Le giornate volavano lente, oleose, come le onde.
Una volta il tenente poltrendo al sole sull’uscio della casupola, seguiva le dita di Marjutka, velocissime e abilissime nel togliere la lisca da una carpa grassoccia, strizzava gli occhi da tanta luce e alzava le spalle. Disse: «Uhm… Ma che assurdità, accidenti!…»
«Di cosa parli, caro?»
«Assurdità, dico… La vita nella sua interezza, un’assurdità assoluta! I concetti primari, le nozioni, le idee inculcate. Tutt’una sciocchezza! I simboli convenzionali, come sulla carta topografica. Un tenente della guardia imperiale?! Al diavolo, il tenente della guardia! Voglio vivere ora. Avevo vissuto per ventisette anni e cosa vedo? Che non avevo vissuto affatto. Una barca di soldi avevo speso, viaggiavo, per meglio dire, mi dimenavo per il mondo nella ricerca di un qualche ideale, ma il cuore, l’animo non smetteva di tormentarsi per l’angoscia mortale della vacuità, dell’insoddisfazione. Adesso sto seduto e penso: se qualcuno mi avesse detto allora che le giornate più piene, superbe, cariche di ogni significato, le avrei vissuto qui, su questa stupidissima crêpe di sabbia, in mezzo a tutto questo stupidissimo mare, mai e poi mai l’avrei creduto!»
«Come avevi detto, quali giorni?»
«Pieni, superbi, carichi! Non ti è chiaro? Come dovrei dirtelo, che sia comprensibile? Si tratta di quei giorni, quando non ti senti più in un’ostile contrapposizione a tutto il mondo, come una particella singola, isolata in una lotta autonoma, ma ti sciogli assolutamente e totalmente, ecco, in questa – fece un larghissimo gesto del braccio – massa terrestre. Sento ora che mi sono fuso completamente in essa, in un modo indissolubile. Il suo respiro è il mio respiro. Ecco senti, sta respirando la risacca dell’onda: sciurf… sciurf… Non è la risacca che respira, sono io che respiro, l’animo mio, corpo e carne.»
Marjutka lasciò il coltello.
«Tu stai parlando da persona istruita, non tutte la parole mi sono comprensibili. Per conto mio posso dire solo questo – sono felice adesso!»
«E sì, le parole sono diverse, ma risultano essere la stessa cosa. Adesso come adesso, mi sembra che sarebbe bello non andarsene da nessun’altra parte, da quest’insensata sabbia calda, rimanere qui, per sempre, a sciogliersi sotto questo sole irsuto, vivere come una bestia felice.»
Marjutka stava a guardare la sabbia, come se fosse assorta nel ricordare qualcosa di importante. Con aria colpevole, scoppiò in una dolce risata.
«No… Non lo voglio! Non resterei qui. È troppo lenta, oziosa la vita, si potrebbe del tutto infiacchirsi. Neppure la propria felicità puoi mostrare alla gente. Attorno non c’è che pesce morto. Non vedo l’ora che arrivino i pescatori. Marzo oramai, penso, sta per finire. Sento molto la mancanza della gente viva.»
«E noi, che siamo, morti?»
«Per essere vivi, siamo vivi, ma se solo per un’altra settimana, al massimo, ci è rimasta la farina, la più ammuffita, e lo scorbuto dovesse acutizzarsi, cosa canterai a quel punto? Inoltre, caro, cerca di renderti conto che non è il tempo adesso per starsene seduti vicino al fuoco. Lì, i nostri, sicuramente, stanno combattendo, spargono sangue. Ogni braccio conta. Io non posso, in questo caso, vivere ritirata nella quiete spensierata. Non per questo avevo prestato il giuramento militare.»
Gli occhi del tenente si aprirono con stupore.
«Macché? Non mi vorrai dire, che vorresti andare di nuovo a combattere?»
«E come no?»
Il tenente silenziosamente, si girò e si rigirò tra le mani una secca scheggia di legno strappata dalla soglia. Come un lento, denso ruscello si sparsero le sue parole: «Stramba!.. Sai cosa ti volevo dire, cara Mašen’ka, che sono stufo, arcistufo di tutte queste idiozie. Quanti anni di spargimento di sangue, di odio, di rancore. Non sono mica divenuto un soldato dalle fasce. Avevo, una volta, anch’io una vita bella, umana. Prima della guerra con la Germania ero uno studente, studiavo filologia, vivevo con i miei cari, amati libri affidabili. Avevo molti libri. Gli scaffali alti fino al soffitto pieni zeppi di libri lungo tre pareti della stanza. Succedeva spesso: di sera, dietro le finestre, la nebbia di Pietroburgo con la sua zampa umida e fredda stava acchiappando e masticando la gente fuori per strada, nella stanza invece un camino ben riscaldato, una lampada accesa sotto un paralume azzurro. Siedi nella poltrona con un libro e ti senti, proprio come adesso, privo di ogni problema e preoccupazione. Ti sembra che l’animo tuo stia fiorendo, senti persino come i fiori frusciano e la loro fragranza. Come i mandorli di primavera! Comprendi?»
«Uhm» – fece Marjutka con diffidenza.
«E tutto questo, in una giornata fatale si ruppe, si frantumò in mille pezzi, sprofondò nel baratro… Ricordo quel giorno, come adesso. Passavo le mie vacanze in campagna, stavo seduto sul terrazzino della nostra dacia e leggevo un libro, persino questo particolare ricordo. Un tramonto minaccioso, paonazzo, si rifletteva su ogni cosa con il suo scintillio sanguigno. Dalla città era arrivato mio padre. Nella mano teneva un giornale ed era molto agitato. Disse allora solo una parola, in cui, però, era racchiuso un mortale peso di piombo… “Guerra”. Era una parola terrificante, sanguigna, come il tramonto. Poi mio padre aggiunse: “Vadim, il tuo bisnonno, nonno, padre erano pronti al primo richiamo della patria. Spero, tu?…” La speranza sua non era vana. Ho abbandonato i libri. Partii per la guerra allora pieno di sincerità, con il cuore aperto…»
«Sei davvero curioso!» – gridò Marjutka, stringendosi nelle spalle. Questo fatto ha la stessa spiegazione, come se prendessimo, per esempio, il mio vecchio che si era ubriacato e, da sbronzo, non connettendo più nulla, si desse, come un ariete, una botta di testa contro un muro e si ammazzasse; quindi, secondo quello che mi stai dicendo, anch’io dovrei fare la stessa cosa? Non mi è mica chiara tutta questa faccenda!»
Il tenente sospirò.
«Sì… Questo non ti è dato di comprendere. Su di te non è mai pesato un tale carico. Nome, onore del casato. Dovere… Noi avevamo un gran rispetto e la massima considerazione di tutte queste cose.»
«Ebbene!… Anch’io voglio tanto bene al mio babbo defunto, ma se penso alle scemenze o sghiribizzi vari che gli passavano per la testa…, non devo seguirlo mica in tutto e per tutto. Scusa, tu non avresti potuto mandare il tuo bisnonno con tutto il resto in quel… dalla tua bisnonna!»
Il tenente fece un sorriso storto e in cagnesco.
«No, non l’ho mandato. E la guerra mi aveva rovinato. Con le mie stesse mani ho soffocare il mio cuore generoso, umano in un marcescente ascesso mondiale, l’avevo seppellito in una discarica putrefatta. Era arrivata la rivoluzione. Credevo in lei, come in una fidanzata… Ma lei… Io, mentre prestavo servizio militare, mai avevo toccato nemmeno con un dito un soldato, ma alcuni soldati disertori nella stazione ferroviaria della città di Gomel, mi avevano preso, avevano strappato le mostrine, mi sputavano in faccia, con il liquame delle latrine mi avevano imbrattato. Perché? Avevo deciso di scappare, ero arrivato agli Urali. Credevo ancora nella patria. Avevo deciso di combattere ancora per la mia patria calpestata. Per le mie mostrine disonorate. Combattendo, mi sono reso conto che non c’era la patria, che anche la patria era lo stesso terreno incolto, come la rivoluzione. Ambedue amavano il sangue. E che per le mostrine non merita neanche di combattere. Proprio a questo punto, mi sono ricordato della vera e unica patria dell’uomo, il pensiero. Mi sono ricordato dei libri, voglio tornare al più presto da loro per immergermi nella lettura, cercare di farmi perdonare da loro, vivere con loro e respirare all’unisono; e all’umanità invece, con tutta la sua patria e la rivoluzione, per l’ascesso marcescente del diavolo, vorrei sputare sul muso.»
«Ah, è cosi!… Non t’importa, allora, se la terra si sta squarciando a metà, che la gente combatta in cerca della verità, soffra, sparga il sangue; basta che tu, poltrone, stia bello comodo in un cantuccio a leggere le favole!»
«Non so… E non voglio sapere» – gridò freneticamente il tenente, saltando in piedi. «So una cosa soltanto – stiamo vivendo al tramonto del Mondo, della Terra. Hai detto giusto: «Si sta squarciando a metà». Sì, si sta squarciando, sta per cadere a pezzi, vecchia carogna! È tutta devastata, sventrata. Per questa vacuità perisce. Prima era giovane, prolifica, inesplorata, allettava con dei paesi sconosciuti, con delle incalcolabili ricchezze. È finito. Non c’è più nulla da scoprire. Ogni ingegno umano è indirizzato a preservare le ricchezze accumulate, tirare avanti ancora secoli, anni, minuti. La tecnica. Le cifre morte. E il pensiero, reso sterile dalle cifre, si sforza, si affanna, si adopera in ogni modo per raffinare le tecniche di sterminio, per massacrare sempre più gente, in modo che i vivi rimasti, possano più a lungo riempirsi gli stomaci e le tasche. Al diavolo!… Non desidero più alcuna verità, oltre la mia. I tuoi bolscevichi, credi, hanno scoperto la verità vera? Sostituire l’animo umano vivo, pulsante con ricchezze, con una razione e un mandato? Basta! Non c’entro più con tutte queste faccende! Non voglio più insudiciarmi!».
«Il cocco di mamma! Pulitino! Nullafacente, scansafatiche, dalle manine bianche! Lasciamo gli altri, per i tuoi begli occhi, razzolare dentro gli escrementi?!»
«Sì! Lasciamoli! Lasciamoli, accidenti! Agli altri, a chi queste cose piacciono. Ascoltami, Maša! Non appena saremo portati in salvo da qui, andiamo nel Caucaso. Ho nei pressi di Suchum una villetta. Ci appartiamo lì, io mi dedico ai miei libri, e che tutto vada al diavolo. La vita tranquilla, la serenità. Non desidero più saperne di verità alcuna, voglio la pace, la calma. E tu andrai a studiare. Desideri molto studiare, non è vero? Ti rammaricavi tanto d’essere ignorante. Eccoti l’opportunità, studia! Io per te farò qualsiasi cosa. Mi hai salvato dalla morte e ciò è incancellabile.»
Marjutka si alzò di scatto. Disse a denti stretti, come un fascio di spine, gli buttò addosso: «Allora, se intendo bene le tue parole, dovrei mettermi con te tra i soffici piumini, poltrire, mentre tanta altra gente, in una lotta mortale per la verità, impegna tutte le forze? Ingozzarsi di caramelle, mentre ognuna è imbrattata di sangue? È questo che vuoi, veramente?».
«Ma perché ragioni in modo così grossolano?» – disse malinconicamente il tenente.
«Poverino! È grossolano! Invece al signorino bisogna servire tutto delicatissimo, tenerissimo, allo sciroppo caramellato! Tuttavia, ascolta! Hai appena parlato in malo modo della verità bolscevica. Dicevi: non ne voglio né sentire né sapere. Ma dimmi, la conoscevi almeno in po’? Lo sai qual è la sua ragion di essere? Hai mai pensato sino a che punto fosse impregnata di sudore salato e di lacrime del popolo?»
«Non conosco, non so, mai pensato» – rispose il tenente fiaccamente. «Diventa strano per me soltanto da comprendere, come mai tu, una signorina, sei diventata tanto rude, da voler desiderare d’andare a devastare e ammazzare con queste orde ubriache, infestate di pidocchi.»
Marjutka si puntò le mani sui fianchi. Sputò veleno: «Loro, forse, hanno i corpi infestati di pidocchi, tu, invece, hai l’anima pidocchiosa! Ho tanta vergogna di me stessa, per essermi messa con uno come te. Smidollato, verme schifoso! Mašen’ka, andiamo a letto a spassarcela, viviamo alla chetichella» – scimmiottò. «Gli altri con la loro gobba arano la terra per farla germogliare di vita nuova, più giusta, e tu? Vigliacco, figlio d’una cagna!»
Il tenente si infiammò, strinse ostinatamente le labbra sottili.
«Non ti permettere di dire parolacce!.. Stai nei limiti della decenza… cafona!»
Marjutka fece un passo e con ampio movimento della mano, diede una sventola sulla scarnificata, non rasata guancia del tenente.
Il tenente si scostò, tremò con tutto il corpo, strinse le mani a pugni. Pronunciò in modo staccato: «La tua fortuna è che sei una donna! Odio… Schifezza!»
E di corsa si nascose dentro la casupola.
Marjutka con aria smarrita si guardò il palmo della mano infuocato, disse al vento: «Ma vedi un po’, che caratteraccio ha il gran signore! La peste dei pesci lo pigli!»
(continua)