di Simone Giorgino
Antonio Prete, professore emerito dell’Università di Siena, comparatista di fama internazionale oltreché poeta e traduttore fra i più autorevoli degli anni nostri, ha pubblicato, a oggi, quattro raccolte di versi, due uscite presso Donzelli, Menhir (2007) e Se la pietra fiorisce (2012), e due nella collana bianca di Einaudi, Tutto è sempre ora (2019) e Convito delle stagioni (2024), da pochi giorni in libreria.
Non so se sia corretto parlare di tetralogia, anche perché ciò significherebbe non dare il giusto rilievo ad alcuni registri oggettivamente discontinui che si possono individuare in questo percorso ormai quasi ventennale, ma certamente l’intera opera poetica di Prete si presenta in maniera molto compatta, calibrata, simmetrica.
I suoi versi, fin dal loro primo – potremmo forse dire tardivo – manifestarsi al pubblico, lasciano al lettore la sensazione di misurarsi con una ricerca espressiva allo stesso tempo antica e attualissima, che è poi il tratto distintivo e il grande segreto dei classici: quel sapore di miele selvatico sprigionato da un linguaggio sì aurorale ma che appare, nell’atto stesso della pronuncia, già inevitabilmente compromesso con le cose del mondo; che anzi prende spunto proprio dall’attenta osservazione/auscultazione delle cose del mondo per spingersi molto più oltre, per «contemplare la gloria / siderale», come si legge in Nessun nome; per esplorare i paesaggi della memoria (personale, certo, ma anche collettiva: la storia, i suoi drammatici conflitti e i suoi squilibri occupano un posto nient’affatto laterale in questa raccolta in cui si parla anche delle guerre in Ucraina e a Gaza, delle stragi in mare dei migranti, del cupo periodo del covid); per testimoniare il mistero e il senso della vita, dell’esserci.