Dodici ritratti

Terzo ritratto: Yasunari Kawabata

Mi colpisce e mi commuove lo scrittore che, in ginocchio, concentratissimo, traccia segni col pennello sul grande foglio che gli sta innanzi.

In tal modo rendere omaggio alla scrittura ch’è segno tracciato contemporaneamente nella mente e dalla mano. Ritualità forse persa in Occidente, ma l’affacciarsi (lo sporsi, l’azzardarsi) sul foglio bianco posa sulla soglia sottilissima tra violazione e creazione, tra violenza e bellezza: si viola il biancore del foglio, si distrugge il suo essere ancora intatto, eppure l’atto è necessario perché i segni si diano a vedere, perché il racconto prenda avvio…

Quarto ritratto: Mario Luzi

Dapprima ho “tagliato” la fotografia separando il poeta dal gruppo di persone che sono con lui e isolandolo contro il muro di mattoni e pietre; poi ho pensato che non era né giusto né sensato, visto che la fotografia ritrae un intero gruppo in una strada senese e dal momento che Mario Luzi amava stare con le persone. Stavo tradendo e violentando un ritratto che dice, con efficace spontaneità, di un uomo e di un poeta che scriveva per condividere e dialogare.

Sono così tornato alla fotografia originale per continuare a immaginare la festosità di quell’andare insieme nelle strade di Siena «che sempre mi guarda».

Il poeta pensa il pittore che, aggirandosi per Siena-comunità-amicale-di-sguardi, immagina una Maestà luccicante di occhi e che, lungo i saliscendi di levigate pietre, spia il cielo tra le cimase, intravede i merli del Palazzo civico, le fasce nere e bianche del Duomo.

Quinto ritratto: Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia raccolgono insieme le ciliegie

Conversare, leggere, scrivere lettere, scrivere romanzi è raccogliere insieme ciliegie (è giugno, è già estate, è nel Sud).

In molte fotografie Sciascia e Bufalino, seduti l’uno accanto all’altro, ridono; qui raccolgono insieme le ciliegie e il grande paniere contadino le accoglie tutte così come la mia libreria in noce scuro accoglie i libri di entrambi – raccolgo ciliegie e nel loro amaro miele sento quanto manchino Bufalino e Sciascia a quest’Italia sempre più triste (sanno ridere ancora gli Italiani?)

A ciascuno il suo secondo i suoi meriti (e demeriti), certo, a ciascuno la sua dose di luce filtrata tra le foglie del ciliegio se la si sa vedere, se la si sa ricevere.

Sesto ritratto: Jouer de la pétanque (ovvero Agamben, Char, Heidegger)

I seminari del Thor erano anche lunghe passeggiate in gruppo e soste come questa durante la quale Heidegger, Char e gli altri osservano gli anziani giocare alla pétanque; Giorgio Agamben, giovanissimo, s’incuriosisce di ogni cosa che gli accade intorno, sa (lo impara dai due Maestri) che ogni azione, ordinaria all’apparenza e anonima, appartiene al pensiero in atto.

La luce dell’estate provenzale avvolge gli anziani giocatori – non se ne conoscono i nomi, ma non stupirebbe venire a sapere che alcuni di loro combatterono nel maquis, che altri furono costretti a lasciare l’Algeria ormai indipendente, che alcuni furono maestri nelle scuole rurali: la tormentata, contraddittoria storia di Francia (e d’Europa) può stare anche in una fotografia in cui la filosofia è vita quotifdiana.

Settimo ritratto: Carol Dunlop Cortázar

C’è lo specchio che riflette Julio mentre fotografa Carol – è immagine perfetta dello scrivere (leggiamo sempre un testo-specchio nel quale chi ha scritto ha guardato il reale restituendolo attraverso il mezzo del linguaggio) (c’è sempre un terzo sguardo che legge lo scritto ch’è, a sua volta, sguardo secondo).

I due scrittori stanno viaggiando con il loro furgone Volkswagen di colore rosso lungo l’autostrada Parigi-Marsiglia e hanno fatto sosta in un motel; Carol fissa l’obiettivo che ne riprende contemporaneamente il viso, il suo riflesso ovviamente di spalle e, distante, lo scrittore con in mano la macchina fotografica: quello che è nello specchio posizionato alle spalle di lei le sta, in realtà, di fronte in un gioco di spazi e di distanze – Carol non vede lo specchio e anche lei, come noi, potrà vederne i contenuti soltanto nella fotografia, in un tempo successivo, dissolto ormai l’istante della posa e dello scatto.

Ottavo ritratto: Ferdinando Scianna fotografa Leonardo Sciascia

Amicizia. Era una questione d’amicizia e di complicità. Poteva accadere nella Chiesa Matrice di Racamuto davanti alla statua del Cristo morto nella teca di vetro o a Parigi, nello spazio dilatato del Grand Palais. Ferdinando inquadrava e scattava. L’obiettivo catturava sempre un sorriso ironico oppure uno sguardo acutissimo.

Qui Sciascia si fa accogliere dal Grand Palais, misura con lo sguardo lo spazio svuotato e immane – il punctum della fotografia (direbbe Roland Barthes) è l’ombrello, forse emblema di un Meridionale che ha sempre timore che al Nord piova (ma forse pioveva davvero a Parigi quel giorno), oppure bastone che puntelli e annulli il senso di vertigine che potrebbe afferrare chi si affacci su quello spazio enorme, o travestimento della sciasciana antenna-sonda-stiletto che, con acutezza e intelligenza, fora la materia del reale per conoscerla.

Nono ritratto: Mimmo Jodice fotografa gli atleti di Ercolano

Gli atleti di Ercolano gli parlano, pupille inabissate dentro due millenni.

Fremono sulla linea di partenza – il vulcano gli è stato padre ingeneroso e perverso, come Urano divoratore dei figli.

Ma nella camera oscura essi riemergono adesso alla mente – fotografati ossia guardati – ammirati – contemplati.

Se la fotografia è anche sguardo, questi occhi sono sguardo e abisso, vertiginosa distanza e insondabile precipizio (anche la corsa, la frenesia dei muscoli in movimento, lo slancio verso la mèta sarà fuoriuscita dal tempo, terrestre eternità).

Decimo ritratto: Francesca Woodman

Il senso profondo del ritratto non è descrittivo, ma esso è l’intuizione, repentina e felice, di un gesto, di un luogo, di una sfumatura d’ombra.

I muri scrostati e butterati dell’ex Pastificio Cerere contro i quali erano rimaste le ombre e le macchie degli scaffali rimossi e i fori dei chiodi furono accoglienti pagine sulle quali sospendere il proprio corpo vestito di nero – altrove (voglio dire: in altre stanze) si sarebbe sospesa o accovacciata nella luce di Roma o di New York.

Francesca Woodman sceglieva il proprio corpo non per narcisistica vanità, ma per porlo, cosa tra le cose, dentro stanze che l’obiettivo fotografico perimetrava con l’autoscatto: la stanza mentre vede sé stessa.

Undicesimo ritratto: Tilda Swinton e John Berger a Quincy

Schon lange will ich über die Dauer schreiben,

keinen Aufsatz, keine Szene, keine Geschichte –

die Dauer drängt zum Gedicht.

Will mich befragen mit einem Gedicht,

mich erinnern mit einem Gedicht,

behaupten und bewahren mit einem Gedicht,

was die Dauer ist.

Da tanto voglio scrivere della Durata,

non un saggio, non un pezzo per il teatro, non una storia –

la Durata spinge alla poesia.

Voglio interrogarmi con una poesia,

affermare e preservare con una poesia

quello che la Durata è.

(Peter Handke, Poesia alla durata, traduzione italiana di Hans Kitzmüller, Einaudi 2010)

Quando Tilda Swinton fa visita a John Berger per girare uno dei quattro episodi del documentario The saisons in Quincy (2016), la durata si manifesta sotto forma di amicizia e di dialogo: nella casa di Berger, tra lo studio e la cucina, si svolgono le conversazioni sui rispettivi padri e sulla guerra, sull’arte e sulla politica; Swinton taglia le mele, Berger le fa il ritratto, la luce, i ritagli appesi alla parete (ce n’è anche uno di Bento Spinoza), il tavolo, gli oggetti d’uso quotidiano acquistano e mostrano un’affettuosa presenza, si conquistano una durata.

In questo fermo immagine entrambi sono intenti a guardare fuori dalla finestra e davvero soltanto la poesia sembra potere adeguatamente dire l’attesa e l’attenzione, la complicità e la tenerezza, il mutare della luce, l’ordine terrestre e celeste delle cose.

Dodicesimo ritratto: Vittorio Bodini

Amo pensare che il cappello indossato dal poeta sia proprio la lobbia di Masoliver e che la casa in Spagna, densa di segreti e di enigmi, ancora conservi memoria dei passi e dei silenzi di Bodini.

«Tu non conosci il Sud», ma case di calce, soprabiti ben chiusi per proteggersi dal libeccio dell’Adriatico in inverno, le mani infossate nelle tasche (mani che scrivono di lune e di carnevali di pietra, di camion coi fari accesi che transitano per il Capo di Leuca) stanno tutti in un ritratto fotografico nel quale la gamba piegata contro la ringhiera del lungomare potrebbe essere la stessa con la quale il monaco rissoso, datosi una spinta, volava tra gli alberi – la poesia non conosce soluzione di continuità tra realtà e immaginazione.

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