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In effetti, mi avviene proprio questo: quando il mio stato d’animo è un po’ depresso, mi capita di cercare la penna, ma non per confessioni-fiume sulla mia effimera esistenza, bensì per scrivere poche parole nelle quali la mia esistenza è trascesa nella considerazione di una verità impersonale, o meglio sovrapersonale. Insomma, scatta una molla, che mi fa scrivere cose a cui spesso prima mai ho pensato, se non magari, confusamente, tanto che mi stupisco a volte delle mie stesse parole, a stento a riconoscerle come mie. Ma il gioco è fatto: scritta la poesia, io mi sento liberato dal mio male e sento appagato il mio desiderio.
2 febbraio 1998
Credo di poter confermare il giudizio già espresso sul libro della Ortese: la sua Bettina è proprio un essere sensibile e grazioso, una creatura delicata e umana. Certo il suo “sposo” appare un po’ cetriolo e stenta ad assurgere al rango dell’uomo vero. Non convince, come ho già scritto, l’inizio, che corrisponde poi alla struttura dell’opera. Perché delegare a Bettina il compito del racconto in prima persona? È questa “ipocrisia” che mi lascia perplesso. L’altra macula da me riscontrata è nell’eccesso di sensiblerie di talune pagine, laddove Bettina troppo indulge (complice la scrittrice) nel vagheggiamento del suo innamorato. Insomma, il rischio è che la grazia sconfini nella leziosità, la sensibilità nel buonismo. Il libro è del 1979. Da questo osservatorio, gli anni Cinquanta diventano lo sfondo dell’idillio. Peccato che questo sfondo rimanga imprecisato, generico, non convincente. Così anche i personaggi che vi si muovono.
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Il dott. Giaccari ha diagnosticato (ma non è ancora sicuro al cento per cento) a mio padre una epatite di tipo C, e gli ha prescritto la cura che dovrebbe durare quindici giorni. Con ulteriori analisi, le transaminasi si dovranno tenere sotto controllo. Speriamo che il dottore non si sia sbagliato e che la cura possa avere effetto.
4 febbraio 1998
Stamani invierò a Verona, per mezzo delle esecrate Poste italiane, le poesie con le quali partecipo al Concorso “Lorenzo Montano”. Il pacchetto è già pronto e non mi rimane altro che recarmi all’ufficio postale che si trova vicino casa. L’idea di affidare le mie poesie alle Poste italiane mi dà un senso di angoscia, ma non posso fare diversamente. Farò una raccomandata-espresso-assicurata con ricevuta di ritorno, ma so bene che questo non basta a tranquillizzarmi. Speriamo bene.
La convivenza con nonna Giovanna procede nel migliore dei modi. Nonna Giovanna gioca volentieri con la piccola Giulia, anzi, in questo dimostra una pazienza veramente grande, poiché Giulia, come tutti i bambini, diventa infine un po’ petulante; e poi tiene compagnia a Ornella che in queste lande montane non si è mai ambientata completamente e non ha fatto amicizia con nessuno, anche, devo dire, a causa del suo carattere piuttosto chiuso. Io continuo un po’ a rilento il mio lavoro di trascrizione degli articoli di mio padre, trascrizione che avevo parzialmente intermesso per portare a termine la riscrittura del mio diario del 1985, che ora ho finalmente concluso, e l’ordinamento delle poesie. Ritengo che quei diari siano un documento personale molto interessante per capire, a distanza di tredici anni, la formazione del mio carattere e della mia cultura. Dirò di più: riscrivendoli, alle volte ho avuto l’impressione che essi mostrino anche come sia maturata in me la “vocazione” letteraria, che cosa l’abbia prodotta, eccetera.
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Rileggendo le note di questo diario, mi accorgo che raramente ho parlato di mia madre, e quindi ora voglio dire qualcosa sul suo conto.
La mia educazione deve molto a mia madre che in casa è stata sempre molto presente, e anzi direi che ella ha e continua ad avere le redini del governo domestico, poiché molto spesso mio padre ha preferito delegare a mia madre compiti che avrebbe dovuto svolgere lui. Le condizioni fisiche di mio padre (egli ha dovuto convivere sin dall’età di nove mesi con un handicap agli arti inferiori provocato dalla paralisi infantile) e la sua attività intellettuale lo hanno determinato a delegare a mia madre tutti quei compiti che in una famiglia normale vengono divisi tra marito e moglie. Ebbene, mia madre, educata in una famiglia contadina di Corigliano d’Otranto a lavorare anche con ritmi piuttosto faticosi (ella racconta di quando, ancora piccola, i genitori la svegliavano alle tre di notte per andare in campagna per la raccolta del grano o del tabacco, o d’altro, al fine di evitare la calura estiva), anche se di malavoglia e brontolando, ha sopportato questo surplus di lavoro, vi si è sottomessa, vi si è direi rassegnata, pensando che evidentemente le cose non potevano andare diversamente. Io non so quanto ella abbia amato mio padre; so che mia madre ha molto sofferto per mio padre, poiché ha dovuto piegare la sua vita alle esigenze sempre maggiori del suo sposo. Mia madre ha tredici anni in meno di mio padre e, grazie al cielo, una salute di ferro. Coll’avanzare dell’età, mio padre ha cominciato a risentire dei primi acciacchi, e mia madre ora è, più che la sua sposa, la sua infermiera, che lo accudisce in ogni bisogno della sua vita. Purtroppo, noi figli non abbiamo potuto darle neppure il conforto della nostra vicinanza, perché siamo lontani da molto tempo per motivi di lavoro. Il tempo per lei passa così, vicino a mio padre, e nell’attesa dei figli, in solitudine.
Io credo di poter dire con sufficiente cognizione di causa, che la visione tragica della vita, il modo particolare di guardare alle cose come a un insieme di ostacoli che la vita oppone alla piena realizzazione della nostra esistenza, eppure il sorriso immancabile che accompagna quella visione, e che dice la rassegnazione nel presente e la speranza in un futuro migliore, e che ogni ostacolo possa essere superato, fino al ricongiungimento finale, ecco, tutte queste cose, io credo d’averle avute da lei, di doverle alla sua pazienza, alla forza con cui ella ha saputo superare gli stati d’animo più bui, forse al suo amore.
E mio padre? Non vorrei che, chi dovesse leggere queste note, dovesse pensare male di mio padre. La verità è che mio padre è stato molto provato dall’esistenza, fin dalla sua nascita. Sua madre, mia nonna, è morta a causa del parto; a nove mesi, come ho detto, mio padre è stato colpito dalla paralisi infantile; e poi, una vita da orfano, col padre lontano, e parenti che inevitabilmente non lo comprendevano. Solo questo può bastare a raffigurare la sventura di mio padre, il senso irrimediabile della sua perdita, la sua concezione della vita come di un luogo in cui occorre lottare per darsi ragione, per sopravvivere, anche nei figli e nipoti.
5 febbraio 1998
Ho appena riletto la pagina che ho scritto ieri. È veramente molto difficile scrivere senza scadere nel patetico. Tuttavia ho detto la verità, solo la verità. Alle volte la realtà è patetica.
Oggi ho ricevuto la lettera di Enrico, in risposta alla mia del 23 gennaio u.s.: la sensazione prodotta dal discorrere con questo antico compagno d’università è gradevole, tanto più che, come ho già detto in un altro luogo di questo diario, parliamo della stessa cosa: la nostra esperienza letteraria. Spesso, però, ne parliamo con linguaggio diverso. Che cosa c’è che ci unisce e che cosa ci divide? Proverò a meditare sulla questione.
Premetto che le nostre discussioni sull’argomento letterario, con sconfinamenti antropologici e filosofici, datano dal periodo universitario, quando erano condotte col duplice mezzo della lettera e del dialogo; quest’ultimo concludentesi immancabilmente, dopo ore di nervosismo e di incomprensioni reciproche, con un litigio. Di esso mi rimane una sensazione fastidiosa, e nessun ricordo preciso.
Consideriamo invece le lettere: io le conservo tutte, e sono datate 1983-84-85 (all’incirca). Alcune le ho rilette l’estate scorsa nelle calde insonni nottate d’agosto. Per lo più sono monologhi che poco concedono all’interlocutore; aggiungo subito che le mie lettere non avranno certamente avuto un tono diverso. Ma poteva andare diversamente? Ognuno va per la propria strada, e nessuno può convincerlo a cambiarla. Questi erano i nostri dialoghi epistolari. Ma parlavamo, scrivevamo della stessa cosa. Non ci capivamo perché la nostra strada non era la stessa, perché percorrevamo contemporaneamente strade parallele, dai percorsi non sempre rettilinei, con curve improvvise, sicché talvolta era inevitabile che ci si perdesse di vista, fino al nuovo rettilineo, dove ci si incontrava di nuovo, per percorrere un altro tratto in compagnia.
Forse è inutile e fuorviante parlare di due concezioni diverse della letteratura, poiché la letteratura è una sola e infinite sono le strade che vi conducono. Ognuno deve fare il proprio percorso fino in fondo, e deve farlo da solo, superando tutti gli ostacoli, facendo i conti innanzitutto con se stesso. Credo che per sua natura lo scrittore sia estremamente egoista; per lo scrittore gli altri sono coloro che ricevono il messaggio, le sue parole, e le interpretano, non le lasciano cadere nel vuoto, le fecondano con la propria meditazione. Che cosa renda legittima questa presunzione, sacro quell’egoismo, che cosa fa sì che nessuno possa dire allo scrittore: “È un pazzo”, è, per dirla con una metafora, nella discesa alle Madri cui egli si sottopone, nella prova suprema che potrà superare o fallire, pena la sua morte (in quanto scrittore), premio la sua legittimazione. Perciò noi non dialogavamo, ma monologavamo, per capire ognuno le proprie ragioni, il proprio mondo, il proprio essere, e che cosa sarebbe stato delle nostre ansie e illusioni, del nostro futuro. Questa esperienza ci accomunava e ci rendeva simili. E per questo io non mi pento del mio egoismo, e comprendo il suo, poiché entrambi erano nel conto.
Che cosa significhi discendere alle Madri è presto detto. Significa accettare appieno la propria morte, la propria finitezza, il proprio destino di cosa mortale, e significa allo stesso tempo saper ritornare indietro e poter dire: io sono Dante (il personaggio), Orlando, Don Chisciotte, Marcel (ancora il personaggio).
Ma oggi, noi, dove siamo? Su quale tratto di questa strada siamo fermi?
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Comincio la lettura delle poesie di Giorgio Bassani dal titolo In rima e senza, edite da Mondadori nel 1982 e di Maria Corti, Dialogo in pubblico, edito da Rizzoli nel 1995. La Corti, a p. 10, parlando delle sue letture fanciullesche, scrive: “Ma forse la vita raggiunge la sua pienezza anche con il contributo del caso”.
Penso al mio incontro coi volumi in cofanetto della Recherche di Marcel Proust, regalati a mio padre dai suoi alunni di terza liceale verso la metà degli anni Settanta, messi in bella mostra nella libreria del suo studio. Chissà quando e dove e se gli avrei mai letti, diversamente.
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Ho interrotto da molto tempo il racconto Il lupo di Dossena. Prima o poi devo riprenderlo.
Ho intanto finito di trascrivere l’articolo di mio padre sul Dialogo filosofico di Leopardi.
7 febbraio 1998
Leggo in Maria Corti, Dialogo in pubblico. Intervista di Cristina Nesi, Milano, Rizzoli, 1995, p. 57: “A un certo punto nella memoria il tempo sembra troppo breve per contenere tante cose avvenute dentro di noi. Ma fatalmente il destino alla fine pare abbia la sua ragione. E così oggi sono convinta che a chi si dà alla narrativa può divenire persino vantaggioso essere su un altro versante un critico, un teorico. Può essergli utile la riflessione che modellare secondo una struttura la materia incoerente e vertiginosa del nostro immaginario è arduo, ma necessario. D’altra parte l’essere utenti in proprio dei processi inventivi dello scrivere può favorire l’operazione critica e quella stilistica; un vero critico dovrebbe sempre essere nei suoi prodotti uno scrittore; lo ha già detto Gianfranco Contini e ce ne ha dato l’esempio.
Naturalmente ciscuno ha dentro di sé un vigile stradale che regola il traffico della sua mente; restando in metafora, ogni intelletto è un luogo mentale con le proprie regole di circolazione, i propri sensi unici”.
Penso che questi percorsi incrociati critica-invenzione, che la Corti individua nella sua opera, meditando sul suo passato, siano inevitabilmente presenti in ogni scrittore. Non c’è scrittore degno di questo nome che non sia anche un critico, in primo luogo della sua opera. I grandi scrittori poi, sono quelli che fondano addirittura un’estetica, un modo particolare di intendere la letteratura. Penso a Dante, a Proust, a Gadda, eccetera.
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Ho ripreso e portato a termine il racconto breve Il lupo di Dossena. Posso dire che fosse giù bell’e scritto già due mesi fa. Da qualche giorno mi tornava in mente la storia di Berto, e oggi finalmente, in un’ora di lavoro, eccola conclusa.
9 febbraio 1998
Ho intenzione di partecipare al Concorso letterario bandito dal Comune di Carpi (MO), riguardante racconti inediti. A questo scopo ho riordinato la mia piccola produzione, anche quella remota, e ho cominciato a limarla, prima di chiuderla in busta e inviarla a Carpi. Non c’è fretta: posso effettuare la spedizione entro il 15 di aprile.
Dovrei riflettere su questa mia ricerca di concorsi letterari a cui partecipare. Fatto è che desidero sottopormi al giudizio degli altri, poiché troppo a lungo ho lavorato in silenzio e e senza speranza di farmi conoscere dagli uomini. Ora ho trentacinque anni (li compirò il prossimo 22 di marzo), e mi sembra giunto il tempo di capire quale sia il giudizio degli altri sulla mia opera. È chiaro che soltanto partecipando ai concorsi letterari posso sperare che la mia produzione sia almeno letta, conditio sine qua non per un giudizio; il quale del resto mi serve non per scopi narcisistici, ma perché solo a partire dalla considerazione degli altri credo si possa migliorare se stessi.
Una volta ho scritto ad un corrispondente che soltanto in solitudine si può scrivere. Cionondimeno, necessario è anche comunicare agli altri le proprie cose, perché il giudizio degli altri, qualunque esso sia, ha sempre il potere di farci correggere il tiro, di migliorare, di avanzare.
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Oggi Ornella non sta molto bene, ha il mal di gola e un po’ di febbre (37 e 6) e noi siamo in pensiero per lei e per la piccola Sofia. Non vorremmo che prendesse medicinali che potrebbero nuocere al feto, ma anche la febbre nuoce, e non sappiamo che pensare e che fare. Speriamo che questi momenti passino presto.
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Inizio a leggere Leopardi, la malinconia di Elio Gianola, edito nel 1995 dalla Jaca Book. Ho anche fotocopiato i primi tre capitoli che invierò a mio padre con nonna Giovanna, insieme al saggio di Umberto Bosco, sempre su Leopardi (Titanismo e pietà…).
10 febbraio 1998
Ornella sta meglio, ma è sempre a letto, e si sente alquanto debole. Nonna Giovanna divide le sue cure tra Ornella e la piccola Giulia che si rifiuta di dormire nel pomeriggio e tira avanti fino a sera, spesso in condizioni pietose. La situazione inusuale della presenza in casa di nonna Giovanna la distrae, e, con caparbietà, ella resiste fino a sera inoltrata, innervosendosi e innervosendo noi altri.
Un difetto di Giulia è l’orgoglio; a tal punto è orgogliosa che, se vuole recarsi in un posto e, tenedola in braccio, ce la porto io, ella scende in terra là dove l’ho condotta e dove voleva recarsi, e ritorna indietro per ripercorrere il tragitto da sola. Giulia è inoltre alquanto dispettosa: per esempio, se le chiedi di vedere il telegiornale per una mezz’ora, mentre lei monopolizza il televisore tutto il giorno, e cambi canale, dopo un istante, approfittando di un momento di disattenzione, spegne il televisore, costringendoti a riaccenderlo.
Con tutto ciò, è una cara bambina e si fa voler bene. Io spero che con gli anni questi difetti del suo carattere si attenuino e scompaiano del tutto, perché la dolcezza in una bambina è la migliore delle virtù.
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Continuo la lettura di Elio Gianola che descrive in malo modo i genitori di Giacomo Leopardi. Essi sono gli aguzzini dei propri figli, i carcerieri, i carnefici. Che questa sia una verità storicamente accertata, non si discute; ma forse le tinte del libro di Gianola sono un po’ troppo cariche e fosche, poiché è anche vero che il rapporto tra padri e figli è regolato oltre che dalle disposizioni personali, anche dai costumi dell’epoca, dalle abitudine diffuse nel corpo sociale, eccetera. Voglio dire che Monaldo non avrebbe potuto ordire il suo piano, se comunemente non fosse stata accettata come normale l’educazione in casa dei figli nella maggior parte delle famiglie nobili dell’epoca, e così a discolpa della fredda Adelaide probabilmente si potrebbe dire che il suo carattere sarebbe stato più dolce se non le fossero cadute sulle spalle le incombenze dell’intera famiglia, la gestione del patrimonio in particolare, dissestato dall’incauto giovane marito. Insomma, non mi convince troppo la tesi d’un Leopardi vittima dei genitori. Vedremo!
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Domani è il mio giorno libero. Letture libere, dunque, e scritture a volontà. Chissà ch’io non riesca a liberarmi di questa scuola nella quale si educa lo sciocchezzaio d’Italia! Mi starebbe bene anche dopo ventiquattro anni, un anno dopo Maria Corti che se ne liberò, come lei stessa scrive in Dialogo in pubblico, p. 69, dopo ventitrè. Ma per me sarà difficile, molto difficile.
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Aforisma
Il solletico è un gesto d’amore con un po’ d’ironia.
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Ho scritto una poesia in cui la mia lucida disperazione si organizza in parole, per fronteggiarsi meglio, dal titolo Ultimo canto di giovinezza
11 febbraio 1998
Stamani Ornella sta meglio, anche se continua ad accusare una certa debolezza. Il tempo continua a essere splendido, e le temperature si sono innalzate di diversi gradi.
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Ho riletto la poesia che ho scritto ieri sera, e mi colpisce il suo tono apocalittico e disperato. La mia vita procede in modo normale, senza che alcun evento sia intervenuto negli ultimi tempi a turbare la pace mia e della mia famiglia; eppure dalla poesia che ho scritto, chi la leggesse potrebbe dedurre chissà quale calamitoso evento che determini le mie luttuose parole.
In realtà proprio l’assenza di queste reali ragioni deve farci riflettere sul significato e sul ruolo della poesia, che certamente non ha nulla a che fare con la nostra vita reale, bensì agisce indipendentemente, autonomamente, a prescindere dagli eventi contingenti della nostra esistenza.
E qual è, dunque, il ruolo della poesia?
Ebbene io credo che questo ruolo consista proprio nella negazione assoluta e senza scampo dell’esistente, della vita reale, dei rapporti reali tra gli uomini fondati sull’utile, negazione che è conditio sine qua non della fase propositiva della poesia medesima. Sarebbe difatti improponibile una poesia nella quale il poeta si limitasse a negare la vita reale dell’uomo, sottolineandone l’insensatezza, il vuoto, senza poi darci un nuovo significato o una nuova visione delle cose. Ma questa nuova visione delle cose non può che nascere dalla negazione, dalla morte del mondo. Queste cose le sapeva bene Giacomo Leopardi quando, rispondendo ai suoi malevoli critici, diceva che la sua poesia non aveva nulla a che vedere con la propria personale privata infelicità.
La poesia non ha un ruolo, non è necessaria, non ha importanza. Queste verità sacrosante devono essere riconosciute prima d’ogni ulteriore discorso. Se non ci fosse l’impiegato di banca, bisognerebbe inventarlo, se non ci fosse il barbiere, bisognerebbe inventarlo, se non ci fosse il maestro di scuola, bisognerebbe inventarlo; ma se non ci fosse il poeta, nessuno ne sentirebbe la mancanza, poiché a nessuno veramente servono i suoi servigi. E difatti non esiste la professione, il mestiere di poeta; esiste l’appellativo generico, che non ha statuto certo e riconosciuto, se non sulla bocca dell’ignorante di manzoniana memoria.
Naturalmente ammettere tutto questo non è facile, poiché la nostra presunzione ce lo vieta. Ma come, la poesia, somma tra le attività dell’uomo, non sarebbe dunque necessaria, di essa potremmo fare a meno?
Ebbene sì, potremmo fare a meno!
La poesia richiede un grado di civiltà che sia superiore al bisogno e alla mera utilità; ecco la ragione per cui nella nostra società il suo spazio appare assai ridotto e la sua funzione non necessaria.
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Sul rapporto tra riflessione e invenzione Maria Corti, Dialogo in pubblico, cit., p. 84 aggiunge a quanto detto e da me riportato più sopra: “C’è indubbiamente nel nostro inconscio qualcosa che agisce, salvandoci da successive razionalizzazioni. È una specie di stato interiore di grazia, un tempo chiamato ispirazione, che fa divenire secondaria la riflessione critica”.
Non si può che concordare con la Corti. Indubbiamente, se ciò non fosse vero, non avremmo le grandi opere di poesia, d’invenzione, ma solo trattati e manuali scolastici, oppure avremmo delle invenzioni guastate dall’intervento razionalizzante dello scrittore.
Io direi che la riflessione serva a non farci incorrere negli errori della facile invenzione, essa sì razionalizzante, cioè costruita a tavolino e come tale priva di vita. La riflessione è per sua natura critica, in quanto ci mette davanti i nostri difetti, perché ce ne guardiamo. Poi essa deve cedere il campo, a misura che il nostro senso critico si affina, e noi dunque siamo vaccinati contro gli errori cui si rischia di andare incontro nello scrivere. Allora l’invenzione dispiegherà le sue ali, e ci farà volare alto, ma da esperti navigatori, sopra i difetti delle false invenzioni.
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Ore 13.30. Io, nonna Giovanna e Giulia siamo di ritorno dall’ospedale di S. Giovanni Bianco. Abbiamo ricoverato nel reparto di ginecologia Ornella, per un controllo. Niente di grave, ma è meglio capire le cause della sua debolezza, dovuta sicuramente ai postumi dell’influenza. La piccola Sofia, nel grembo materno, sta bene: così ci ha detto il ginecologo, dott. Leidi, dopo un’ecografia.
Giulia ha reagito benissimo alla temporanea separazione dalla madre, con grande meraviglia di noi altri. Ornella le ha parlato, spiegandole tutto, e Giulia sembra aver capito, e si comporta di conseguenza, come una bambina ormai grande.
Stasera torneremo in ospedale.
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Sera. Ornella, dopo due flebo, sta già meglio. Sarà trattenuta in ospedale per gli accertamenti del caso. Giulia alla mancanza della madre reagisce benissimo. Pochi minuti fa, si è stretto al petto il suo Bambi, si è messa a letto, e ha chiesto di essere lasciata sola. Ora dorme.
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Riporto due altre citazioni dalla Corti, Dialogo in pubblico, cit.. La prima è a p. 116: “Quando si lavora sui ricordi di una vita, si capisce come è importante l’idea di tempo. Il tempo ha la funzione di far sì che le cose accadano con un certo ordine e ci aiuta a ricostruire quest’ordine. Senza di esso faremmo solo confusione. Quelli che l’hanno capito chiaramente scrivono dei diari e si salvano così dal dispotismo che nella memoria esercitano certi fatti a danno di altri”.
L’altra citazione è a p. 123: “(…) in realtà le amicizie si reggono su occasioni, sollecitazioni, casualità in quello spazio limitato che è la nostra vita e in quell’altro illimitato che è la nostra mente”.
La prima citazione fa proprio al mio caso, poiché scopo principale di questo diario è proprio quello di portare ordine nel mondo tumultuoso e indisciplinato della mia mente. Il diario mi costringe a un esame di coscienza quatidiano, a una riflessione sulla mia vera vita, la vita del mio pensiero, dal momento che, come dice Blanchot, e come conferma questo diario medesimo, scrivo un diario proprio in quanto la mia vita è priva di fatti, di eventi da raccontare.
La seconda citazione è un invito a riflettere sul tema dell’amicizia, sulle sue “occasioni, sollecitazioni, casualità”, come dice la Corti. Un forte destino di precarietà incombe sull’amicizia. Essa è fortuita, oppure nasce da qualche nostro interesse che ci fa ricercare un’altra persona. In ogni caso nasce da affinità d’intenti, e dunque da un proposito fortemente egoista (parola da intendere priva d’ogni connotazione moralistica).
Molti sono stati amici, che ora non sono più, cui non ci rivolgeremmo nemmeno in situazione di estremo bisogno, perché è venuto a mancare il fondamento dell’amicizia, la comunanza d’affetti che scaturisce dalla comunanza di interessi.
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Ma quale sia il messaggio propositivo della poesia, io ancora non l’ho detto, e su questo dovrò a lungo meditare.
12 febbraio 1998
Ornella sembra ormai completamente ristabilità. Stamani, di buon mattino, le hanno prelevato il sangue, e forse anche domani si conosceranno i risultati. Nel pomeriggio il dott. Leidi l’ha sottoposta a una ecografia per lo studio del feto. Il risultato è ottimo. Sofia se ne sta tranquilla e beata nel grembo materno, ignara di tritest, d’analisi, di ecografie e di tutto il resto.
Speriamo che Ornella possa tornare presto a casa, e che tutto si normalizzi. Intanto Giulia si continua a comportare in modo che direi ineccepibile, se non fosse che monopolizza il televisore e non mi lascia neppure vedere il telegiornale.
Io continuo a leggere, anche in ospedale, l’intervista di Maria Corti, che è veramente interessante, e di cui riporterò passi anche nel file bibliaut.wps.
La mia vita scolastica è ben poco cosa perché io ne parli in questo diario, cui assegno, tra le altre funzioni, anche quella di distrarmi dalle mie disgrazie e noie scolastiche.
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Ieri sera ho continuato la lettura delle poesie di Giorgio Bassani, e per la verità non ho ancora trovato nulla che soddisfi il mio gusto poetico. V’è troppa maniera, e poca originalità. Continuerò tuttavia la lettura.
Del Bassani ho letto qualche tempo fa, prima dell’inizio di questo diario, Il giardino dei Finzi-Contini, che mi è molto piaciuto, ma la cui conclusione ho trovato un po’ artificiosa, morbosamente intricata, non veramente risolutiva, almeno per ciò che riguarda la vicenda del protagonista.
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Il messaggio propositivo della poesia sta nella poesia stessa, nella sua presenza insostituibile, nel suo essere privo di ulteriore giustificazione, nella sua gratuità, nel suo non essere utile. La poesia è, e basta. Tutto ciò che è, è per qualche cosa, in funzione di una utilità da conseguire. La poesia è il fare inservibile, il fare puro, il fare dimentico del tempo e dello spazio, simile al gesto di un pazzo, alla fantasia del dormiente, al sogno dell’uomo sveglio.
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Scrivo una poesia dal titolo D’amore innamorato.
14 febbraio 1998
Oggi è San Valentino, e Ornella mi ha fatto un bel regalo tornando stamani dall’ospedale. Le analisi hanno dimostrato che Ornella sta bene; dovrà prendere soltanto qualche bustina di integratore a base di potassio per rimettersi completamente. Anche Sofia, a detta dei medici, sta bene. Ora ha ventuno settimane, e fra sei giorni compirà cinque mesi prenatali.
Ornella è stata dimessa verso le dieci: nonna Giovanna e Giulia sono andate a prenderla in macchina, mentre io ero a scuola, a combattere con alunni che della scuola non ne vogliono sapere. Fortunatamente a casa ho modo di fare qualche buona lettura che ha il potere di farmi dimenticare la triste realtà scolastica e di rimettermi in sesto psicologicamente.
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Ho ricevuto ieri il bando del Premio Montale, e oggi ho raccolto quindici poesie, quelle che mi sembrano le migliori, che invierò in quattro copie, sicuro, come al solito, di vincere. Ora devo far “decantare” la scelta appena effettuata, prima di inviarle, per evitare tardivi ripensamenti.
Ho finitto di leggere il Diario in pubblico della Corti, che ho molto apprezzato per la capacita della scrittrice di ricostruire le atmosfere culturali di cui è stata partecipe e protagonista, e per le improvvise, inopinate sortite moralistico-filosofiche (nel senso positivo nel quale si dice di uno scrittore che è un grande moralista), che io trascrivo nei miei appunti.
Continuo anche a leggere Elio Gianola, che trovo molto interessante soprattutto per la parte in cui lega l’opera del figlio-Giacomo a quella del padre-Monaldo, e per la capacità del critico di passare, senza salti dolorosi, dalla vita profonda dell’autore all’opera, svelandone implicazioni e rapporti segreti. Anche del Gianola riporterò molte citazioni nel file che destino alla critica leopardiana.
Infine continuo, anche se a rilento, la trascrizione dell’articolo di mio padre riguardante il rapporto Leopardi-Togliatti.
15 febbraio 1998
Giovanni Nencioni, rispondendo a coloro che paventano l’invadenza della lingua inglese nel nostro sistema linguistico, nel “Corriere della sera” di oggi, Lingua Chi ha paura dell’inglese? p. 29, scrive: “Se, come è prevedibile dal processo in atto, l’inglese acquisterà il monopolio della comunicazione informatica di livello pragmatico facendosi, nei singoli settori, convenzionale e formulare ad usum del delfino informatico, non costituirà un pericolo per le altre lingue europee. Potrà invece essere menomato lui stesso come lingua di alta e libera cultura”.
L’inglese, dunque, dovrebbe destare qualche preoccupazione ai linguisti, non certo l’italiano, o il francese o lo spagnolo, eccetera. Ragion per cui consigliare ai giovani di imparare la lingua inglese per le comunicazioni internazionali, come fa il Nencioni subito dopo la nostra citazione, può rispondere ad un’esigenza di utilità pratico-professionale, non certo ad un’esigenza d’alta cultura o di creazione estetica. Sic stantibus rebus, giusto è quanto affermava Francesco Alberoni, sempre sul “Corriere” di lunedì scorso, e cioè che la lingua inglese “è solo la lingua del popolo dominante, con le sue idee, le sue idiosincrasie, i suoi interessi”. E’ tutto questo, ma non la lingua della cultura, della letteratura, della poesia.
16 febbraio 1998
Stamani, in un’ora “buca” ho scritto a mio padre una lettera che nonna Giovanna, che ha intenzione di partire mercoledì prossimo (oggi è lunedì), gli consegnerà insieme ad altre pagine critiche, soprattutto leopardiane, che ho fotocopiato per me e per lui. Gli mando anche in lettura le mie poesie. Mi piacerebbe conoscere il suo parere sulle mie poesie, se ho fatto bene o no a mandarle ai due Premi, cui sto concorrendo. Mio padre è una delle poche persone al mondo con cui intrattengo, come si evince da questo diario, un rapporto di natura intellettuale, oltre che affettivo.
Ora sono le 14 e 30, e fra poco uscirò insieme alla mia famiglia per recarmi a fare la spesa in un grande supermercato. Così perderò tutto il pomeriggio, e non potrò leggere nulla né attendere ad altra dignitosa occupazione. Spingerò il mio carrello carico di cibarie e varie prodotti per la casa, come si conviene ad un schiavo moderno.
Ultima cosa: oggi ho iniziato la dieta, poiché non sopporto più l’idea di trascurare il mio corpo, a tal punto da raggiungere l’attuale peso di 103 kilogrammi. L’ultima dieta risale al 1996 (dimagrii di circa quindici chili, da 108 a 93). Vedremo se riuscirò a tollerare le proibizioni di Ornella.
17 febbraio 1998
La poesia potrebbe consistere nelle ultime, estreme parole che possono essere dette, al di là delle quali avremmo il non senso o l’inverosimiglianza. Il che vuol dire che poesia è non il discorso comune, utilitaristico e pratico, bensì il discorso marginale, inutile, estremo, ipotetico, non il quadro, ma la cornice del quadro. L’estetica, non l’economica e tanto meno la pratica o l’etica. La poesia come depositaria del nostro sentire, cioè di ciò che cade sotto i nostri sensi, secondo l’etimologia greca; ma non il mondo come comunemente appare, che noi non vediamo neppure, data la sua ovvietà, ma del mondo vero che solo il poeta sa vedere, rifondando il mondo stesso, la sua visione, per tutti gli uomini. La cornice ha la funzione di isolare, delimitare, sottraendolo al continuum dello spazio, il quadro; così la poesia concentra la nostra attenzione sul poetico, che è il momento in cui il reale, isolato dall’ovvietà del mondo, appare ai nostri occhi. Epifania, dunque, se vogliamo, ma solo entro questi limiti estetici, propri del poeta, dentro i quali egli opera.
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Scrive Maurice Blanchot, Il libro a venire, Torino, Einaudi, 1969 [1959], p. 39: “(…) nessuno può decidere seriamente di consacrarsi alla sua opera, ancora meno di tenersi in serbo per essa. L’opera esige molto di più: che non ci si curi di lei, che non la si cerchi come un fine, che si abbia con lei il rapporto più profondo della noncuranza e della negligenza”.
A p. 40: “(…) quando Lawrence, vedendo una ragazzina giocare davanti alla cattedrale, si domanda chi vorrebbe salvare in caso di distruzione e si stupisce d’aver scelto la bimba, il suo stupore rivela tutta la confusione che il ricorso ai valori introduce nell’arte. Come se non appartenesse alla realtà propria del monumento – di tutti i monumenti e di tutti i libri insieme – l’essere sempre più leggero, sul piatto della bilancia, della ragazzina che gioca; come se, proprio in quella leggerezza, in quell’assenza di valore, non fosse concentrato il peso infinito dell’opera.
La prima citazione è molto importante per capire bene il rapporto che intercorre tra scrittore e opera, la seconda mi richiama alla mente quanto ho avuto modo di scrivere qualche tempo addietro a proposito del terremoto dell’Umbria e delle Marche dello scorso 10 ottobre.
18 febbraio 1998
Stamani abbiamo accompagnato nonna Giovanna all’aereoporto di Linate, dove ha preso il volo per Brindisi delle ore 11.00. Al ritorno abbiamo fatto una sosta a Città Mercato (Curno) per comprare qualcosa, e poi alle ore 13.10 eravamo a casa. Il soggiorno di nonna Giovanna è stato per lei e per noi piacevole, turbato solo dalla degenza in ospedale di Ornella. I tempi magnifici, che continuano tuttora, e, dopo i giorni della merla, anche piuttosto caldi per la stagione, le hanno fatto apprezzare i paesaggi alpini della zona.
Con la sua cinepresa a fatto delle riprese, che un giorno, a riguardarle, chissà che non ci venga la nostalgia di questi posti!
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Ripenso alla prima citazione trascritta ieri dal libro di Blanchot. Mi sembra che la verità insita in quell’affermazione sia molto profonda e, come tutte le cose profonde che arrivano per incanto alla superficie della nostra intelligenza, paradossale. Pensare che tutti i nostri sforsi a nulla valgono, e che anzi una certa trascuratezza sembra facilitare la nascita dell’opera d’arte, e che questo sia vero, molto vero, non è cosa da accogliere almeno senza un moto di sorpresa. E tuttavia, presto alla sorpresa subentra la convinzione che Blanchot non bari, e che questa condizione, nei limiti della mia umilissima esperienza, io l’ho vissuta e la vivo ogni qual volta mi capita di scrivere qualcosa che soddisfi il mio senso estetico. Lo stupore che mi prende dinanzi ad una poesia di cui non avevo prima meditato contenuto e ritmo, la meraviglia per averla scritta senza averla cercata, forse sono motivati proprio dall’inopinabilità dell’opera d’arte, dal suo manifestarsi a prescindere dalle intenzioni umane, dalla volontà, e tanto più dal dovere. L’artista che dovesse preservarsi per produrre la propria opera è una situazione proustiana. Marcel che teme per la propria vita, teme di non portare a termine la propria opera. Ma Proust ha abbondantemente dimostrato quanto sia effimero ed inessenziale questo timore: la prova è la mancanza di conclusione dell’opera sua, la sua forma, come dice Blanchot, sferica.
19 febbraio 1998
Questa mattina, di buon’ora, prima di andare a scuola (ingresso del giovedì: ore 9.10) ho inviato a Roma quindici poesie in quattro copie alla Segreteria del Premio internazionale “Eugenio Montale”, fiducioso come al solito nell’efficienza delle vituperate Poste italiane. Ora si tratta solo di aspettare! È la prima volta che partecipo a concorsi letterari e ammetto che lo spirito con cui vi partecipo è quello di chi non ha altre risorse per far conoscere agli altri la propria opera, costrettovi dal perdurante stato di isolamento; e tuttavia vi partecipo pieno della ancor giovanile speranza d’esser preso in seria considerazione. Ma mi rendo conto che molto dipende dallo stato d’animo. Talvolta, difatti, all’opposto, mi convinco che le mie poesie saranno cestinate, poiché, mi dico, in Italia anche questi Concorsi sono truccati. Ma, ripeto, è lo stato d’animo del momento a suggerirmi questi opposti pensieri. Perciò, in definitiva, è meglio non pensarci.
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Riaffiorano sulla superficie della mia memoria confusi ricordi del passato: la mia mente rivede amici di cui non so se sono ancora in vita, tanto è il tempo trascorso da quando li vidi l’ultima volta, oppure i volti di amici di cui ho appreso la morte prematura. Sono ombre, squarci di luce nelle tenebre, momentanei abbagli. Tutto questo finirà un giorno con la nostra vita.
Ma già ora noi siamo ombre vaghe, confusi ricordi nella memoria di chi ci ha conosciuto e forse ancora ci rammenta, e luci che presto si spegneranno quando morirà l’ultimo superstite della nostra favola bella.
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L’anticiclone continua a spazzare via le nubi e a darci il sereno. Angela, la mia bidella, dice che questo tempo non è naturale. Intanto impazza carnevale, in tono minore, per la verità. L’altra sera tre studentelli mascherati hanno suonato al mio campanello, chiedendo di entrare. Non gliel’ho permesso perché Giulia si sarebbe spaventata. Ma avrei potuto almeno gettar loro alcune caramelle!
20 febbraio 1998
Ma la poesia non può avere nulla di espressamente propositivo, poiché nasce dalla negazione dell’esistente, dal nulla. Può servire un fine, ma allora non è vera poesia, poiché assume una funzione ancillare, anche se accade poi che questa funzione resti sopraffatta da quella che le è propria. Non è la prima volta che la serva sia più bella della padrona.
I poeti seguono la strada della poesia perché essa è l’unica che sia riservata a loro, una strada che non porta da nessuna parte, che neppure esiste, che nessuno segue. Probabilmente, nella struttura mentale dell’essere umano, questa somma di negazioni ha l’unica vera funzione positiva di convalidare, e converso, il mondo degli uomini, in cui ognuno percorre la sua strada con un fine e una meta precisi, senza pensare al resto.
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Sofia compie oggi cinque mesi prenatali.
Oggi mio padre ha avuto i risultati delle analisi. Le transaminasi sono notevolmente migliorate, e tuttavia la notte scorsa gli è ritornata la febbre. Il dott. Giaccari consiglia il ricovero, ma mio padre non vuol saperne. Sarà visitato di nuovo forse domani.
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Ho intenzione di rivedere per l’ennesima volta il mio decennale lavoro su Dante. Approfitterò dei prossimi giorni di vacanza (da domenica 21 a mercoledì 24 febbraio) per rileggere e correggere il mio vecchio lavoro sul quale continuo a riporre molte speranze.
21 febbraio 1998
Ho letto tutto d’un fiato ieri sera Seta di Alessandro Baricco, edito nel 1996 da Rizzoli. La semplicità della storia, il suo tono in certi casi fiabesco, il linguaggio colloquiale utilizzato, e non ultima la brevità della storia spiegano certamente il grande successo di lettori, soprattutto pare americani, del libro in questione. A me è piaciuto, ma non mi ha entusiasmato. Manca, a mio avviso, quella elaborazione sotterranea, viscerale, che da sola può dare, una volta che sia stata risolta in forme letterarie compiute, il capolavoro. Si pensi a quanta fatica, a quanto dolore e disperazione precedano e preparino per. es. le Operette morali di Giacomo Leopardi, e che lo scrittore riesce a superare nella lucida disperazione dei suoi dialoghi. Al contrario, Seta si legge d’un fiato, come in televisione si consuma, in una serata, un film, e poi si va a dormire e non ci rimane più nulla. E allora ci accorgiamo che a monte non c’era nulla, e che la storia non frana soltanto perché la sua leggerezza poggia su pilastri di gomma…
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Che il disordine della stanza in cui lavoro mi disturbi e non mi consenta di lavorare in pace e con l’animo sgombro, se non previo ristabilimento dell’ordine, che questo sia un segno della mia nevrosi, lo sapevo già. Ma ieri sera ho letto un passo di Elio Gianola, Leopardi, la malinconia, cit., pp. 291-292, in cui il critico riporta (a proposito di Leopardi) un giudizio di “Tellenbach, una vera autorità nel campo della psichiatria esistenziale e fenomenologica”. Gianola dice che “l’esigenza dell’ordine” è “addirittura la caratteristica fondamentale della malinconia, [sogg. il Tellenbach] collegandola alla difficoltà di regolazione del tempo vissuto: non per nulla, adducendo come esempio proprio il Leopardi, parla di “irrisolvibili problemi sulla temporalità”, come dimostrerebbe anche la dedizione intensissima allo studio, essendo l’ordine, quello comportamentale come quello mentale, una forma della dedizione incondizionata ad un senso del dovere fortemente colpevolizzato. Persino a livello fantasmatico, e quindi nel sistema metaforico ed espressivo, è rintracciabile questa pulsione all’ordine, perché “l’immobilité de l’ordre sémantique securise le sujet” [qui Gianola cita P. Dufour, Ver une herméneutique cognitive des imaginaires mélancoliques. Esquisse d’un méthode, in Malinconia malattia malinconiaca e letteratura moderna, cit., p. 76.]. Tale esigenza, d’altra parte, è un aspetto dell'”inibizione del movimento basale della vita” [si cita H. Tellenbach, cit., p. 48] cioè di quel rallentamento e stagnazione del moto che è l’aspetto più vistoso della malinconia: l’ordine, come tutte le difese di tipo nevrotici o psicotico, è assieme un cedimento e una precaria vittoria rispetto ai sintomi più gravi, un modo per combinare in qualche modo il movimento e la stasi mortuaria, con l’opposizione di una continuità ripetitiva al disordinamento dei ritmi vitali, a cominciare da quelli che colpiscono il ritmo sonno-veglia e il comportamento regolare dell’appetito (…)”.
Tutto deriverebbe, insomma, dal senso del dovere fortemente colpevolizzato (e imputato sarebbe qui il padre), che determinerebbe come risposta dell’individuo (il figlio) l’esigenza dell’ordine, ma causerebbe anche come contropartita disturbi nevrotici o psicotici del sonno e dell’appetito.
Io dormo bene, ma non altrettanto posso dire dell’appetito: mangerei molto più di quanto mangio attenendomi alla dieta di Ornella. Inoltre (dell’ordine ho già detto), noto in me anche la tendenza a ripetere taluni comportamenti (si dice, se non erro, coazione a ripetere) durante la giornata. Infine, passo buona parte del giorno fermo, seduto o disteso nel letto, intento a leggere. Anche questa immobilità è un segno della mia nevrosi. Ma perché mi lamento? Non sono forse un poeta? E non sono questi i sintomi della malinconia leopardiana?
22 febbraio 1998
Gioisco all’idea dei quattro giorni di vacanza che sono appena cominciati. Purtroppo la vacanza di carnevale coincide con il mal tempo. L’alta pressione è ormai cessata e venti carichi di pioggia spirano da sud, sud-ovest. Non si può uscire da casa, ma in compenso posso attendere indisturbato alle mie attività, coll’unica cura, che di tanto in tanto fa capolino come un vermetto roditore, dei due pacchi di compiti da correggere.
Oggi ho rivisto un paio di capitoli del mio lavoro su Dante, apportando qua e là alcune correzioni, e poi ho riletto due articoli di mio padre già ricopiati. Appena avrò finito di rileggerli tutti, passerò a ricopiare gli articoli su Gobetti.
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Oggi la pagina culturale del “Corriere della sera” (p. 29) è dedicata interamente al Leopardi. Francesco Fiorista, cardiologo dell’Ospedale San Carlo di Milano, fa il punto su tutte le malattie del giovane recanatese, Pier Vincenzo Mengaldo recensisce un saggio appena uscito da Rizzoli di Luigi Baldacci, Il male nell’ordine. Scritti leopardiani. In questa recensione dal titolo esclatante E nello “Zibaldone” si nasconde un anticipatore di Nietzsche leggo e riporto: “Baldacci ci ha detto e ripetuto inappellabilmente che il pensiero di Leopardi è inutilizzabile: il che vuol dire inutilizzabile entro le nostre categorie progressive e dialettiche e, ancor più, legate all’idea della monetizzazione sociale del pensiero (…).
Ma è ancora “utilizzabile” se ci acconciamo al semplice concetto che compito del pensiero è solo pensare, e pensare negativamente, senza paura né per le conseguenze sociali, né per noi stessi, tutt’al più accettando che esiste un pensiero speculativo che rende conto solo a se stesso e un pensiero, per così dire, “pratico”. Del resto noi viviamo e cerchiamo di essere gentili pur sapendo benissimo che la vita è terribile e che noi siamo dei cannibali”.
Era inevitabile che mi soffermassi su questo passo conclusivo della recensione di Mengaldo, dal momento che più volte in questo diario ho riflettuto sulla inutilità, dico io, della poesia. Mengaldo scrive del pensiero leopardiano “inutilizzabile”, ma non credo poi che importi molto distinguere, perché il pensiero leopardiano non è che l’altra faccia della medaglia rispetto ai suoi Canti. Pensiero inutile non può che corrispondere a poesia inutile.
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Poesia è la luce delle scintille che si sprigionano da un pensiero insonne. Non vì è poesia dove non v’è pensiero. Poesia non è il miele che cola da un favo troppo pieno, ma la pappa reale riservata alla larva dell’ape regina.
Leggo in Elio Gianola, Leopardi, la malinconia, cit., p. 257: “(…) non si dovrebbe dimenticare che di lui [Leopardi] abbiamo in tutto 41 ‘canti’, ivi compresi i testi adolescenziali, i frammenti e le epistole in versi, per uno scrittore che, nei pochi anni in cui ha potuto scrivere, è stato abbondantissimo. È quanto diceva, in una lettera del ’24 al cugino Giuseppe Melchiorri, che gli aveva chiesto dei versi per la morte di un amico: “Io non ho scritto in vita mia se non pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguìto altro che un’ispirazione […], e se l’ispirazione non mi nasce da sé, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello” (Ep. , III, 74-75).
Non è a dir poco stupefacente che uno dei più grandi poeti degli ultimi secoli abbia scritto in versi così poco, e non è questo il segno inequivocabile della difficoltà del fare poesia nel nostro tempo?
Vero è, dunque, che la poesia sia il distillato preziosissimo del parlare umano per via di scrittura, il diamante purissimo, se fosse ancora possibile dirlo, che nasce “in la minera”.
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Oggi il mio peso, dopo una settimana di dieta, è passato da 103 a 102 Kg. Ornella dice che è già un buon risultato.
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Ho ricevuto il bando di Concorso del Premio per il racconto indetto dal Comune di Carpi (Mo), a cui ho intenzione di partecipare. La scadenza è il 15 aprile. Nella giuria vi è anche Gianni Celati, il nume tutelare di Enrico De Vivo. Scriverò a Enrico per avvisarlo, qualora volesse partecipare anche lui a questo Concorso. Dovrebbe essere una cosa seria.
23 febbraio 1998
Oggi leggo ch’è morto Carlo Dionisotti, l’altro giorno è toccato a Oreste Macrì. Lentamente una generazione di letterati vien meno, e a noi non resta che studiarne l’opera.
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Oggi Milena è venuta a trovarci e ha pranzato con noi, summo cum gaudio di Giulia che dimostra di avere un carattere molto socievole. Io ho continuato a rileggere i miei scritti danteschi e gli scritti leopardiani di mio padre, prima di stamparli e di sottoporglieli, per la revisione finale che avverrà quest’estate, durante le meritate, anche se non pagate, vacanze. Questo pomeriggio usciremo, approfittando del sole che fa capolino di tra le nuvole.
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Ho intenzione di sfrondare il mio lavoro su Dante di tutte le citazioni che mi parranno non necessarie, e di lasciare solo quelle ben collocate nel testo. Inoltre ho intenzione di riscrivere alcune parti.
24 febbraio 1998
È ritornato in cielo il sole, e a noi la voglia di uscire. Oggi siamo a pranzo a casa di mia sorella, ad Endenna, e poi di sicuro andremo a Bergamo per il martedì grasso, ultimo giorno di carnevale.
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Ieri sera ho letto il capitolo VIII della terza parte del libro di Maurice Blanchot, Il libro a venire, cit., pp. 187-192, capitolo per il quale mi son procurato il libro. Difatti, l’argomento è Diario intimo e racconto. Da questo capitolo riporterò ora alcune citazioni, perché mi sembra giusto che chi scrive un diario debba riflettere sulla forma diaristica.
A p. 187: “Il diario intimo (…) è soggetto a una clausola apparentemente lieve, ma temibile: deve rispettare il calendario. Questo è il patto. Il calendario è il suo demone, l’ispiratore, il compositore, il provocatore e il guardiano. Scrivere un diario intimo, è mettersi temporaneamente sotto la protezione dei giorni comuni, mettere la scrittura sotto questa protezione, e anche proteggersi dalla scrittura, assoggettandola a una regolarità felice che ci si impegna a rispettare. Quello che si scrive si radica allora, lo si voglia o no, nel giornaliero e nella prospettiva che il giornaliero delimita. I pensieri più remoti e più aberranti sono trattenuti dentro il cerchio della vita quotidiana e non possono violare la sua verità. Così, per il diario, la sincerità è l’esigenza da raggiungere, e da non oltrepassare. Nessuno più di chi scrive un diario è tenuto ad essere sincero: la sincerità è quella trasparenza che gli vieta di gettare ombra sui limiti dell’esistenza di ciascun giorno, al quale restringe la sua cura di scrivere. Bisogna essere superficiali per non venir meno alla sincerità, grande virtù che richiede anche un certo coraggio. La profondità comporta qualche agevolazione. Se non altro, la profondità esige la risoluzione di non rispettare il giuramento che ci lega a noi stessi e agli altri per mezzo di una verità”.
Alle pp. 188-189-190: “La trappola del diario. L’interesse del diario è nella sua irrilevanza. È questa la sua tendenza, la sua legge. Scrivere ogni giorno, sotto la garanzia di quel giorno e per rammentarsene, è un modo comodo per sfuggire al silenzio e a quel che c’è di estremo nella parola. Ogni giorno dice qualcosa. Ogni giorno registrato è un giorno preservato. Operazione doppiamente vantaggiosa. È un modo di vivere due volte. Così ci si salva dall’oblio e dalla disperazione di non avere niente da dire. (…)
C’è nel diario, la felice compensazione reciproca di una duplice nullità. Chi non fa niente della sua vita, scrive che non fa niente, e così si trova ugualmente di fronte a qualcosa di fatto. Chi non scrive perché si lascia sviare dalla futilità della giornata, si volge a questi niente per raccontarli, denunciarli o compiacervisi, e la giornata è riempita. (…)
L’illusione di scrivere e talvolta di vivere che dà, il piccolo rifugio che fornisce contro la solitudine (…), l’ambizione di rendere eterni i bei momenti e anche di fare di tutta la vita un solido blocco da tenere accanto saldamente abbracciato, e poi la speranza, mettendo insieme una vita insignificante e l’inesistenza delle opere, di innalzare la vacua vita fino alla bellezza e alla sorpresa dell’arte e l’arte informe fino alla verità unica della vita, l’intrecciarsi di tutti questi motivi diversi fa del diario un’impresa di salvazione: si scrive per salvare la scrittura, per salvare la piccolezza del nostro io (le rivalse prese sugli altri, le malignità distillate) o per salvare il nostro grande io dandogli respiro, e allora si scrive per non perdersi nella miseria quotidiana o, come Virginia Woolf, come Delacroix, per non perdersi in quella prova che è l’arte, l’esigenza senza limiti dell’arte.
La singolarità di questa forma ibrida, apparentemente così facile, compiacente, irritante a volte per la compiaciuta ruminazione di se stessi che essa consente (come se ci fosse un qualsiasi interesse a pensare a sé, a volgersi verso di sé), è che si tratta di una trappola. Si scrive per salvare i giorni, ma si affida la propria salvezza alla scrittura, da cui il giorno è alterato. Si scrive per sfuggire alla sterilità, ma si diventa Amiel che, rivolto alle quattordicimila pagine in cui la sua vita si è dissolta, vi riconosce la causa della sua rovina “artistica e scientifica”, “attraverso “una assorta pigrizia e un fantasma d’attività intellettuale” [nota 1: “Così pure Jules Renard: “Credo d’aver toccato il fondo del pozzo…E’ questo Diario che mi distrae, mi diverte e m’isterilisce”.]. Si scrive per ricordarsi di sé, ma, dice Julien Green: “io immaginavo che le mie note avrebbero ravvivato in me il ricordo del resto, di tutto il resto…ma oggi non restano che delle frasi affrettate e insufficienti che mi dànno della mia vita passata solo un riflesso illusorio” [nota 2: “Chi, più di Proust, desidera ricordarsi di sé? Per questo, non c’è scrittore più lontano dall’annotare giorno per giorno la propria vita. Chi vuole ricordare deve affidarsi all’oblio, al rischio dell’oblio assoluto e a quel singolare caso che diventa, allora, il ricordo.]. Alla fine, dunque, non si è vissuto né scritto, doppio fallimento, a partire dal quale il diario ritrova la sua tensione e la sua gravità.
Il diario è legato alla strana persuasione che sia possibile osservarsi e che bisogna conoscersi. Eppure, Socrate non scrive. (…) Quelli che se ne rendono conto e a poco a poco riconoscono di non potersi conoscere, ma solo trasformarsi e distruggersi, e che proseguono in quello strano combattimento in cui si sentono attratti fuori di sé, in un luogo tuttavia per loro inaccessibile, ci hanno lasciato, secondo le loro forze, alcuni frammenti, del resto a volte impersonali, che possiamo preferire a qualsiasi opera compiuta”.
A p. 191: “Vediamo bene perché lo scrittore possa solo tenere il diario dell’opera che non scrive. Vediamo anche come questo diario non possa scriversi se non diventando immaginario, immergendosi, con chi lo scrive, nell’irrealtà della finzione”.
È inutile dire che ho letto e trascritto queste pagine come se fossero un atto di accusa contro di me e il mio diario che da qualche mese a questa parte sto scrivendo. Quel che mi colpisce è la verità delle parole di Blanchot, la loro irrefutabilità. Blanchot ha ragione, mille volte ragione. Io non sto scrivendo l’opera che dovrei scrivere, e mi sto rifugiando in un diario stenterello, per sfuggire alla mia sorte, alla mia opera che ancora non ho scritto e che chissà se mai scriverò. Dovrei sospendere questo diario, mai più scriverlo, preferire l’afasia ad una scrittura ingenua (così scrive Blanchot, cit., p. 191: “La tentazione di tenere “aggiornato” il ruolino di marcia dell’esperienza più oscura è certamente una tentazione ingenua. Tuttavia sussiste”.), improduttiva, che finirebbe coll’isterilirmi, e che per di più è il frutto della mia grave ipocrisia. Io sto evidentemente prendendo in giro me stesso.
Ci penserò e prenderò presto una decisione.
25 febbraio 1998
Devo dire che le pagine di Blanchot mi hanno molto impressionato, a tal punto da farmi pensare di interrompere questo diario, che non sarebbe altro che il frutto della mia vigliaccheria, e della mia incapacità di affrontare l’opera e la vita, come Blanchot direbbe.
Il fatto è che io credo veramente che le parole di Blanchot siano vere, ma allo stesso tempo credo anche che questo mio scrivere in forma diaristica risponda a una altrettanto vera e profonda necessità di analizzare il mio modo d’essere e di pensare. Io penso, ma poi, se non fermo il mio pensiero sulla carta, ho paura che il mio pensiero svanisca, si nullifichi, e scompaia del tutto. Allora scrivo, per salvarmi, come chi fa riprese con una cinepresa per conservare i propri ricordi sotto forma di immagini.
Perché non dovrei fare questo? E se non questo, che cosa dovrei fare? Dovrei forse immergermi completamente nella fiction, nel mondo dell’immaginazione, e scrivere di ciò che non è, fare opera letteraria stricto sensu, senza indulgere alle ingenuità diaristiche? Ma allora mi si chiede di non più pensare, giorno per giorno, sì, secondo le scadenze quotidiane del calendario, col vincolo implicito di non morire nei giorni trascritti, e con la pena di morire nei giorni in cui la vita non ci ha concesso di scrivere?
Io ora conosco tutti i pericoli che corre chi tiene un diario, e se decido di persistere, so bene che pagherò lo scotto della mia pertinacia.
Continuerò a scrivere il diario, almeno fino alla fine della scuola, fino a giugno, fino a quando nascerà Sofia, per capire fino in fondo me stesso, che cosa mi spinga a scrivere, e come avvengano le operazioni della mia esistenza così priva di eventi, come quella di tutti gli uomini moderni. Non mi soffermerò più, se non incidentalmente, sui casi della mia vita privata e su quella dei miei familiari, mentre insisterò nella descrizione del mio mondo intellettuale. Io vivo ancora nel tempo dell’attesa, nel quale attendo che il mondo mi dia un segnale relativo alla mia opera. In questo tempo forse la forma più appropriata di scrittura è proprio quella diaristica, poiché essa mi permette di scandire i giorni, dando loro un senso.
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Poco prima di morire Carlo Dionisotti rilasciava a Antonio Ria un’intervista (pubblicata sul “Corriere della sera” di Lunedì 23 febbraio 1998 a p. 22, col titolo: “Intellettuali irresponsabili, avvicinatevi alla gente”) da cui mi piace riportare questa affermazione: “Io, a 90 anni, non riesco a vedermi sulla cima di una montagna. Sono in fondo a un buco, dal quale si vede poco: si vede un mondo in gran parte scomparso. La stessa mancanza di fiato che mi impedisce di salire, mi toglie anche la capacità di vedere con sufficiente larghezza e chiarezza. Non è vero che l’età comporti una maggiore conoscenza. Tutto diminuisce con lo stesso ritmo con cui nella fanciullezza lo si acquista”.
Penso al protagonista del film di Bergman, Il posto delle fragole, bellissimo.
27 febbraio 1998
Avverto spesso la sensazione di avere tante cose da scrivere, e allora mi sorprendo a gioire insensatamente per tutto quello che la possibilità dello scrivere mi riserva. Altre volte, invece, prevale la sensazione opposta, e cioè la paura che non avrò tempo per scrivere tutto ciò che vorrei scrivere, né modo, né l’occasione o la possibilità.
Accade anche ch’io avverta la sensazione in sé molto angosciosa di non avere nulla proprio nulla da scrivere; mi accorgo che è proprio allora che io ricerco la penna o accendo il computer.
Così anche per la lettura. Gioisco al pensiero favoloso di tutto quello che potrò leggere, degli infiniti mondi che potrò scoprire grazie alla lettura. Altre volte prevale la sensazione opposta, in sé sgradevole, che mai riuscirò a leggere tutti i libri che desidererò leggere, e che già ora devo lottare contro la stanchezza.
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Rifletto sul modo in cui avvengono, progredendo, le mie letture: da un libro a un altro. Intendo dire che, essendo fondamentalmente un autodidatta, giungo ad un libro non per suggestioni esterne alla lettura, ma condottovi per mano da un libro già letto, vuoi perché nel libro letto se ne parlava bene, vuoi perché la citazione mi è sembrata degna di nota, ecc. In questo modo, di stella in stella, io ricerco i miei libri.
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Lavoro ancora all’Ostacolo, e inizio a ricopiare i lavori di mio padre su Gobetti, che intendo riunire in un libro.
28 febbraio 1998
Questo mio affaticarmi in letture estenuanti, questo mio studio che non ha termine, ha forse qualche rapporto con la poesia ch’io scrivo? Le serve a qualcosa, le giova, oppure mi spinge ad allontanarmi da essa, a voltarle le spalle, inaridendomi?
E così anche il mio diario? L’ombra di Blanchot ancora mi sovrasta.
(continua)