Critico, saggista, poeta, l’ordinamento cronologico dei suoi scritti ci consente di ammirare la costanza lungo gli anni di una scelta inconfondibile dei testi, fondata sul gusto dei bei libri, delle belle stampe e della notizia peregrina. Vediamo di registrarne la documentazione.
Incominciamo col dire che la vocazione di tutta la sua vita è stata la critica letteraria. Da Ungaretti di cui la miglior poesia…(…)… è più dotata di musiche, più elegante e misteriosa di immagini e se per trasportare qualche volta la materia dal senso allo spirito, questo non è che un più accorto affinamento sensitivo…(…)…, a Palazzeschi di cui il critico esamina il secondo tempo della poesia, quello di Stampe dell’800 e Sorelle Materassi, dopo L’Incendiario ed Il Codice di Perelà, rinvenendovi un’arte che … (…)… quando si svincolerà dalla maniera di un suo gioco un po’ frettoloso e un po’ insistito, quando approfondirà e farà più intensi i suoi scavi, non tanto nelle zone archeologiche del vecchiume ridicolo quanto nel recesso più sensibile e più difeso delle anime, quando il suo divertimento di poeta e il suo rimpianto saranno più limpidi e sorvegliati …(…)…, allora raggiungerà compiutamente il tono fluido e sicuro della poesia…(…)…; al D’Annunzio al quale, secondo Antonicelli, fu negata l’umanità intera, quella che più ci tocca e ci commuove, quella che senza possibilità d’inganno tutti riconosciamo, di contro ad un’umanità circoscritta a quegli orgogliosi sensi della carne e moti dello spirito che sono pur essi dell’uomo, ma non richiedono né sforzo di comprensione, né profondità d’indagine, poiché non v’è né da salire né da scendere, ma da vagabondare solo in superficie…(…)… E poi ancora di Delio Tessa, poeta in dialetto meneghino delle cose grigie e sordide e putrescenti come il senso del repugnante decadimento fisico o l’inferno delle case di piacere, ma poeta anche delle angustie e viltà della piccola e piccolissima borghesia, Antonicelli ricorda L’è el dì di mort, alegher!, la poesia dei lividi, ansiosi e confusi giorni di Caporetto, e Tessa gli appare poeta villoniano e creatore di alcuni dei più vividi mimi dell’età moderna.
Ed a Cesare Pavese il critico è grato di avergli fatto nei suoi scritti vedere le colline di Torino alte come un miraggio e di aver finalmente portato il Piemonte, ed in particolare le Langhe, alla celebrazione poetica, risparmiandogli il macchiettismo del folklore; e del Carducci dice che i sonetti del Ça Ira sono visioni, esposizione fantastica di un momento storico, ma dentro c’è anche tutto il moralismo politico dello scrittore, c’è il suo sdegno virulento del presente e l’amarezza per il trasformismo ed il fango che sale ed il presentimento e la paura del de malo in peius; e Croce rivive per la sua aneddoti, di quel tale per esempio che in treno lo ha molto lodato per i suoi articoli sulla Francia, avendolo scambiato per il giornalista Pietro Croci, o di quell’altro (e purtroppo è stato un generale, il che certamente non depone bene a favore della casta militare) che lo ringrazia per il suo libretto con le facezie di Bertoldo e Bertoldino, riferendosi evidentemente a Giulio Cesare Croce, cantastorie del Seicento, o di quella signora che chiede al filosofo con grande «E lei, senatore, che ci prepara di bello?», come si parla ad un organizzatore di spettacoli. E Croce con noncuranza: « Una piccola ricerca», e si è trattato in quell’occasione della Storia d’Europa, prossima ad uscire; ed ancora il prediletto Gozzano col quale Antonicelli ha avuto in comune l’assillo delle memorie familiari, la vecchia casa di Voghera dove ha trascorso una notte il generale Gjulai prima della battaglia di Montebello, o la bomboniera verde nel salotto di mogano, e tuttavia l’ispirazione etica gobettiana non ha impedito al critico di segnalare, con originale metodo ed impegno esegetico, nella poesia di Gozzano quel curioso inganno della mente di battezzare « tempo sacro del risveglio » un Risorgimento goduto nella rievocazione di un « ambiente sconsolato e brullo » e, viceversa, « mite e sonnolento » il proprio tempo, così agitato da «lotte brutali, da « commerci turbinosi ».
E poi spigolature e vagabondaggi quali Il libro della sera, La marchesa carmelitana, Melville a Torino, L’Intimità del Pascoli, L’ultimo amore del Verga, dove puoi cogliere sentimenti propri dell’età in cui i libri si amano (chi li ama) come le donne, i paesaggi, tutto ciò che prospetta alla vita uno spettacolo meraviglioso, ovvero puoi leggere pensieri propri di una conversazione da caffè letterario, e non da salotto, sicché bene a ragione Norberto Bobbio ha potuto scrivere che …(…)… Nel nostro gruppo in cui si andava a gara a chi per primo avesse letto o anche soltanto fiutato, l’ultima novità, (Antonicelli) otteneva quasi sempre la palma avendo come unico concorrente temibile Ginzburg…(…).
Un’attitudine pensosa a scoprire nei libri la presenza velata o nitida delle anime si avverte anche nell’opera di Antonicelli recensore di saggi critici, come nella prefazione a Giosuè Carducci e la letteratura della nuova Italia di Tommaso Perodi, dove egli ha occasione di rivedere da sé i vari problemi critici e di additarne qualche traccia di avviamento, quale ad esempio la necessità che un vigilante senso storico ed una scrupolosa misura di giudizio siano sempre vivi aspetti della moralità dello studioso; e la pratica di informatore e di giudice militante in prima istanza di Pietro Pancrazi, che per vent’anni dalla terza pagina di un grande quotidiano descrive il lavoro dei nostri scrittori in Profilo d’un critico Antonicelli definisce critica militante « perché milita nel suo tempo, è diversa da quella delle accademie e delle scuole che lavora sui testi del passato; militante perché si compromette col presente, agisca da guida, da freno, da indicatore …(…)…; e quando a quattrocento anni esatti dalla versione francese, classica, dell’Amjot (1559), appare la moderna traduzione delle Vite di Plutarco ad opera di Carlo Carena, per il critico è come ritrovare un’abbondanza di cose perdute per via che sono appartenute al bagaglio della cultura scolastica di un tempo: aneddoti, immagini, parole dei grandi antichi, romani e greci, e pensieri alti e sublimi. Plutarco, per esempio, non predilige i valorosi e gli intelligenti, ma i giusti, perché le altre virtù possono essere un dono di natura, l’essere giusti è opera di volontà; e c’è un’eccellenza plutarchiana nelle descrizioni dove il vedere è anche della coscienza, come le follie di passione di Antonio e Cleopatra e della loro << amimetobion >> = << vita inimitabile », ed Antonicelli scopre così che a sua volta D’Annunzio ha riscoperto questa espressione.
Ma per noi il momento più alto e più umano di Antonicelli si invera quando l’animo suo gli suggerisce di scrivere di Leone Ginzburg e di Piero Gobetti, gli anelli di una catena di cui Gobetti è stato quello precedente, l’eroe della sconfitta, il profeta del futuro, e Ginzburg il vero prosecutore, ma allineato con l’uno e con l’altro Antonicelli sa che c’è anche Augusto Monti, oscuro e tenace lavoratore dell’anima.
Antonicelli è stato della stessa tempra, perché insieme con loro negli anni durante i quali la politica, attraverso cui è stato necessario passare, ha avuto anche per lui l’importanza creatrice e rinnovatrice delle grandi lotte religiose, e tutti insieme essi hanno giustamente pensato che ci si libera della politica attraverso la politica. Antonicelli allora è tornato a leggere una seconda volta Scuola classica e vita moderna di Augusto Monti, il libro che attrae il lettore nel suo spirito quando lo scrittore sembra isolare in una classe-tempio sé e gli studenti in un raccolto silenzio, avendo in mano il testo sacro. «Siamo in seconda di liceo. L’autore è Orazio ». E’ il bel capitolo su «la lettura di un’ode di Orazio», il saggio di lettura del maestro, quello che ha entusiasmato Giustino Fortunato e lo ha indotto alla prova di tradurre Orazio. Così Scuola classica e vita moderna è diventato un libro che propone un ideale che diremmo eroico della scuola, il cui eroe rappresentativo è il maestro, divenuto mezzo e fine a cui ognuno di noi dovrebbe innalzarsi come a modello.
Insomma un libro, quello che abbiamo recensito, che a lettura finita, del suo autore, ha suscitato in noi l’immagine non di un maestro, ma del maestro.
[in “Contributi”, anno V, n. 1, marzo 1986]
Altri scritti di Giuseppe Virgilio su Franco Antonicelli si possono leggere in questo sito in Gobetti e dintorni 7. Un epigono di Gobetti: Franco Antonicelli letterato