La città degli Ottocento Martiri… La natura dell’evento e la portata della strage hanno alimentato innumerevoli indagini storiche e, soprattutto – per l’aspetto che qui vorremmo mettere in luce – hanno acceso il cuore e la fantasia di artisti, scrittori, intellettuali e poeti, soprattutto in tempi a noi assai vicini. Il sacco di Otranto del 1480 ha connotato in maniera unica la storia dell’antico capoluogo di un’intera terra e ha lasciato memorie profonde e profonde suggestioni anche nei centri che a Otranto fanno corona. Gli scrittori e gli studiosi che si sono accostati alla vicenda otrantina l’hanno fatto con atteggiamento quasi “religioso”. Riportiamo il passo di un celebre viaggiatore della metà del Novecento: «Otranto è una piccola “città morta”, spopolata attraverso i secoli, via via che il suo porto restò deserto e i dintorni s’impaludarono fino alle recenti bonifiche. Adesso è un nodo di viuzze, dolcissimo, con l’Arcivescovado al centro. Ha un bellissimo duomo, con bellissimo pavimento a mosaico ed una cripta dalle molte colonne, variamente tinte dai secoli, ed alcune istoriate. Da quando alla fine del Quattrocento rifiutò di arrendersi ai turchi presentatisi d’improvviso, e resistette col massacro totale del clero e del popolo, che i turchi completarono il giorno dopo decapitando gli ottocento prigionieri superstiti sul colle sovrastante della Minerva, Otranto è città sacra. Le ossa dei Martiri di Otranto, alcuni dei quali portano ancora una freccia infissa nel teschio, sono oggi raccolte nel duomo. Ma un piccolo santuario sorge sul Colle del martirio e recentemente ne fu sistemato l’accesso con una scalinata. […] Una lapide ci ricorda il presentarsi delle navi turche di fronte a Otranto quando essa già viveva “tranquilla e dimenticata”: è una specie di sintesi di storia salentina». E nella pagina successiva, dopo aver proseguito verso sud lungo la costa e nell’entroterra, e dopo aver affermato che «esiste una fantasia del Salento, uno spirito di questa terra», lo scrittore esprime la sensazione complessiva che il Salento gli ha donato: «Le costruzioni coniche orientaleggianti [le pagghiare] sembrano essere nella Puglia del sud la forma più naturale dell’architettura. E la pianura su cui sorgono è tutta marina, spazzata dai venti tra mare e mare. I riverberi, i luccichii, i soffi dei due mari sembrano quasi incontrarsi a mezz’aria. Così tutto si presenta lucido, come se fosse avvicinato da un effetto ottico, ed insieme ingannevole. Sembra anche d’essere sul mare se si alzano gli occhi, contemplando le nuvole, che galoppano velocemente tra l’Adriatico e lo Ionio. Il Salento è una terra di miraggi, ventosa. È fantastico, è pieno di dolcezza. Resta nel mio ricordo più come un viaggio immaginario che come un viaggio vero»[1].
Come non cogliere nelle parole di Piovene un che di devoto stupore nei confronti di questa terra che deve il suo fascino all’indissolubile intreccio di natura e memorie, di ambiente e storia? Il Grand Tour in Italia dell’autore de Le stelle fredde e Lettere di una novizia effettuato per conto della RAI cominciò nel maggio 1953 e finì nell’ottobre 1956: molte cose sono cambiate da allora ̶ e forse per certi aspetti dovremmo dire “purtroppo” − e Piovene era ben consapevole che le cose sarebbero presto cambiate: «Attraversato il Mezzogiorno, oggi così schiumoso e rumoroso di problemi attuali, si passa, per così dire, al di là, in una zona di silenzio; si riprende distanza; si ritrova ancora (per poco) un’esistenza misurata su diverso metro. Non è il mondo di ieri, ma non è ancora il mondo d’oggi»[2]. Ma il fatto che, rispetto ad altre parti del Mezzogiorno, il Salento e in particolare alcune sue cittadine, a cominciare dal centro storico di Otranto, abbiano tanto a lungo mantenuto quella loro “aura poetica” dovrebbe avere − ed ha ̶ un qualche significato anche oggi. L’aura poetica che avvolge Otranto rimane legata soprattutto all’assedio e allo sterminio apportato da Acmet Pascià per conto di Maometto II Fatih, cioè il conquistatore. La cittadina, sede delle autorità imperiali sotto il dominio bizantino, aveva già conosciuto assedi e devastazioni per opera dei Goti (metà del VI secolo e successivamente da parte di Saraceni e Ungari, ma l’evento del 1480 assunse ben altro significato. «L’eroica e tenace resistenza degli otrantini, stremati di forze, lasciati in balia di loro stessi, senza ajuto e senza munizioni, combattenti contro un esercito maggiore per numero e per mezzi di guerra, forma una delle pagine più splendide nei fasti civili, militari e religiosi d’Italia»[3]. Così si esprime Cosimo De Giorgi pur sottolineando lo scarto tra la grandezza delle memorie e le tristi condizioni del borgo nell’Ottocento.
Mario Spedicato, nel saggio che segue la parte illustrata di questo volume, ripercorre la travagliata vicenda del lungo processo di beatificazione degli Ottocento Martiri, dando corpo a una interessantissima rassegna bibliografica e chiarendo la natura delle revisioni storiografiche riguardanti l’argomento. Il secondo saggio della sezione “Per approfondire” è quello di Piero Doria sulla storia più che millenaria della diocesi otrantina. Lo scritto che chiude tale sezione è il saggio di Salvatore Capodieci: una cronologia ragionata sui rapporti tra Islam e Stati cristiani dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto. Una corposa “Appendice”, con testi di Paolo Ricciardi, Carlo Stasi e Daniele Capone conclude il volume.
Noi torniamo – senza alcuna pretesa di completezza – a parlare di quelli che sono gli strumenti più potenti per creare fascinazioni eterne: la letteratura e la poesia (assieme al teatro e al cinema che a esse possono essere ricondotti). Aldo Vallone, che in un penetrante scritto passa in rassegna le opere letterarie dedicate alla presa d’Otranto e alla strage perpetrata dai Turchi, rileva che fino a tutto l’Ottocento i fatti non sono stati fatti oggetto di adeguata riduzione letteraria, non hanno trovato – per motivi ideologici e/o di gusto che qui sarebbe troppo lungo ricordare − un degno cantore, sebbene proprio l’Ottocento sia stato l’epoca della poesia patriottica e del romanzo storico[4]. Al Novecento si ascrivono le opere che, forse anche perché più vicine alla nostra sensibilità e ai nostri canoni estetici, hanno saputo parlare al nostro cuore e hanno potentemente contribuito a creare il mito della città martire. Primo fra tutti l’affascinante romanzo L’ora di tutti del 1962 della già citata Maria Corti e a seguire il provocatorio Nostra Signora dei Turchi (1966), poi ridotto in versione cinematografica e drammaturgica dall’autore, il campiota Carmelo Bene; senza tralasciare il poema in dialetto salentino Li Martiri d’Otranto di Giuseppe De Dominicis del 1902, Il sacco di Otranto della melendugnese Rina Durante (1977, radiodramma Rai nel 1980) e La guerra de Utràntu del magliese Nicola G. De Donno, edito nel 1988 nella prestigiosa collana di poesia «All’insegna del pesce d’oro» del milanese Vanni Scheiwiller, che in Otranto ebbe casa in un elegante palazzo prospiciente la cattedrale, la Signora che da più di un millennio veglia sul borgo antico[5]. Questo per dire di come raffinati intellettuali abbiano saputo riscoprire le nostre memorie e si siano perdutamente innamorati del lembo di terra che, con la sua Punta Palascìa, è quello che dell’intera Italia più si protende a est.
Dopo “l’epica della genticeddha” di De Donno, che ha saputo fare da controcanto alla dimensione eroica e magniloquente di De Dominicis, e dopo le opere che abbiamo menzionato, soprattutto quelle della Corti e di Carmelo Bene, la natura e il significato del tragico evento e il fascino millenario e misterioso di Otranto sono entrati nell’immaginario collettivo e hanno saputo ispirare scrittori diversi tra loro, per percorsi letterari e origine geografica, ma tutti potentemente suggestionati dalla vicenda otrantina. Due nomi: quello del nostro conterraneo Raffaele Gorgoni, autore de Lo scriba di Càsole (2004) e Cinque variazioni su Lo scriba di Càsole, (2019) testo con cui diamo avvio alla nuova collana “Narrare” della Società di Storia Patria-Lecce; quello dello scrittore piemontese Roberto Cotroneo, autore di un libro, Otranto (1997), in cui emerge una città inquietante, magica e simbolica, alitante di fantasmi e di apparizioni; e successivamente (2012) autore del romanzo-poema I demoni di Otranto.
Il lettore perdonerà questa che a prima vista può apparire una lunga digressione. Noi siamo convinti che nelle pagine dei libri che abbiamo voluto menzionare ciascuno potrà trovare mille buoni motivi per innamorarsi per sempre di Otranto, delle sue coste, del suo entroterra, delle sue contrade e, se ciò avvenisse, anche grazie ai disegni di Piero Pascali, potremmo affermare di avere raggiunto il nostro scopo. Prima di chiudere questo incompleto excursus letterario, vorremmo segnalare il recente saggio di Carlo Stasi Otranto nel mondo (2018) − del quale forniamo in Appendice una sintesi-presentazione (doviziosa d’intriganti “curiosità” che non mancheranno d’interessare il lettore) redatta dall’autore stesso – lavoro che, come scrive Mario Spedicato nella Presentazione, «è al tempo stesso un testo di storia letteraria, di letteratura comparata, di filosofia del linguaggio, ed anche di storia patria e comprende la prima traduzione italiana di un’opera minore di Voltaire sconosciuta ai più», un’opera buffa in tre atti in cui Otranto, come nel settecentesco romanzo di Walpole (Il castello d’Otranto, opera che dette inizio alla voga dei tales of terror e al gusto gotico), rimane però solo una location esotica. E vorremmo ricordare infine, tornando alla tipologia di scrittura creativa che ha saputo cogliere l’anima profonda di questa terra, Torre saracena (2018)[6] di Antonio Prete, raffinato intellettuale e scrittore copertinese trapiantato a Milano, che ci offre un viaggio sentimentale in trentadue stazioni nel Salento, «una guida raffinata ed eccentrica, documentata e innamorata», a riprova che da questa terra ci si può allontanare, ma non la si dimentica, e che chi ci viene solo come turista non desidera altro che ritornarci[7].
I comuni dell’entroterra otrantino costituiscono una rete a maglie molto strette e sono tutti vicinissimi tra loro. Nel volume essi sono ordinati secondo il criterio di un percorso che crea una sorta di serpentina che procede da nord verso sud e si sposta progressivamente dalla costa verso l’interno. Un’occhiata alla cartina chiarirà meglio la logica del criterio scelto. Tutti i comuni qui inseriti, ad eccezione di Melendugno, che ricade in quella di Lecce (ma che ha con il territorio di Otranto un’evidente continuità storico-paesaggistico-ambientale) fanno parte dell’Arcidiocesi di Otranto, che ne comprende in tutto quarantuno, dieci dei quali sono stati trattati nel volume dedicato alla Contea di Castro. I restanti comuni appartenenti alla Diocesi sono quelli della Grecìa Salentina, più Galatina, Sogliano Cavour e Cutrofiano, di cui parleremo nel volume a essi dedicato.
Il legame amministrativo sovracomunale è dato dalla loro appartenenza (compreso il comune di Melendugno ma escluso quello di Cursi) al Gal Terra d’Otranto. I Gal, come si ricorderà, sono società consortili formate da soggetti pubblici e privati allo scopo di favorire lo sviluppo delle aree rurali utilizzando in modo ottimale i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea. All’interno del Gal, alcuni centri hanno ulteriori legami rappresentati dal loro far parte di una specifica Unione dei Comuni. In quest’area sono operative tre unioni: L’Unione dei Comuni Entroterra idruntino (Bagnolo del Salento, Cannole, Cursi, Palmariggi e Maglie, quest’ultimo solo in relazione ad alcune tematiche); quella denominata Terre di Mezzo (Botrugno, San Cassiano e Giuggianello; con Nociglia e Surano già trattati) e quella denominata Terre d’Oriente (Muro Leccese, Uggiano, Giurdignano; con Poggiardo e Ortelle anch’essi descritti nel volume dedicato alla Contea di Castro).
[1] G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Bompiani 2017, pp. 762-763.
[2] Ivi, p.756.
[3] C. De Giorgi, La provincia di Lecce.Bozzetti di viaggio, II, ristampa anastatica dell’edizione Lecce, Spacciante 1888, Galatina, Congedo Ed., 1975, p. 263.
[4] Cfr. A. Vallone, L’eccidio otrantino fra canoni retorici e invenzione narrativa, in Otranto 1480, a cura di A. Laporta, Cavallino, Capone Ed., 1980, pp. 283-319; intervento poi sviluppato, con lo stesso titolo, in «Critica letteraria», IX (1981), fasc. III, pp. 486-518.
[5] Maria Corti (Milano, 7 settembre 1915 – Milano, 22 febbraio 2002), filologa di fama internazionale, tenne cattedra all’Università di Lecce prima di approdare in quella di Pavia. Con l’editore Vanni Scheiwiller (Milano, 8 febbraio 1934 – Milano, 17 ottobre 1999) strinse un sodalizio “otrantino” che li portò a dar vita nel 1990 a una «Piccola biblioteca di Otranto» che annovera titoli come Otranto allo specchio della stessa Corti, in cui si legge per la prima volta una Cronaca ottomana della guerra d’Otranto di Ibn-Kemal. Da tale volume, edito nel 1990 nella collana «All’insegna del pesce d’oro», è tratta la citazione che introduce la didascalia del disegno n. 17 a pag. 50/51 dedicata al disegno Otranto. Piazza della Basilica. A nostro modesto parere, si deve soprattutto all’accesa passione per Otranto e la sua storia da parte della Corti e dello Scheiwiller se la cittadina ha potuto acquisire un fascino internazionale che negli anni si è sempre più consolidato.
[6] Torre Saracena è un luogo dell’anima, «è difesa interiore di una terra, delle sue immagini, della sua memoria. Ed è invito all’affabulazione: contro i fantasmi di ogni volontà distruttiva» (p. 10). “Torre Saracena” è la linea di torri che vanno da Porto Cesareo a Gallipoli, care alla giovinezza dell’autore. Ma Torre Saracena è anche un villaggio turistico che sorge nei pressi di Torre dell’Orso, una delle marine di Melendugno. Lo scrittore, navigando tra memoria, rimpianti, leggenda e storia, ci riporta con questo libro edito da Manni al Salento autentico, la cui immagine è oggi un po’ offuscata dal brand commerciale del turismo di massa. Anche per questo motivo noi abbiamo così tanto insistito nel “suggerire” buone letture che permettono di recuperare il senso profondo della nostra terra. La frase virgolettata è in l’immaginazione, Manni Editore, n° 310, Marzo-Aprile 2019.
[7] Su un piano diverso, anche l’intensa attività di arcivescovi e canonici del Capitolo Metropolitano della Cattedrale di Otranto, è servita ad amplificare la fama della cittadina. In particolare i canonici Antonio Antonaci, Grazio Gianfreda e Paolo Ricciardi, con i loro numerosi scritti, hanno contribuito alla conoscenza della Cattedrale e ravvivato la memoria della tragica resistenza contro l’invasione turca. In continuità con l’opera di canonici e arcivescovi intrapresa sin dagli anni Trenta del secolo scorso, hanno lavorato per il riconoscimento solenne da parte della Chiesa Cattolica del “Fatto del martirio degli 800 otrantini decapitati dai Turchi sul colle della Minerva il 14 agosto 1480”, già considerati “Santi” dal culto popolare.
(2019)