Traduzioni 1. Alcmane

di Antonio Devicienti


Alcmane in un mosaico romano del III secolo d.C., da Gerasa.

La poesia di Alcmane (VII secolo a. C.) è indissolubilmente legata a Sparta e ne mette in luce aspetti forse poco noti o, per meglio dire, eclissati dall’immagine più vulgata (e stereotipata) di una città votata alle attività belliche, ferrigna e austera – nei versi di Alcmane la natura, il simposio e il canto sono espressioni di una comunità raffinata e incline a coltivare il gusto per il bello e per le arti; pur pervenutaci in uno stato molto frammentario l’opera di Alcmane s’impone come una tra le più alte dell’antica poesia greca, in particolare nell’ambito della lirica corale.

Il primo testo che propongo è infatti un “partenio” trascritto in un papiro ritrovato a Saqqara in Egitto nel 1855 e conservato al Louvre – i parteni erano testi in versi musicati per gruppi di fanciulle che li cantavano e danzavano in occasione di feste religiose e di riti d’iniziazione delle stesse fanciulle alla vita sociale della città. Non ho tradotto l’intero partenio giuntoci lacunoso in molte sue parti, ma soltanto il passaggio centrale che va immaginato come un’azione dialogata tra due cori che esalta la bellezza di Agesìcora (“nome parlante” in quanto designa colei che guida il coro) e quella di Àgido; le interpretazioni del partenio non sono affatto univoche, ma si tratta probabilmente di una cerimonia in onore di divinità locali spartane durante la quale si celebrano legami anche amorosi tra le fanciulle (il termine “cugina” designa il legame nato all’interno del gruppo), necessario preludio alla vita adulta. Non sconcertino i riferimenti alle diverse razze di cavalli citate nel partenio, essendo quest’animale, negli ambienti aristocratici entro cui i parteni avevano luogo,  simbolo di eleganza e di bellezza.

Propongo poi la traduzione di quattro frammenti (i titoli sono soltanto indicativi del tema) che, lampi improvvisi e bellissimi, evocano una cerimonia in onore di Dioniso e un notturno, mentre gli ultimi due potrebbero essere considerati in qualche modo autobiografici sia perché nel penultimo Alcmane rappresenta sé stesso anziano ma mai sazio d’intonare canti insieme con le fanciulle del coro, sia perché nell’ultimo connette chiaramente la propria arte con quella delle pernici, affermando anzi che l’ha appresa direttamente da quelle creature che sono in strettissima connessione con la natura.

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