedere cartolinesco. Tutt’altro. Il Finisterre salentino agisce più in profondità sulla poesia di Prete, fino a diventarne un elemento essenziale. È un paesaggio «biologale», come scriveva Andrea Zanzotto, e cioè un paesaggio che contribuisce a formare le creature che lo abitano (e non solo viceversa). È perciò un paesaggio psichico, antropologico, affettivo, culturale, memoriale; è un paesaggio che diventa causa efficiente di poesia, come dimostra, in particolare, la sezione conclusiva La lengua, lu ientu, in cui la lingua madre, il dialetto copertinese, diventa chiave d’accesso «al verde giardino» dell’infanzia; e come si vede, per esempio, nella poesia che apre la sezione più en plein airdella raccolta, Quaderno blu marino, dove il Sud appare come: «lingua del ricordo, polvere / celeste nella materia dei giorni, /  il Sud che è lontananza e insieme spina, /  terra rossa, tumulto di partenze, // il Sud delle ferite e dell’attesa, / dove gli angeli stanno rintanati / dentro l’anima della cartapesta, /  il Sud che è il vento dei pensieri».

[“La Repubblica – Bari” del 31 agosto 2024]

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