Su “La guerra che è in noi”, a cura di Silvano Trevisani

L’ouverture di questa polifonia in versi è affidata, quasi come auspicio di un rinnovato dialogo fra le parti, a un poeta di lingua ucraina (Anatolij Dnistrovyj, già autore, per la stessa casa editrice, di Inattesa è giunta la guerra, 2022) e uno di lingua russa (l’estone Igor’ Kotjuch), tradotti per l’occasione da Paolo Galvagni. Il progetto editoriale coinvolge inoltre poeti italiani noti e ormai di lungo corso come Franco Buffoni, Davide Rondoni, Ennio Cavalli, i pugliesi Vittorino Curci e Giuseppe Goffredo, Franco Arminio, che ritorna su temi bellici dopo il recentissimo Quest’anno poche rose in Ucraina. Poesie contro la guerra (Bertoni, 2022), e due poeti più giovani, i già citati Benassi e Colonna.

L’antologia ci esorta a uscire dalla comfort zone di spettatori più o meno assuefatti alla violenza che entra tutti i giorni nelle nostre case dagli schermi televisivi; a liberarci insomma da quella ‘sindrome del videogame’ che ci porta a considerare la guerra come un risiko terribile e insensato, sì, ma che in fondo non ci riguarda più di tanto, perché non sembra reale. Perciò partecipare, provare compassione (nel senso etimologico di comunanza di dolore), «prendersi in carico il punto di vista altrui», come scrive Affinati in prefazione, è l’atteggiamento che accomuna tutti gli autori presenti nel volume: «Stringi la mano a chi è sul fondo / della sua voragine, / parla solo con quelli», si legge in una delle poesie di Arminio.

Fra le ferite provocate dal conflitto, una delle più profonde e immedicabili ha a che fare con un aspetto condiviso sia da chi la guerra la racconta in alcune drammatiche ‘istantanee’ dal fronte – Dnistrovyj, per esempio, che descrive con brevi ma incisivi tratti una waste land in cui si staglia una coppia di amanti teneramente in cerca di «parole sul futuro», sotto un cielo irenico, fuori sincrono rispetto a quelle rovine – sia da chi lavora su immagini più oblique. E cioè la nostalgia per una serena normalità che appare ormai definitivamente oltraggiata, irrecuperabile; e il cui ricordo adesso, sotto lo scempio delle bombe, è percepito come qualcosa di «indecente», perché «il drago [la guerra] ha rubato il giorno / ha bevuto tutta l’aria» (Kotjuch).

Ma siccome, come ricorda Goffredo, «è per un filo d’erba che il mondo vive», non certo per le strategie militari dei grandi comandanti – e «si sa quante esistenze può ingoiare / la devozione del soldato semplice / a un solo uomo con i gradi» (Buffoni) –  né per il delirio di onnipotenza dei despoti  – Putin, anzi «Ras-Putin», è definito da Cavalli come «l’Orco che bussa a copi di mortaio» – il recupero immediato di quella quotidianità, magari un tempo ritenuta anche dimessa o banale, appare ora come un comandamento, un’esigenza non più derogabile.

Specie rammemorando, come fa magistralmente Buffoni, una scena raccapricciante di una delle tante guerre del passato prossimo: «“Sono ostriche, comandante?” / Chiese guardando il cesto / Il giovane tenente, / “Venti chili di occhi di serbi, / omaggio dei miei uomini” / Rispose sorridendo il colonnello. / Li teneva in ufficio / Accanto al tavolo. / Strappati dai croati ai prigionieri».

Quale contributo può dare, allora, chi scrive poesie, per far tacere una volta per tutte l’insensata follia della guerra che non solo ci circonda, ma che è in noi, come ricorda il titolo dell’antologia? E che è diventata, come sembra indicare Cavalli, una condizione permanente del nostro spirito, una coltre di zolfo, spessa, perenne, che ottunde le nostre coscienze: «Se c’era stato un casus belli, se n’era persa la traccia. Eserciti contrapposti, terreno degli scontri, Paesi confinanti, Paesi neutrali, foglie morte e bucaneve, tutto era oscurato dal fumo e dalla polvere».

«I poeti possono avere visioni e offrirle alla politica, non altro», risponde Rondoni. Il che è poco, forse. O forse è molto; dipende, come sempre, dalla cura che intendiamo riservare al loro ascolto.

«Dov’è il finimondo? alle spalle o davanti?/ non siamo mai usciti dalle trincee», scrive Curci in uno dei suoi ben calibrati, sorvegliatissimi testi. Le «armi della poesia» – mi viene ora in mente questo pseudo-ossimoro di Pasolini – possono forse servire ad abitare il trauma della guerra, e a superarlo, o a disertare, in attesa di una nuova palingenesi. Assieme a Curci, allora, ci auguriamo che questo accada il prima possibile: «presto passeremo dallo sterile al fertile / dal tremore della mano a una scrittura di fuoco».

[«Repubblica Bari», 24 gennaio 2023]

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