A chiare lettere. Un dialogo tra scienza e umanesimo. Carteggio Ferdinando Boero – Angelo Semeraro (14 febbraio 2006 – 14 febbraio 2008) 9.

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 14.07.06

In effetti mi mancava la tua presenza, caro Angelo e non sapevo se fosse per colpa mia o per “colpa” tua se la nostra corrispondenza si è arenata. Nel frattempo ho iniziato una specie di forum con lo staff ISUFI di beni culturali e ambientali (incluse le studentesse) per parlare proprio di cultura. E sento la tua mancanza in una cosa del genere. L’unico che risponde è A. (che ho avuto la fortuna di conoscere per merito tuo) e, una volta, il rettore. Però le studentesse rispondono, e mi dà grande soddisfazione. Non so neppure io per quale motivo il rettore mi abbia cooptato nell’ISUFI, ma sono molto contento. Sono anche riuscito a far passare a beni culturali una nostra studentessa che era finita nell’area giuridica. E sono contento di vedere quanta affinità ci sia tra me e il settore umanistico. Tutte le persone con cui ho a che fare sono per me stimolanti, mi coinvolgono in attività che fanno pensare, e trovo tanta voglia di un confronto di idee, di intelletti, di modi diversi di vedere il mondo. Partiamo da presupposti molto differenti, abbiamo percorso strade che sembrano non incontrarsi mai e invece basta parlarsi un po’ e si trovano così tanti punti di incontro. Ed è così sterile il monetizzare tutto, pensare che tanto fondi per queste ricerche (dovevo mettere le virgolette, ma poi ho capito che no, sono ricerche e basta) non ce ne sono. Non si possono neppure formalizzare all’interno di progetti veri e propri. La ricerca si fa mettendosi assieme e parlando (o scrivendo, come facciamo noi) in libertà assoluta. Si gira a vuoto per un po’, poi, inaspettatamente, si trovano spunti che portano lontano, che aiutano anche nel proprio particulare. Uscire dagli steccati e vagare senza limiti fa bene. Chiacchierare non è una perdita di tempo. Se lo si fa con le persone giuste. Ripetere ad altri cose per me scontate mi fa capire che, alla fine, non sono così scontate e, a volte, non sono neppure giuste. E se non avessi cercato di spiegarle avrei continuato a pensarle giuste. Così a volte succede he io riesca a convincere qualcuno della giustezza del mio pensare, arrivando poi a convincere me stesso che invece ho torto. Siamo molto legati ai fatti e poco alle parole, portati forse dal vecchio slogan “fatti, non parole”. Ma tutti gli animali fanno fatti. Noi siamo l’unico animale che produce parole. Una ragione ci sarà. Ci manca il tempo. Il tempo per fermarci, per discutere. Ma poi non è vero. Il tempo per parlare della testata di Zidane lo troviamo. Insomma, sono contento che riprendiamo. E sarò contento di leggere la tua cosa. Ho anche letto (ma in parte, lo confesso) il libro che mi hai mandato.

Oggi, il buon A. mi ha coinvolto in una serata al Rettorato, sulla lettura, sui modi del leggere. E io veramente non so che dire. Me lo inventerò sul momento. Ma queste cose che ti sto scrivendo mi stimolano a chiarirmi le idee. Io di solito leggo per informarmi. raramente leggo per divertirmi. E quel che si legge per informarsi è impersonale, essenziale, volto ai fatti. Un lavoro scientifico ha un suo stile, standard. Deve veicolare informazione. Quel che vale non è la forma (che deve essere sempre quella) ma il contenuto. Come se la forma non servisse più se non a veicolare. Anche qui c’entra la bellezza. Noi scriviamo in modo efficace (mi riferisco agli “scienziati”) ma non ci interessa la bellezza dello scrivere. Certo, bisogna essere diretti, non ambigui, bisogna portare le informazioni col minor numero possibile di parole, perché ogni giorno dobbiamo acquisire quante più informazioni possibile, perché loro, le informazioni, sono importanti. E non ci deve distrarre la bellezza di come sono scritte. Darwin, il più grande di tutti noi, decise di scrivere il suo capolavoro in modo che tutti potessero leggerlo. Un libro vero, con un suo contributo di bellezza, di eleganza. Per tutti. E per essere per tutti, appunto, il libro deve anche essere bello.

E mi viene in mente il mio amico Zappa. Faceva musica bella da sentire, non solo originale da un punto di vista formale. Le sue invenzioni, magari affascinanti per un critico musicale, erano anche belle per chi di musica non capisce nulla. Ma prova piacere a sentire l’aria che vibra. E non vuole sapere perché gli piace. Zappa, nella sua biografia (divertentissima) racconta come, da piccolo, provasse molto piacere a sentire un certo tipo di musica. Così andò dal suo professore di musica e gli chiese perché. Cosa c’è in questa musica che la rende così piacevole alle mie orecchie? E il maestro gli spiegò. Forse erano biscrome, non so. Zappa non si accontentò di provare piacere. Scavò nella bellezza e trovò il bandolo. Da lì si mosse e ne produsse tanta, per conto suo. Una volta spiegò come componeva. Lui componeva sul palco, facendo assoli improvvisati di chitarra. Praticamente chiacchierava. E non aveva uno schema, un ritmo costante. Quando parliamo modifichiamo il ritmo. Passiamo da un’intonazione a un’altra. Non ci sono steccati. Altrimenti si recita. Ed è così stucchevole il recitare. Sono bravi quelli che recitano senza che si veda che recitano. Pochissimi riescono a farlo, in Italia. Per chiacchierare con la sua chitarra aveva bisogno di interlocutori, il buon Frank. Essenzialmente un basso e una batteria. E dovevano rispondergli. Capendo immediatamente dove andava. Quando parliamo non sappiamo quel che diremo. E se c’è un interlocutore quello cambia le carte in tavola. Non possiamo sapere quel che dirà. E non c’è tempo per pensare alla risposta. La risposta arriva mentre la pensi, e la pensi momento per momento, senza avere predeterminato quel che dirai. E questo innesca pensieri negli altri. E si va avanti così. Zappa registrava tutte le sue improvvisazioni, poi le orchestrava. Un giorno un tipo, tale Steve Vai, gli mandò le trascrizioni, nota per nota, dei suoi assoli. Ha un orecchio assoluto, Steve Vai. E Zappa lo assunse nella sua band.

Con la London Symphony Orchestra Zappa ebbe un’esperienza bruttissima. Quelli suonavano solo musica morta, fissata sullo spartito. Recitavano, non c’era spazio per l’improvvisazione. Solo note refrigerate, congelate. Perfette, ma morte. Vabbè, forse mi son fatto prendere la mano. Ma ora so cosa dirò stasera, forse. Oppure dirò cose ancora diverse. Dipende anche da quel che dirà Carlo Alberto. Ora torno a lavorare, questo è stato il mio divertimento per oggi pomeriggio, grazie per avermene dato occasione

n.

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 14.07.06

Caro Nando,

tu scrivi conversando e io assaporo invece, in questa fase della vita, il valore della brevità. Vorrei dire anche della concisione (l’”esattezza” di Calvino). Ho appena deposto i “passage” parigini di Benjamin, un altro affabulatore, un po’ come te, un collezionista  di cose le più disparate, che pretendeva di far parlare i dettagli per  illuminare il passato e per schiarire il suo e nostro XX secolo. Ti collocherò perciò, per la comodità della mia mente seriale e classificatoria, nel girone degli estropici, da intendersi come  promozione per la capacità dislocativa  del tuo estro. Tutt’altro che chierico disciplinato, padrone di un solo scaffale. Sarà per questo che il rettore ti promuove in quella strana cosa arabeggiante e  anche un po’ turchesca che hanno chiamato isufi. Se così è, se tra gli estropici accetterai di essere benevolmente catalogato, dovrai un po’ cautelarti, perché i nostri come sai sono ambienti entropici. Sarà l’ipocondria, ma ai giullari preferisco la quiete dei miei classici, perciò non invidio il tuo pomeriggio, anche se mi auguro per te che sia soddisfacente.

Certo, parlare fa bene: è un modo per condividere, scambiare, continuare ad apprendere, sentirsi partecipi. I forum, le chat, i blog sono buoni canalizzatori di socialità. E surrogano il deficit identitario, di cui abbiamo assoluto bisogno. Ma tutto questo parlare è babele, e dai telegiornali arrivano notizie drammatiche dalle straziate regioni del Medioriente. Come vedi la mia fiducia è a zero gradi. Ciò non mi impedisce di portare ammirazione per il tuo Zappa, che ho tenuto in giusta considerazione nel librino che riceverai lunedì. Ecco, lì c’è un’altra tonalità dell’àistesis, basata sul sound, decisivo per la fusione dei diversi. Ma per la musica ci vuole un orecchio. E il silenzio, che dimissiona le parole e attiva il sentire.

E ora vado al mio posto al sole, la fiction che insegna ad ammettere i propri errori e a chiedere scusa, quando c’è da farlo.

a presto

a.

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 17.07.06

Da tassonomo, classificatore di mestiere, caro Angelo, accetto di  buon grado di farmi classificare. Anche io sono per la concisione, nei miei scritti tecnici. Word è un bel supporto. Conta le parole. Io scrivo una cosa, conto le parole, e poi mi propongo di ridurla alla metà, dicendo ovviamente le stesse cose. Di solito ci riesco, e mi piace persino fare questo esercizio di autoconcisione. Chi legge i rapporti tecnici su una ricerca non vuole perdere tempo, e vuol capire subito. Non interessa il come, interessa il cosa viene  comunicato. Il come è standard, e deve essere breve, in modo che in  un’unità di tempo si possano immagazzinare più informazioni. Non c’è spazio per scrivere in modi alternativi. E’ per questo che ho scritto  il libro sulla bellezza. Senza pormi limiti di concisione. Ed è per questo che Einaudi lo ha rifiutato. Lo voleva in scientifichese. Allora lo avrebbe considerato. Ma io scrivo sempre in scientifichese, per pochi chierici con un solo scaffale, e mi piacerebbe magari potermi confrontare anche con chi non riuscirebbe a leggermi se mi esprimessi come mi si chiede. E come so fare. Ora che mi dici di aver citato Zappa nel tuo scritto mi incuriosisci ancor di più. 

Quarant’anni fa il buon FZ ha pubblicato il suo primo album, Freak out. E ha molto a che fare con quel che diciamo. Intanto è il primo album doppio mai pubblicato. Ci sono tante canzoncine da tre minuti, ma ce ne sono anche di lunghissime. La quarta facciata è una sola canzone. A quei tempi la musica popolare imponeva durate di tre minuti. Con una struttura standard. Il buon Frank ci stava stretto in quella concisione. La poteva ottenere, no problem, ma aveva anche bisogno di più tempo per dire quel che voleva dire. La casa discografica pubblicò anche copie ridotte ad un singolo album, ma poi FZ si impose e riuscì a fare di testa sua. Subì molti rifiuti, il più bruciante di tutti etichettava la sua musica con questo verdetto: no commercial potential. E usò spesso queste tre parole che lo condannavano all’irrilevanza. In effetti non ebbe mai un grandissimo successo commerciale con i suoi settanta dischi, presi uno ad uno. Ma io credo che tra cento anni continueranno a esistere, mentre gli altri piano piano andranno nell’oblio. Certo, sarà uno smacco per lui. Il buon FZ usava spesso una frase di Edgar Varese: the present day composer refuses to die. Non l’ha mai spiegata, ma forse ho capito. Chissà se non mi sto ripetendo, perché è una cosa che dico spesso. I musicisti vivi sono quelli che non sono stati fagocitati dall’establishment musicale, quelli che non sono rappresentati nei cartelloni dei teatri prestigiosi. I morti, invece, sono continuamente offerti: Mozart, Bach, Verdi. I soliti. Uno resta contemporaneo, e rifiuta di morire, fino a quando non viene inglobato nell’istituzione. Uno scrittore è vivo fino a quando non arriva in un’antologia della scuola. Certo, in quel momento viene riconosciuta la sua grandezza ma, paradossalmente, perde la sua carica di novità.  L’avanguardia non può essere riconosciuta come valida da tutti. Se lo è, non è più avanguardia. L’artista vero, quello che apre nuove strade, è destinato all’incomprensione. Quando viene capito è ovviamente contento, e si gode il suo successo, ma viene immediatamente meno il suo essere avanguardia. Di solito gli avanguardisti riconosciuti dall’establishment diventano scimmiottatori delle loro provocazioni iniziali. I più sinceri arrivano a rifiutare premi e onorificenze, come han fatto alcuni attori che hanno rifiutato l’Oscar. Mi viene in mente George C. Scott. Ci vuole un sacco di coraggio per rifiutare il consenso dei propri simili. Dopotutto siamo animali sociali e viviamo per stare assieme. quanto al nostro comune amico e collega A., sì, a volte sembra un giullare perché fa ridere nella sua enfasi poetica. Ma lo percepisco come sincero e, ora che mi sono abituato al suo modo di rapportarsi con gli altri, riesco a interagire con lui senza problemi di comunicazione. Anche se i nostri modi di sentire sono diametralmente opposti-

Alla prossima

n.

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 31.07.06

Mi sono arreso, caro Angelo, e prima di partire sono andato alla libreria Palmieri e ho comprato un libro di Mc Ewan. Ho preso “cani neri”, se non altro perché aveva un titolo zoologico. Strano, ma alcune cose raccontate in quel libro sono capitate anche a me. Così, in quel di Genova, sono andato in una libreria un po’ seria e ho comprato Saturday, nella versione originale. La traduzione di cani neri, anche se di Einaudi, non mi aveva molto convinto. Se posso preferisco leggere gli originali. 

Almeno non è palloso come Joyce, il Sabato. L’ho quasi finito. Ma ora le vacanze sono terminate e non riesco più a leggere, e poi i quattrocento email che mi aspettavano mi stanno facendo morire…

n.

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[La risposta di Semeraro è andata perduta]

12.10.06

Caro Angelo

ho appena finito l’organizzazione dell’assemblea generale del network  europeo di eccellenza sulla biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi. Non ho guardato la posta, ed ecco i soliti  duecentocinquanta e mail.- molti sono di generosi che mi vogliono allungare il membro, o far fare affari colossali, o mi comunicano di vincite mirabolanti a lotterie a cui non ho mai partecipato. Ma molti sono messaggi veri, come il tuo. Capisco bene quel che dici. Dell’ansia del leggere. L’ho superata. Ho una grande biblioteca. Prima leggevo tutto quel che compravo. Ma non  si finiva mai. Ora ho capito. Non posso leggere tutto. Ma è bello averli i libri. Ognuno ha il suo spirito, il suo odore. Li sfoglio, leggo quel che mi incuriosisce e mi interessa. So quel che contengono, e so come trovarlo. Questo mi basta. Quando mi sarà necessario leggerò quel che dovrò, ma non sarà mai possibile legger  tutto. Basta, è come con le fanciulle. Quando ero ragazzo avevo un  obiettivo: trombarmele tutte. Per un po’ affrontai questa sfida (tutte vuol dire tutte quelle con certi requisiti fisici) con grande  incoscienza e devo dire che dopo un inizio incerto mi ritrovai a  battere record mondiali. Poi un giorno, dopo molto tentare, capii finalmente una cosa. Non sarei mai riuscito a trombarmele tutte. Ed è inutile tentare l’impossibile. I fisici, per molto tempo, tentarono di ottenere il moto perpetuo. poi capirono che non è possibile, e si fermarono. Ecco, trombarsele tutte o leggere tutti i libri è come il moto perpetuo. Non è possibile. Ottenuta quella saggezza capii che era venuto il momento di sposarmi: avevo 42 anni. Meglio ritirarsi con il titolo che finire la carriera sconfitto dal primo pivello. Quanto ai libri di Repubblica, sono un fregatura: ho comprato  l’enciclopedia, e va bene, e anche la storia. Poi ho visto che sono opere degli anni settanta, ristampate. Ci vendono roba di quarant’anni fa come se fosse roba nuovissima e attualissima. Ditecelo che è una ristampa della UTET, così lo sappiamo. Invece pare che siano fatte proprio per noi, ora! Non è vero! L’ho anche scritto  al buon Scalfari, ma non si è degnato di rispondere…

Quanto a Giuda, è ovvio che se uno crede a queste cose, Giuda è l’apostolo più importante di tutti. Quel che è avvenuto è avvenuto per volere divino e quindi il disegno divino si è compiuto per quel tradimento. Il buon Giuda avrebbe potuto fare il santo per l’eternità, magari  senza neppure subire il martirio, e invece si è impiccato alla biforcazione di un ramo (per quello si dice forca, non c’era corda….). Ha sacrificato la santità perché il volere divino si compisse: è il più santo di tutti. Però c’è un piccolo dettaglio, io a queste cose non credo per nulla, e comunque mi interessano poco. Quanto ai furbetti del partitino, ci sono dappertutto. Mio padre è  stato tra i fondatori della cooperativa Negro, dei portuali di Genova, negli anni sessanta. Era nel consiglio di amministrazione. Si accorse che c’erano dei furbetti e li denunciò al partito. E indovina? è stato censurato lui, non loro. Perché parlava male del partito. Non si è mai ripreso, ed è ancora arrabbiato per questo. Non ti dico quel che ha passato con i sindacati. Tutti compagni. La neutralizzazione dei furbi è impresa difficilissima, comunque speriamo che qualcosa avvenga.

Intanto ti comunico che una nostra studentessa è stata  presa nell’ISUFI. L’ho vista nel gruppo che doveva andare a fare cose legali e le ho detto di venire nel quarto settore, del patrimonio culturale, dove io mi occupo della parte ambientale: è una ragazza molto in gamba. Ed è un bel biglietto di presentazione per scienza della comunicazione. Io non conosco tutte le storie che riguardano la nostra università, e non so dei tuoi rapporti con altri del campo umanistico. Per il momento sto andando d’accordo con tutti, ma forse perché abbiamo interessi molto lontani. Mi piace interagire con gli umanisti, tantissimo. Purtroppo gli scienziati, tra virgolette, spesso sono aridi e non ci sono cose da dire, a parte quelle tecniche. Non vedo entusiasmo, se non per qualche macchina nuova con cui giocare. Devo stare attento, però, perché io sono un dilettante nel vostro campo, e il rischio del pressapochismo, del velleitarismo, è grande. So quanto è richiesto per raggiungere certi livelli, e io non  soddisfo di sicuro i requisiti culturali necessari, quando parliamo  di cose “vostre”. L’unica cosa che conosco abbastanza bene sono le  meduse…

Un abbraccio

n.

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12.10.06

Caro Nando,

sono appena tornato da Milano, dove in Triennale sono andato a vedermi oltre a Linch insospettatamente (per me almeno) versatile nei linguaggi artistici (fotografia, pittura, designer, ecc.) una esposizione sui magnifici anni ’70. Il pezzo che tu hai scritto me li hanno evocati. Anche lì si parte dal più lontano come eravamo nel decennio precedente. Mi piace questo tuo modo autobiografico di affrontare problemi seri, perciò – almeno per quanto mi riguarda – il tuo pezzo va pubblicato così com’é (fatta eccezione per quel “pisquano” che devi chiarirci cos’è, non avendolo trovato nel nostro vocabolario nazionale, e quei testimoni di Genova negli ultimi righi potrebbero essere di Geova, a meno che non si tratti di testimoni della tua città natale). Sono contento di avervi trovato quel fuoco di attenzioni, che segnalavi in una precedente occasione, sul concetto di limite (alla crescita). Lo avevo a mia volta proposto, ma mi sembra che “reincanto / disincanto” lo comprendano, e col tuo pezzo si capisce bene come e quanto.

Se proprio vuoi tenerti un po’ meno sul gargantuesco consiglierei di lascia correre le mutande del papa e la cagata fantozziana.

Un caro saluto e ancora BRAVO!

a.

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                                                                                                                                                                                    13.11.06

Mio caro Angelo

ho fatto tutte le correzioni che hai proposto. E anche di più. Pisquano lo trovi eccome, basta andare su google e scriverlo. C’é anche su Wikipedia. Comunque l’ho tolto. Ho tolto la cagata pazzesca (che però era una citazione) e anche il vaffanculo day. Ho messo i puntini nelle parole del gatto. Ho aggiunto qualche pezzettino, ma ho tolto le mutande del papa.

Ti ringrazio perché mi fa molto piacere che tu approvi il mio scritterello. E mi fa piacere che il tuo giudizio sia positivo. Vedi, io queste cose le scrivo per te. Tu mi dai un tema e io lo sviluppo. Questo che ho scritto non l’avrei mai scritto se tu non me  lo tiri fuori. Vedere che il committente, si fa per dire, è soddisfatto non può che farmi molto piacere. e quindi ti ringrazio. Sai com’è, quando ho visto quel titolo proposto, che non avevo mai sentito o, se l’avevo sentito me n’ero dimenticato, mi son detto: e ora che scrivo? che ho io da dire su queste cose? Niente! Mi spiace per Angelo, ma questa volta non posso far nulla. Poi ho aperto un file nuovo e ho cominciato a scrivere. E è venuto fuori questo articoletto. Di getto, senza pensare.

Grazie di avermelo tirato fuori. Ciao

n.

(continua)

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