Desidero continuare a scrivere, e di fatto scrivo il mio diario, sebbene dica di volermene astenere. Questa è la prova che non è vero quanto ho scritto in precedenza, e cioè che il diario è legato al luogo in cui lo si scrive, bensì alla persona che lo scrive.
Leggendo lo Zibaldone di Leopardi, rifletto anch’io sul rapporto poesia-prosa. Esso è assai complesso, poiché da una parte l’una e l’altra vuol essere padrona in casa sua, e dall’altra universalmente si riconosce che qualche relazione tra le due ci deve pur essere. Propongo pertanto di dare a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio. Vivano pure separatamente, come libera chiesa in libero stato. Io chiuderà un occhio e anche due sulle loro bizzose dispute e tresche. Una volte misconosciute le loro ragioni, la supponenza di costoro diminuirà, e in cambio aumenterà la loro complicità, cosa in sé fruttifera.
Bisogna bruciare molti libri, prima di scriverne uno. E a chi dice che un libro nasce da molti libri, colloquiando con essi, dico che in realtà un libro nasce dalle ceneri dei suoi predecessori, ed è fiamma di fuoco che li consuma. Con qualche eccezione, si dirà. Invero è proprio questa la tradizione, poiché la traditio lampadis non è che un fuoco perenne che brucia i libri inutili, e così si rinnova. Da questo puoi dedurre la necessità dei libri inutili, ma anche l’importanza del bruciarli. Si legga la storia di come il curato, la nipote e il barbiere brucino i libri di Don Chisciotte, salvando solo quelli degni d’essere letti.
Senso di impudicizia nel parlare della propria poesia, spiegandola a voce alta, nel tentativo di riferirla a situazioni concrete della propria vita reale. Sentimento provato vedendo in televisione Bertolucci intervistato, che anche recita maldestramente i propri componimenti, mentre studenti ben educati lo stanno ad ascoltare senza fiatare, ma visibilmente imbarazzati. In realtà solo la poesia spiega la poesia. E già la prosa rischia di essere impertinente. Infine, a ciascuno il suo mestiere: il poeta scriva, l’attore reciti. Con ciò non escludo che le due capacità possano convivere nella stessa persona.
In questi giorni passati ho anche riscritto una mia poesia scritta più di dieci anni fa dal titolo Ipotesi notturna
Inoltre, riflettendo sul modo in cui nasce in me lo stimolo alla poesia ho scritto una frase che, pur avendo l’aspetto di un proclama futurista, mi sembra che abbia in sé un notevole nucleo di verità. La frase è questa:
Aboliamo il primo termine di paragone.
Difatti nella composizione poetica, mi capita di avere l’imput non dal primo termine di paragone, bensì dal secondo. Scrivo ad esempio:
come il miagolìo di gatti innamorati
che è il secondo termine di una similitudine cui manca il primo termine, che potrebbe o non potrebbe venire, senza per questo decurtare della sua bellezza il paragone su scritto.
Ho poi scritto alcune poesie che riporto di seguito:
Giovinezza è finita:
perché dovrei vegliare fino all’alba?
Forse ho scritto questi versi memore delle lunghe veglie a cui noi studenti ci sottoponevamo durante i primi anni universitari, quando vedere l’alba dalla fortezza di Albornoz a Urbino e poi far colazione al bar, prima di andare a dormire, era titolo di vanto coi colleghi.
Ho scritto anche un canto dell’amicizia perduta, che intitolerò proprio così: Canto dell’amicizia perduta.
Ho scritto una poesia per chi nascerà, se Dio vuole, a giugno, un esserino ora senza nome, che vive solo nel grembo di sua madre. Do questo titolo: Tu troverai…
Infine un autoritratto animalesco, dal titolo Come un animale
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L’editore Congedo di Galatina nei prossimi giorni pubblicherà il libro di mio padre dal titolo Memorie di Galatina. Durante le vacanze di Natale abbiamo definito l’accordo (le “trattative” le ho condotte personalmente).
10 gennaio 1998
Ho portato con me, dopo averli raccolti, gli articoli di mio padre su Leopardi, che ho intenzione di ricucire insieme, e farne un libro, così come ho fatto con gli articoli di argomento galatinese. Insomma, mi posso definire senza tema di smentita, e con un po’ di autoironia, il Platone di mio padre, o l’Heidegger di Nietzsche, poiché sto svolgendo la stessa funzione che i due filosofi svolsero rispettivamente nei confronti di Socrate e Nietzsche (si licet parvis componere magna).
Mi assumo volontariamente questo compito poiché vedo che mio padre è anziano (egli è nato nel 1921, il 27 di marzo) e con non pochi acciacchi che ne impediscono la piena attività. Egli è lucido, ma stanco, e se non mi incaricassi io della ricostituzione dei suoi lavori, non so proprio chi potrebbe farlo.
Riscriverò al computer i suoi articoli, espungendo tutto ciò che a mio avviso non va bene, e che per lo più è addebitabile al fatto che gli articoli apparsi sui giornali locali non sono mai limati a dovere, le bozze non sono mai corrette a sufficienza, ecc., e sottoporrò poi il testo alla sua approvazione, come ho fatto con le Memorie di Galatina.
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Durante le vacanze ho letto parte del Viaggio in Italia di De Sade, molte lettere di Proust relative agli anni della giovinezza, gli scritti dello Zibaldone di Leopardi fino all’anno 1920, la peroratio del De brevitate vitae di Seneca. E poi molti articoli delle riviste a cui sono abbonato: “AUT-AUT”, “Il Giornale storico della letteratura italiana”, “Lettere italiane”, “Critica letteraria”, eccetera. Insomma, una vera cuccagna.
Ho portato con me il De Archia di Cicerone, il II vol. della Storia d’Italia di Sabbatucci e Vidotto (di cui ho già letto il I vol.) e lo Zibaldone di Leopardi che continuerò a leggere. Intanto ieri sera ho cominciato a leggere Ombre dal fondo di Maria Corti.
In effetti ha ragione mio padre a dire che sono un po’ dispersivo. Ma che ci posso fare, non so leggere che quattro-cinque libri alla volta, almeno.
11 gennaio 1998
È mia intenzione mettere ordine tra le mie cose. Devo cioè sistemare i miei studi su Dante in un corpus organico, al fine di proporne la lettura a qualche specialista. Penso a Vallone e Scorrano o addirittura a Maria Corti. Ma Vallone e la Corti sono ormai ottuagenari e non penso che abbiano voglia di darmi retta, mentre Scorrano (che qualche tempo addietro espresse un giudizio favorevole sul mio lavoro) è più giovane e spero che mi dia ascolto. Inoltre, voglio partecipare a qualche concorso, purché non mi costi molto (non voglio sottrarre soldi alla mia famigliola). Oggi leggo sul “Corriere della sera” la pubblicità al PREMIO DI POESIA LORENZO MONTANO e mi sembra una cosa seria. Richiederò il bando di concorso alla sede del premio Via Zorzi 9, 37138 Verona – tel. 045-8036494.
Ho finito di trascrivere il primo articolo di mio padre di argomento leopardiano, dedicato al Canto notturno. Ho trascritto anche qualche pagina del mio diario del 1985: finirò nei prossimi giorni. Mi sembra che sia un ottimo documento della mia formazione letteraria e della nascita della mia vocazione alla scrittura. A volte mi chiedo che cosa ne penserà mia figlia, se un giorno avrà la pazienza o la curiosità di leggerlo. Questo naturalmente vale anche per il presente diario. C’entra nulla tutto ciò con la condizione postuma della letteratura teorizzata da Giulio Ferroni?
15 gennaio 1998
Ho finito di leggere Ombre dal Fondo della Corti, nella quale la scrittrice fa il punto sull’ormai trentennale “Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei” di Pavia. La Corti naturalmente è orgogliosa di questa sua creatura, e non lo nasconde. Si legga l’explicit fortemente patetico: “Poi si chiude in modo energico la vetrata che dà sul cortile sforzesco; e dentro il Fondo, calato il sipario, regna il silenzio. Le ombre sono risalite nella loro eternità e dentro il Fondo tutto è perfettamente in ordine per i visitatori dell’indomani”. Si colga la segreta emozione che promana da questo finale e denota l’animo gentile della Corti.
A p. 134 di questo libro la Corti riporta il pensiero di Maurice Blanchot, “che in Libro a venire del 1959, ma dieci anni dopo tradotto da Einaudi, parla di una compensazione prodotta dal diario: chi non fa niente della sua vita, lo scrive e così si trova di fronte a qualcosa di fatto. Chi si lascia sviare dalla futilità del vivere, racconta tutti i suoi niente, li denuncia o se ne compiace, e così la meditazione dello zero gli riempie la giornata e naturalmente la pagina del diario”.
Ora è chiaro che questo basterà a farmi procurare il libro di Blanchot. Ma la citazione è sufficiente a farmi riflettere sul diario che io da tre mesi vado scrivendo. Trovo che sia vero ciò che dice Blanchot, poiché di rado chi è pienamente soddisfatto, si sente realizzato nella vita, perde tempo a scriver diari. Chi scrive diari “non fa niente della sua vita”: questa è l’amara verità. E li scrive anche chi “si lascia sviare dalla futilità del vivere”, poiché il diario è in sé qualche cosa di futile, di accidentale e non sostanziale, non è un’opera, ma un surrogato di opera, come si evince dalle parole di Blanchot. Questo non vuol certo dire che scrivere un diario non serva a nulla, perché, a mio avviso, il diario, col suo cumulo di materiali informi, può essere la linfa vitale dell’opera, il luogo della sua maturazione, della sua incubazione.
Per alcune altre citazioni da questo libro, si veda il file bibliaut alla voce Corti.
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Ho iniziato a leggere il romanzo di Nadia Fusini, Due volte la stessa carezza, e l’impressione è subito sfavorevole. La facilità con cui s’avvia e seguita la lettura mi insospettisce, e favorisce in me il giudizio sull’estrema artificiosità del modo in cui il romanzo è costruito. Ma qui l’artificio non nasce da un istinto vitale, dalla necessità di raccontare, ma dallo studio delle strutture narratologiche, letterarie del racconto. La scrittrice rivela la professoressa. Si ha l’impressione che tutto sia stato predisposto a tavolino, che nulla sia lasciato al caso, che si abbia a che fare con un automa e non con un organismo vivente. Vedremo se questa impressione diverrà giudizio, oppure no.
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Prendo a leggere anche la biografia di Mussolini scritta da Renzo de Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936 che è il terzo volume, tomo I dell’opera, gli altri volumi e tomi avendoli letti negli anni scorsi. Checché se ne dica, di De Felice ammiro la perseveranza, la pertinacia, e la sua capacità di seguire le vicende mussoliniane nel contesto sempre più ampio che gli si apre davanti, tanto che la sua narrazione sembra aprirsi proprio a ventaglio. Tipico esempio di come un’opera acquisti la sua struttura per necessità interne, e non per imposizioni esterne. De Felice si è dovuto confrontare con un soggetto il cui raggio d’azione s’è allargato dai primi esordi romagnoli alla dittatura; l’opera ne ha seguito le orme, allargandosi a raggera. De Felice, come tutti gli storici che si rispettino, non è solo uno storico, ma un vero artista …con tutti i difetti d’artista. Il difetto principale è -sembra un paradosso- quello di aver voluto perseguire a tutti i costi il progetto della biografia, quando invece la sua opera risponde bene alla storia dell’Italia prima e durante il fascismo. Ma felix culpa! verrebbe da dire, se occorreva per la nascita di questa grande opera. È il caso di dire che nei grandi artisti, l’errore è sempre un elemento dell’opera. Bisogna diffidare dei meccanismi troppo perfetti. Vedi quando detto a proposito della Fusini.
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Ieri Ornella ha ripetuto le analisi del sangue di cui domani conosceremo l’esito; probabilmente Ornella si sottoporrà anche all’ecografia per vedere la stato del feto.
Da Galatina giungono notizie non molto positive sullo stato di salute di mio padre: alcuni valori riguardanti il fegato non corrispondono alla norma. Farà delle indagini per appurarne la causa.
Intanto io trascrivo i suoi articoli (già trascritti quello sul Canto notturno, sul Bruto e in parte quello su Leopardi e la rivoluzione francese), e penso al piano della nuova sua opera: probabilmente sarà meglio dividerla in due parti, di cui la prima dedicata interamente a Leopardi, la seconda in cui dovrebbero trovare posto articoli di altro argomento (stabiliremo quali). L’eventualità di una seconda pubblicazione è comunque per ora piuttosto remota, dal momento che ancora l’editore Congedo non dà notizie riguardanti la prima. Eppure, il 2 gennaio mi aveva detto che in pochi giorni le bozze sarebbero state pronte. Vedremo.
18 gennaio 1998
Le analisi di Ornella vanno bene e dall’ecografia risulta che molto probabilmente in giugno nascerà una bimba. Ora dobbiamo cercare un bel nome che possa piacere anche alla bimba, quando diventerà grande. Io vorrei dare alla mia secondogenita un nome che fosse anche un augurio di vita felice, che risuonasse come un canto melodioso d’uccello, gradevole a udirsi, grazioso, non sonoro. Per questo ho pensato a Ilaria, Felicetta, Caterina, Daniela, Fausta, Liliana, Emilia. Invece non mi piacerebbero nomi ora molto alla moda come Elisabetta, Federica, Eleonora, poiché mi sembrano nomi da regina, troppo rotondi e, direi, troneggianti.
Ho detto a Ornella che il nome vorrei sceglierlo io, certamente un nome che piaccia anche a lei, ma vorrei sceglierlo io. Credo che questa volontà di nominare mia figlia sia dovuta alla necessità che i maschi avvertono di possedere la propria creatura, che, di fatto, è la madre a mettere al mondo. Nominare è possedere, cioè rivendicarne l’appartenenza.
Anche il dott. Leidi, che pur non era sicuro al cento per cento del sesso del feto, considerando il sesso di Giulia, presente durante l’ecografia, ha manifestato la sua delusione, come se dopo una femmina dovesse necessariamente venire un maschio. Come lui, anche molti altri, amici e parenti. Devo dire che questo condizionamento, che io avverto, mi infastidisce, poiché lo sento come una ingerenza negativa che potrebbe macchiare, o per lo meno potrebbe gettare un’ombra sull’amore purissimo con cui io e Ornella accogliamo la nostra secondogenita. Io e Ornella ci diciamo sempre che l’unica cosa che veramente conta è che la nascitura sia sana, e possa vivere felicemente.
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Mio padre si è sottoposto a un’ecografia al fegato, da cui non è emerso nulla di preoccupante. Fra qualche tempo ripeterà le analisi del sangue per vedere se la cura disintossicante che nel frattempo ha intrapreso abbia dato qualche risultato.
Intanto io continuo a trascrivere i suoi articoli su Leopardi (oggi tocca all’articolo sul terremoto di Lisbona) e a progettare il futuro libro. Una sezione notevole del libro potrebbe avere per argomento Piero Gobetti, su cui ho trovato almeno cinque articoli. Una terza sezione potrebbe contenere articoli di vario argomento.
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Riscrivo la poesia Tu troverai…, in altro modo.
19 gennaio 1998
La neve ha stamani imbiancato il paesino e le montagne intorno a Dossena. Ma solo per poco, perché il sole, verso le undici, ha fatto capolino di tra le nubi, poi ha riscaldato l’aria e ha sciolto la neve.
Dei nomi che ho scritto ieri, probabilmente non ne sceglierò nessuno per la piccola che nascerà. Ho pensato, invece, al nome Sofia che già avevo preso in considerazione prima della nascita di Giulia. Allora l’avevo messo da parte perché mi sembrava troppo pretenzioso, ma ora mi dico che probabilmente aspirare alla saggezza non è poi cosa eccessiva, e può rappresentare uno scopo da raggiungere, poiché solo la saggezza può farci vivere bene. A favore di questo nome c’è anche il fatto che a Ornella piace, e quindi d’ora innanzi penserò alla piccola identificandola col nome Sofia. Sofia ha ora appena quattro mesi di vita prenatale e ha una dimensione di circa venti centimetri. Mi riesce davvero difficile pensare a Sofia come a una persona, e tuttavia ritengo che il nome sia il primo passo verso la piena familiarità con lei. Se sapesse che c’è qualcuno ad attenderla e che cerca già di comunicarle qualcosa!
Giulia attende anche lei di buon grado la nascita di Sofia, e a volte accarezza la pancia di Ornella e le dà dei baci, come ha visto fare a me. Nei miei sogni, vorrei che Giulia – che già dimostra un caratterino gaio anche se per nulla pacifico – fosse sempre giuliva e allegra, e Sofia prudente e saggia. Come Marta e Lia, l’una potrebbe simboleggiare la vita attiva, l’altra la vita contemplativa.
21 gennaio 1998
Continuo la trascrizione degli articoli di mio padre su Leopardi (ho iniziato a ricopiare il quinto sull’Infinito), e contemporaneamente rivedo il mio eterno lavoro su Dante. Il corsivo sta a indicare non certo il successo e la durata nel tempo de L’ostacolo del fabulare, su cui non faccio molto affidamento, bensì il mio continuo ritoccare ciò che ho già scritto, aggiungendo una noticina o modificando una frase, lavoro che negli ultimi tempi faccio malvolentieri. In verità comincio proprio a esserne stufo, anche perché so bene che difficilmente potrò rendere pubbliche le mie tesi. Chi mi darebbe fiducia? Chi leggerebbe il mio lavoro? Gli specialisti sono troppo arroccati nelle loro torri per avvertire semplicemente un’eco delle mie urla. E io continuo a modificare, limare, senza alcuna speranza. Allo stesso tempo credo verosimilmente che il mio lavoro abbia un qualche valore, poiché non solo è scritto tenendo conto della letteratura critica sull’argomento, ma anche con passione, per la necessità di scriverlo, e non per venire incontro a qualche motivazione d’ordine estrinseco (successo, fama, partecipazione a concorsi ecc.).
Negli ultimi tre-quattro anni lo studio su Dante, che dapprima si limitava al Dante giovanile (Vita Nuova e Convivio) si è andato approfondendo e allargando, e ora finisce col comprendere anche la Divina Commedia, con almeno due importanti esemplificazione della mia maniera d’interpretazione testuale, riguardanti Inferno e Purgatorio. In pratica, tutto l’Alighieri volgare è stato sottoposto ad analisi, volta a individuare le strutture narrative, le funzioni dell’intera sua opera. Il sottotitolo del lavoro potrebbe a questo punto cambiare e divenire: La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Con questo sottotitolo metterei in evidenza la fondamentale distinzione, su cui si regge l’intera mia interpretazione, tra il personaggio Dante, protagonista della finzione letteraria dell’opera volgare dell’Alighieri, e, appunto, l’Alighieri medesimo, lo scrittore, le cui motivazioni il nostro discorso critico si è impegnato a ricostruire, al fine di dare ragione della struttura dell’opera e del suo significato.
23 gennaio 1998
Avendo ricevuto tempestivamente il bando di Concorso del Premio Montano di Verona, ho interrotto per il momento la riscrittura dei lavori di mio padre su Leopardi, per dedicarmi al riordino definitivo dei miei Canti. Dovrò riflettere su questo titolo assai pretensioso, ma che sento congeniale alle mie poesie. Parteciperò dunque a questo concorso, nel tentativo almeno di instaurare qualche rapporto con chi si interessa di poesia.
Ho ricevuto anche una lettera di Enrico De Vivo da Angri, mio vecchio compagno di studi, a cui ho appena finito di rispondere. Io ed Enrico abbiamo una concezione assai diversa della letteratura, ma parliamo della stessa cosa, e quindi mi fa piacere mantenere i rapporti epistolari con lui.
Infine, da Galatina giungono notizie positive circa l’edizione delle Memorie di Galatina di mio padre. Le bozze dovrebbero essere pronte nei prossimi giorni. Vedremo se l’editore sarà di parola.
25 gennaio 1998
Il titolo Canti, che ho dato alle mie poesie, non può che far pensare a Leopardi (di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita), di cui ogni poeta d’oggi dovrebbe studiare a fondo la lezione. Non che io voglia riproporre i topoi leopardiani: il passero solitario, la donzelletta, la fanciulla morta anzitempo, eccetera; o le ambientazioni leopardiane: la valle, le vie del borgo natio, i luoghi familiari e domestici, cui fanno contrasto gli spazi infiniti dell’immaginazione. Il canto leopardiano, sia pure spezzato dalle interrogazioni del poeta, dalla sua incalzante riflessione, è un canto che riesce a conquistare gli spazi aperti; al poeta è concesso ancora di sentirsi in armonia con la natura, salvo poi gridare la propria disperazione, laddove i fini della natura e dell’uomo divergono. L’idillio in Leopardi è ancora possibile. L’idillio può essere conquistato a caro prezzo, al prezzo cioè della più profonda disperazione e solitudine. Tutto questo ora sembra divenuto non solo improponibile, ma anche poeticamente irrealizzabile. Come potrà essere il canto del poeta d’oggi? Esso sarà il canto negato, strozzato, impedito, dimidiato. Di esso il poeta potrà dare l’intonazione, la melodia, che di certo sarà tinta della nostalgia del canto antico. Il canto del poeta moderno è il residuo del canto antico, e il suo tono è il rimpianto per l’impossibilità di non poterlo levare a pieno, en plain air, e a pieni polmoni. Anche da questo punto di vista noi siamo umili discepoli di Leopardi, e raccogliamo le briciole che cadono dalla sua mensa.
Noi cantiamo in sordina, sotto un cielo che non dà risposte e in uno spazio che non si commuove, per un inverosimile lettore che si ostina a leggere le nostre parole come se fossero le ultime che possono essere scritte e lette.
***
Interrompo la lettura della Fusini, determinato a non leggerla più. Ella gioca coi sentimenti, e io questa speculazione non la sopporto.
26 gennaio 1998
Ornella mi suggerisce di scrivere, dopo aver letto qualche pagina di questo diario, che la piccolissima Sofia comincia a farsi sentire con dei lievi calcetti. Siamo alla diciottesima settimana. Ornella ha appena superato l’influenza e ora è convalescente. Attendiamo l’arrivo di nonna Giovanna che sicuramente si stupirà vedendo i paesaggi alpini dove noi siamo andati a finire.
Ho trascritto l’articolo di mio padre dedicato a L’infinito di Leopardi, e ho anche finito di trascrivere il mio diario del 1985, che ora mi accingo a rileggere, per eliminare eventuali errori di battitura. Il cielo è splendido, la temperatura freddissima.
28 gennaio 1998
Stamani mi sono svegliato presto, e dalle 7.30 sono già qui, intento a scrivere il mio diario. Ho controllato la temperatura esterna: -8 gradi. Il cielo è naturalmente limpidissimo, purissimo, leggermente rosato verso oriente, dietro il monte Gioco. Ieri sera notavo, compiacendomene, che le giornate si sono allungate: avremo pertanto più ore di luce.
Più tardi andremo a prendere nonna Giovanna, che arriva in aereo a Linate alle ore 14.35.
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I miei ragazzi di terza hanno accumulato sul registro dall’inizio dell’anno ad oggi circa venticinque rapporti disciplinari (circa dieci da me firmati) a causa del loro comportamento poco corretto, o addirittura cafonesco. Nessuno fa o può fare nulla. I più indisciplinati sono gli allievi che non continueranno gli studi, e che andranno a lavorare (gli altri tengono bordone). Costoro, oltre a essere indisciplinati, per tutto il primo quadrimestre non hanno neppure una volta aperto il libro, né in classe né a casa, tanto che mi chiedo perché li abbiano acquistati. La scuola li promuoverà, non fosse altro che per cacciarseli di torno. Che cosa avranno imparato? Avranno imparato che nella vita possono fare quello che vogliono, perché tanto nulla può loro accadere. Non mi meraviglierei se qualcuno di loro, di qui a qualche tempo, fosse arrestato per aver commesso qualche reato allo stadio o altrove! Per questo motivo ritengo che attualmente la scuola sia profondamente diseducativa e che non soltanto non adempia al suo compito, ma che addirittura adempia al compito contrario, di diseducare chi altrimenti avrebbe già ricevuto un diverso tipo di educazione.
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Inizio a leggere Anna Maria Ortese, Il cappello piumato, edito da Mondadori nel 1979. Mi sembra abbastanza ben scritto, direi con leggerezza, anche se l’incipit mi è parso alquanto artificioso. Dovrò rileggerlo.
Devo confessare che mi riesce molto difficile orientarmi nel panorama contemporaneo delle lettere, che non conosco, se non superficialmente. Ho seriamente paura di perdere il mio tempo. Per dirla con Bloom, il problema non è tanto che cosa leggere, quanto che cosa non leggere. Si deve procedere per esclusione. Ma – questo è il punto – seguendo quale criterio?
Probabilmente l’unico criterio valido è quello di procedere assaggiando qua e là, senza impegno e senza ostinarsi a concludere la lettura. Naturalmente leggerò per intero un libro d’autore contemporaneo soltanto quando riterrò -dopo le prime cinquanta pagine- che ne valga la pena.
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Intendo per saggezza la conoscenza della propria misura, che ci induca a evitare gli eccessi, a sottovalutarci o a sopravvalutarci, e inoltre che ci induca a migliorare la qualità della nostra vita gradatim. Essere saggi significa conoscersi, come sapevano i Greci, e quindi avere una condotta diritta, evitare gli abbagli, le illusioni, essere realisti in tutte le circostanze della vita. Significa anche essere felici, perché la felicità non può che scaturire naturalmente dalla piena conoscenza del proprio io, premessa necessaria al suo appagamento.
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Leggo sul “Corriere della Sera” di ieri la solita indagine sui cinque libri da salvare dalla totale distruzione di tutto ciò che è stato scritto dalle origini della storia dell’uomo a oggi. Ebbene, io salverei l’Odissea, la Bibbia, la Divina Commedia, le Mille e una notte e una notte e la Recherche proustiana. Chiederei però anche il permesso di salvare l’Eneide di Virgilio e il Pasticciaccio di Gadda. Così sarei proprio contento.
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Ho riletto la pagina di questo diario in cui scrivo a proposito del titolo Canti assegnato alle mie poesie. Dovrei vergognarmi della mia presunzione per aver paragonato i miei Canti a quelli di Leopardi? Ho già scritto qualche tempo addietro, se non erro, in una lettera a Enrico, che non bisogna temere il confronto coi grandi del passato, perché solo rispetto ad essi noi possiamo misurare la nostra statura, e sapere chi siamo e qual è il nostro valore. Inoltre, il confronto coi grandi presuppone che noi li abbiamo studiati e li abbiamo presi a modello, poiché altrimenti giustamente potremmo essere tacciati di presunzione e di velleitarismo.
Vedi quanto scrive Bloom, Il Canone occidentale, cit., p. 6: “Agli scrittori contemporanei non piace sentirsi dire che devono competere con Shakespeare e con Dante, eppure quella lotta è stata per Joyce la provocazione alla grandezza, a un’eminenza condivisa, tra i moderni autori occidentali, solo da Beckett, Proust e Kafka”. Il che vuol dire che bisogna superare ogni falsa modestia che finirebbe col farci diventare ipocriti e mediocri scrittori.
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Tra i filosofi salverei i due dell’età antica Platone e Aristotele, Tommaso per il Medioevo, e per l’età moderna Hegel e Nietzsche. La lettura di questi filosofi, difatti, basterebbe a capire tutto il resto della filosofia.
31 gennaio 1998
Da un paio di giorni nonna Giovanna è con noi. Mi ha portato gli articoli gobettiani di mio padre. Giulia non le lascia un minuto di tempo libero, e la assilla continuamente, summo cum gaudio di nonna Giovanna. Anche noi siamo molto contenti, tanto più che nonna Giovanna è una persona allegra e di compagnia.
Le giornate sono splendide, splendide e freddissime. Qui le definiscono i giorni della merla che divenne neraproprioperché mutò in questi giorni freddi (30-31 gennaio e 1 febbraio) il proprio colore bianco in nero, essendosi avvicinata troppo al focolare ed essendosi quindi sporcata di fuliggine.
A scuola è tempo di scrutini (di fine I quadrimestre), e il tempo che mi rimane per le mie infinite letture è ben poco. Tuttavia, ho letto più della metà del libro della Ortese, Il cappello piumato, qualche pagina de Il libro a venire di Maurice Blanchot e il primo saggio contenuto in Domenico De Robertis, Leopardi. La poesia.
Il romanzo della Ortese, dopo un inizio piuttosto farraginoso e artificioso, mi pare regga bene, e sia scritto con grazia e sensibilità femminile apprezzabile. Del libro di Blanchot, da me ricercato, come il lettore di questo diario ricorderà, su suggerimento della Corti che ne citava una frase relativa al diario, mi hanno colpito molte frasi, definizioni precise, anche se all’apparenza piuttosto ricercate e contorte, di alcuni oggetti del suo discorrere, che riporterò poi in bibliaut.wps. Infine, il libro il libro di De Robertis, che già s’annuncia complesso e denso di spunti critici che riporterò in critleop.wps, un file che riservo alla critica leopardiana. Voglio però riportare una citazione dal suo primo saggio dal titolo I termini dello spazio immaginativo leopardiano (pp. 3-26), perché cade proprio a proposito delle mie affermazioni sui luoghi leopardiano (di cui alla nota del 25 gennaio 1998). Scrive De Robertis, in conclusione, a p. 26: “(…) non sarà forse improprio il rilievo della forte pertinenza recanatese della percezione leopardiana della realtà. Ciò vale per la “campagna in gran declivio”, che è un dato orografico impressionante di quel paesaggio visto dalle stesse finestre di casa Leopardi, o dagli immediati, “non lontani”, dintorni della città (…), come vale per la serie di “tetti”, “orti”, “stradette” e “case passatoie” da Leopardi stesso (Zib. 171) collegate alle sue esperienze di fanciullo. (…)”.
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Da Galatina giungono notizie non tanto buone relative alla salute di mio padre. Dalle analisi risulta che qualcosa nel fegato non va alla perfezione, per cui ora è curato dal primario dell’Ospedale di Galatina, il gastroenterologo dott. Giaccari. Speriamo che non vi sia nulla di grave, e che mio padre possa rimettersi in salute come un tempo.
A volte penso al tempo passato, a quando mio padre era giovane e appariva come l’uomo più forte della terra a me che ero un bambino e lo guardavo con ammirazione. Questa è la misura che il tempo ci offre per farsi comprendere appieno da noi: l’invecchiamento, la consunzione fisica, il disfacimento dei tessuti, dei muscoli, del nostro corpo.
E penso a mia madre, alla sua infinita pazienza di madre e di sposa. Anche i segni della sua vecchiaia sono palesi, anche lei è ogni giorno più stanca, e noi figli non possiamo darle neppure una mano!
(continua)