I dati su cui faremo quasi esclusivo affidamento sono quelli di natura demografica segnalati nei primi censimenti fiscali a partire da metà Quattrocento e a seguire per il secolo successivo, dati pubblicati a fine Settecento da Lorenzo Giustiniani[3] e largamente utilizzati anche dagli storici che si sono occupati di Terra d’Otranto, tra cui Maria Antonietta Visceglia in un organico e prospettico lavoro[4]. La scelta di collocare il punto di partenza nel Quattrocento non è solo supportata dal poter disporre di rilevazioni demografiche prima del tutto assenti, ma anche da oggettive e al momento invalicabili ipotesi di ricerca, che negano anche per Monteroni l’esistenza di un casale strutturato e per lungo tempo funzionante nel corso del lungo Medioevo. Affondare l’analisi, come fa Putignano, al XI secolo serve a fare la storia del feudo e non quella del casale. Durante i secoli medievali si forma con certezza il feudo di Monteroni che dà avvio ad una lunga sequenza di feudatari, padroni del territorio, senza tuttavia essere accompagnata da un insediamento abitativo certo e duraturo che possa attestare l’esercizio di diritti signorili su una comunità di riferimento. Non si può neppure escludere che un habitat si sia formato per breve tempo senza lasciare tracce, legato a circostanze eccezionali e per ragioni contingenti non abbia potuto consolidarsi e sopravvivere all’estinzione. Nell’alto Medioevo si registrano frequenti migrazioni da una parte e l’altra del Salento, con abbandoni repentini dovuti in larga parte a colonizzazioni forzate, che finiscono per non assicurare lunga vita alla nascita dei piccoli villaggi. Monteroni non sembra assumere la configurazione di una comunità stabile nei secoli XI-XIV, restando imbrigliata nella storia del territorio di appartenenza con le implicazioni che questa comporta per la centralità esercitata da Lecce sull’intero contado, che pone condizionamenti ineludibili sulla crescita demografica, rendendola asfittica e permanentemente provvisoria. Solo nel tardo periodo angioino, dopo la vicenda del Vespro, si registra nel Mezzogiorno continentale la nascita di insediamenti meno precari del passato, che troveranno una loro definitiva sistemazione nella fase centrale dell’età aragonese con l’emersione di un mosaico fitto di piccoli casali che daranno vita alla particolare configurazione della geografica umana del Salento moderno e contemporaneo.
Monteroni, come tante altre comunità salentine, registra la sua emersione proprio in questo periodo del XV secolo per trovare nel secolo successivo il suo definitivo consolidamento urbano. I dati forniti dai censimenti fiscali ne danno ampia conferma. Nel 1447 il casale è mandato in tassa per 40 fuochi fiscali per una popolazione presunta di 150-200 abitanti. Si tratta di valutazioni demografiche tratte dalla mera segnalazione dei fuochi fiscali e non da quelli reali, la cui distanza potrebbe essere anche significativa. In antico regime i nuclei domestici esenti vanno da chi gode di particolari privilegi (clero, aristocrazia, ecc.) a quelli di tanti miseri indigenti che non hanno nulla da dichiarare, esprimono cioè un’assoluta incapacità fiscale. Non avendo la possibilità di analizzare la struttura demografica espressa dai diversi censimenti superstiti i dati di Monteroni vanno valutati, sia pure nella loro approssimazione numerica, come ordini di grandezza per avviare un confronto con quelli successivi, che vanno a determinare l’evoluzione demografica del piccolo casale salentino. Nella seconda metà del Quattrocento non si registra alcuna variazione di sorta rispetto al dato registrato a metà secolo circa. Questo in buona sostanza significa che il casale continua ad esprimere a livello fiscale lo stesso numero di abitanti. Le novità emergono solo nel primo Cinquecento quanto Monteroni nel 1508 va oltre il raddoppio del dato del 1447, consolidandolo nei decenni successivi con 144 fuchi fiscali nel 1532, 192 nel 1561 per arrivare a 264 nel 1595. Nell’arco secolare, secondo calcoli prudenti dovuti alla natura del censimento, il casale leccese passa da 300-400 abitanti di inizio Cinquecento ad oltre 1200-1300 di fine secolo. Una crescita esponenziale, per certi aspetti singolare, che merita di essere analizzata e spiegata.Il primo elemento da valutare è quello espresso dal censimento del 1508 che segnala 95 fuochi fiscali, 55 in più rispetto a quelli del 1447. Nell’arco di poco più di un cinquantennio la popolazione di Monteroni cresce di oltre il 100%, mostrando una vitalità demografica non riscontrabile negli altri casali della cintura di Lecce. Una crescita che non è dovuta certamente a fattori endogeni, ma esogeni, sui quali è necessario esplorare per scoprire le cause che l’hanno determinata. Nel corso della seconda metà del Quattrocento si affaccia sul Salento il pericolo turco, che si materializza con il sacco di Otranto del 1480, un evento che crea paura, spostando parte delle popolazioni rivierasche verso l’interno della penisola alla ricerca di rifugi più sicuri e più protetti dalle fortificazioni di difesa esistenti. Non si può escludere che Monteroni per la sua posizione strategica, al riparo della città capoluogo, raccolga e dia ospitalità, anche temporanea, ad alcune di queste famiglie per tenerle lontane dalle minacce ottomane. Quanto può aver pesato questo trasferimento di nuclei domestici nell’accrescimento demografico del casale è ancora tutto da quantificare e da definire. Allo stato della ricerca si possono solo segnalare i cognomi nuovi che si aggiungono a quelli autoctoni nella struttura della popolazione locale. Indicazioni tuttavia sporadiche ed insufficienti per approfondire il tema del travaso demografico, che può anche ricondursi ad altre ragioni, non ultime quelle legate al soddisfacimento di una crescente domanda di manodopera in settori produttivi trainanti, quali quelli oleari. Il saccheggio veneziano di Gallipoli del 1484 si situa su questo crinale e spiega la necessità delle grandi potenze mercantili italiche di controllare direttamente i flussi del maggiore prodotto salentino per non perdere significative quote di mercato estero.
Ma c’è dell’altro. Nel 1478 i turchi occupano l’Albania dando avvio ad un epocale esodo della sua popolazione, che attraversa in massa il basso Adriatico per cercare riparo nel Mezzogiorno d’Italia. Parte non trascurabile di questa popolazione arriva e si ferma nelle Puglie, trovando anche nell’estrema provincia salentina solidarietà e un’accoglienza diffusa. All’inizio si registra una sorta di dispersione nel territorio, con scelte dettate dall’opportunità lavorative messe in campo dalle diverse università locali e dalla stessa feudalità. A Monteroni si trovano insediati all’inizio del Cinquecento pochi nuclei di albanesi, che godono di piena esenzione fiscale e quasi tutti destinati ai lavori agricoli.
A questi trasferimenti ne vanno aggiunti altri dovuti ai ciclici spostamenti da una costa all’altra di greci e slavi, spostamenti che nello scorcio di fine Quattrocento ed inizio Cinquecento aumentano in presenza della minaccia ottomana nell’area del basso Adriatico. Quanto questi arrivi possono aver inciso nell’evoluzione demografica di Monteroni è ancora tutto da accertare, anche se da una rapida indagine nominativa non è complicato isolare i nuclei provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico e fornire qualche dato preciso. Ma questo non aiuta a determinare l’apporto dato alla crescita del casale dalle etnie greco-slave, come pure resta irrisolto il problema della collocazione dei 2000-3000 (sui 15000 della spedizione iniziale) giannizzeri (soldati cristiani al servizio del sultano) che scelgono di rimanere nel Salento dopo la riconquista di Otranto da parte aragonese. Si disperdono sul territorio, volgarizzando i loro cognomi e andando a soddisfare una domanda lavorativa diversificata, arricchendo della loro presenza i casali in forte espansione economico-produttiva. Per Monteroni restano sospesi i vantaggi ricavati sul piano demografico di questo mescolamento etnico, sebbene un’analisi nominativa dei nuovi cognomi apparsi nei censimenti del primo Cinquecento potrebbe fornire qualche prima indicazione. A tutto questo non bisogna neppure trascurare l’incidenza della scomparsa dei piccoli villaggi che fanno da corona al casale, come quelli di Melandrino e Mangurano, i cui superstiti abitanti trovano “rifugio” nella vitalità espressa dalla rinascita della comunità, contribuendo a rendere ancora più solido il dato demografico. Non si spiega diversamente la crescita precoce di Monteroni di fine ‘400 e il percorso che apre per l’intero secolo successivo.
Il trend demografico del casale nel Cinquecento, infatti, nel suo insieme gode di questi pregressi aggiustamenti, rafforzati e dilatati dalle positive condizioni di sviluppo economico-produttivo assicurato per quasi tutto il secolo. I numeri dei censimenti fiscali sono al riguardo abbastanza eloquenti, tracciando un’evoluzione che porta la crescita della popolazione del casale da poco più di 300 ad oltre 1200 anime. Nella cintura di Lecce si presenta come la comunità socialmente più dinamica e maggiormente attrattiva. Non certo per il ruolo esercitato dalla feudalità e neppure per quello penosamente messo in campo dall’università, due istituzioni che in buona sostanza non aiutano ad alimentare e a consolidare il positivo trend demografico. Il feudo, tranne i primi decenni del secolo, viene dall’imperatore Carlo V donato al suo valente cancelliere, il cardinale Mercurino Gattinara, come ricompensa per i servizi resi alla corona, ultimo dei quali la concessione del patronato regio da parte di Papa Clemente VII in 24 diocesi meridionali attraverso il trattato di Barcellona del 1529[5]. Invero il sovrano concede formalmente al cardinale il feudo di Castro con i casali della vecchia contea a cui si aggiungono Taurisano e Monteroni, due centri che restano uniti per lungo tempo sotto la stessa signoria. I Gattinara prendono possesso di questi possedimenti nel 1530, quando il cardinale Mercurino lascia il mondo dei vivi. La gestione dei feudi da parte dei discendenti, che dura fino agli anni ’20 del Seicento, si rivela inadeguata e, tutto sommato, di ostacolo allo sviluppo economico-produttivo del casale. Per un certo periodo assicurano la residenza, scegliendo proprio Monteroni come sede privilegiata, avviando e completando la ristrutturazione del palazzo baronale. Ma non vanno oltre questo intervento edilizio. Per il resto si comportano come tutti i feudatari del tempo, famelici e aggressivi verso i vassalli, imponendo tasse e pesi di ogni genere oltre modo gravosi. Ciononostante incorrono in incidenti con il regio fisco che li espongono per la loro particolare fragilità finanziaria. Non riescono a soddisfare l’obbligo dovuto di 6000 ducati alla Regia Corte, restando a lungo appesi e cercando di allungare i tempi del versamento, evitando anche il carcere, nelle cattive condizioni di salute del titolare Mercurino II Gattinara. Una strada lastricata di compromessi anche per il suo successore, Alessando II, raggiunti attraverso espedienti diversi, ma resi possibili per il sostegno di facoltose e potenti famiglie regnicole, come i Colonna, gli Acquaviva d’Aragona, i Caracciolo, i de Castro, con le quali si erano imparentate. Il feudo di Monteroni tuttavia già alla fine degli anni ’70 del Cinquecento non assicura rendite stabili e i Gattinara decidono di rinunciare alla gestione diretta per cercare risorse certe con l’affitto. Trovano in una schiera di arrendatori di origine genovese i nuovi interlocutori, che fino ai primi anni dell’ultimo decennio del secolo, con una base d’asta di poco più di 25.000 ducati si impadroniscono del feudo, spremendo oltre misura gli abitanti e ampliando le già larghe fasce di miseria della popolazione locale. Quando esplode alla fine del Cinquecento la crisi economico-produttiva gli affittuari lasciano anzitempo la gestione del feudo, che ritorna nelle mani dell’ultima discendente dei Gattinara, Lucrezia, a cui non basta sposare il potente Francesco Ruiz de Castro per conservare la titolarità della signoria, che passa di mano nel 1624 con la sua rinuncia.
Non diversa, a livello gestionale, la storia dell’università locale, amministrata quasi ininterrottamente da esponenti delle famiglie più rappresentative del casale, quali i Centonze, gli Zecca, i Rizzo, i Verardo, ecc., ma senza mai uscire dal dissesto finanziario, accumulato nel corso del Cinquecento e mai più sanato. La scelta di rifinanziare il debito con altro debito si rivela disastrosa e spinge verso la marginalità istituzionale l’ente comunale, che pure aveva tra i suoi compiti delicate materie da gestire. In questa direzione Gino Giovanni Chirizzi fornisce attraverso documenti di prima mano le tortuosità praticate per venire a capo del debito crescente e le penalità di volta in volta erogate per evitare il completo fallimento[6]. Soprattutto nel secondo Cinquecento a partire dal sindacato di Giovanni Maria Zecca esplode il debito pubblico con l’accensione di frequenti controversie contro i bonatenenti leccesi, che si ostinano a non pagare le tasse dovute per le contribuzioni alla Regia Corte. Anche la provvista del grano per alimentare i bisogni quotidiani della popolazione locale incontra da parte dell’università enormi difficoltà nel reperire le risorse necessarie per ristorare i fornitori: Spesso si riesce a dare solo un anticipo in denaro, rinviando il saldo a tempi indefiniti. I contrasti, accesi in questi settori, quasi sempre finiscono con transazioni patteggiate, utili solo a spegnere il giudizio dei tribunali, ma non ad alleggerire i pesi accumulati dall’amministrazione civica. Non poche scelte del parlamento cittadino vengono condizionate, fino ad essere annullate, dalla preventiva opposizione del governatore e del capitano di giustizia, quest’ultimo espressione del potere baronale. Tra università e feudalità non vi è mai comunione di intenti, ma solo un permanente conflitto per l’esercizio delle rispettive giurisdizioni. Le competenze comunali toccano settori come quello dell’annona, della polizia urbana e campestre, dell’igiene e di pene per i reati a danno di colture, dei boschi e degli animali, di esazione dei tributi e di altro, che in maniera quasi inevitabile si incrociano con quelle della feudalità, aprendo contenziosi che non trovano una facile e duratura risoluzione. Le conseguenze negative cadono tutte sugli abitanti “costretti a contribuire con altri gravami, obbligandosi al governo e al proprio barone, ma anche a tanti ulteriori tiranni quanti erano gli esattori… così le tasse ordinarie e le straordinarie assorbivano quel tanto di spirito vitale che rimaneva nella Università”[7].
Legata alle sorti dell’amministrazione civica rimane la chiesa parrocchiale, la cui fondazione risulta di patronato comunale. L’università ha degli obblighi specifici che deve assolvere nei tempi previsti dal calendario liturgico. Oltre alla manutenzione ordinaria dell’edificio sacro e alle varie suppellettili necessarie deve sostenere l’ascesa sacerdotale dei chierici nativi del luogo, provvedere con risorse proprie alla predicazione quaresimale e soprattutto assicurare la copertura finanziaria per la festività del santo patrono. Non sembrano nel loro insieme spese rilevanti, ma diventano pesanti in seguito al progressivo peggioramento dei bilanci dell’università. La parrocchia trova modo di emanciparsi da questi condizionamenti, cercando nella gestione della massa comune capitolare le risorse per garantire un ordinato svolgimento ebdomadario dei riti sacri. La pietà dei fedeli concorre oltre misura alla formazione di rendite annue dai beni mobili e immobili, vincolati per i servizi religiosi (sotto forma di legati ad pias causas). Il clero incardinato gode, tutto sommato, di privilegi che il popolo minuto stenta a conoscere. La corsa in sacris spiega anche la competizione tra le famiglie più ragguardevoli del casale per assicurarsi uno scanno capitolare. Frequentemente alla guida della parrocchia si trova un esponente di una famiglia riconosciuta dominante. Il riferimento è soprattutto ai Guglielmo, ai Centonze, ai Zecca, ecc. che poi sono le stesse famiglie che governano l’università. Comunque già nel tardo Cinquecento la gerarchia ecclesiastica sembra ben disegnata dai posti che occupano altre famiglie, come i Cagnazzo, gli Imbriaco, i Marzo, i Paduano, ecc. all’interno del collegio capitolare. Un clero anche abbastanza istruito, sebbene la diocesi non disponga ancora di un seminario per la formazione dei chierici. A supplire questa mancanza ci sono gli studia degli ordini religiosi disseminati nella vicina Lecce, a partire dal Collegio Lupiense dei Gesuiti, a quello dei Domenicani, degli Agostiniani, dei Francescani, dei Carmelitani e di altri, in cui si tengono lezioni di umanità e di teologia, fondamentali per ascendere agli ordini sacri. Un clero formato in buona sostanza ad interpretare e ad accompagnare il rinnovamento conciliare deciso a Trento, a cominciare dall’ordinata registrazione dei libri parrocchiali. Cosa che certamente avviene, ma per l’incuria o per dolo i primi atti anagrafici della chiesa matrice di Monteroni sono andati dispersi. Questa lacuna impedisce non solo di seguire il movimento anno dopo anno della popolazione, ma anche di analizzare la struttura demografica complessiva del casale per trovare conferma sulle ipotesi già avanzate e/o cercare nuovi dati sui caratteri originari che definiscono l’identità comunitaria nella prima età moderna.
L’excursus sin qui fornito chiarisce la debolezza strutturale dei due maggiori poteri forti locali, la feudalità e l’Università, accanto ad un potere ecclesiastico che va crescendo e imponendosi nello scenario comunitario. Non chiarisce tuttavia né la forte crescita demografica cinquecentesca e neppure ciò che rende il casale diverso dagli altri, ciò che forma la sua originaria identità, ciò che insomma assicura la sua fortuna civica.Per centrare questo obiettivo dobbiamo fare un passo indietro, tornare nel cuore del Quattrocento, alle origini del casale. Un documento tardo angioino conferma l’esistenza dell’universitas civium già nel 1431, cioè in un periodo in cui il paese esce dall’indeterminatezza medioevale per acquistare una sua precisa connotazione comunitaria[8]. Le vicende di Monteroni per tutto il periodo aragonese ed oltre sono segnate da continue controversie con i cittadini leccesi, che hanno proprietà nel feudo. Una circostanza non trascurabile che rinvia a precedenti acquisizioni fondiarie, riconducibili al tempo della stessa formazione del casale. Una charta concordiae del 1521 fra le due municipalità, Lecce e Monteroni, conferma un conflitto tributario di vecchia data che non si riesce a spegnere facilmente[9]. Ma fornisce anche qualche dato integrativo che torna utile per definire la struttura demografica del casale. Tra i 95 fuochi fiscali registrati nel 1508 ci dovrebbero essere anche 12 famiglie leccesi dimoranti in Monteroni, che partecipano attivamente agli accordi di quell’anno. Esse sono ben annotate nello stesso documento e richiamano soggetti con i cognomi Centonze, Martino, Porcari, Bruno, Zecca, Podo, Guglielmo, Meraglia, Imbriaco, ecc., ovvero buona parte dei nuclei domestici che diventeranno dominanti nel governo della chiesa e dell’università nei decenni successivi[10]. Questo travaso di leccesi nel casale non deve essere episodico e circoscritto al primo Cinquecento, ma risalente certamente nel secolo precedente, se si considera soprattutto le proprietà denunciate nel feudo monteronese. Il conflitto tributario esplode nel momento in cui una parte dei leccesi abbandonano il casale per ritornare a risiedere nella loro città di origine. Una scelta che non cancella i rapporti pregressi, anzi per un certo verso li tiene vivi e li consolida ancora di più.
Monteroni è debitrice a Lecce della sua formazione identitaria. Nasce come casale in virtù di un contributo non proprio irrilevante di cittadini leccesi, si alimenta nel XV secolo di un rapporto dinamico con la città capoluogo, finendo per creare un nesso ineludibile per tutta la prima età moderna. Lo scambio caratterizza la vivacità tra le due comunità. Monteroni fornisce alla città manodopera non specializzata per il servizio domestico, lavori edilizi e altro di simile, Lecce invece il contrario con i suoi studia di formazione culturale di eccellenza. Non solo. Il connubio tra i due centri pone rimedio al mercato matrimoniale stretto in virtù del rispetto dei vincoli di consanguineità invalicabili in una comunità come Monteroni dalle dimensioni demografiche modeste.
Il legame tra Lecce e Monteroni è di antica data, riconducibile alla stessa nascita del casale. Si può persino ipotizzare che il casale sia in buona parte espressione della volontà di una schiera di cittadini leccesi a trovare spazi fuori della propria città, in un’area più prossima al capoluogo, nel momento in cui la popolazione di Lecce aumenta in maniera esponenziale e non può essere più contenuta nelle sue vecchie mura medioevali. E’ quindi nel XV secolo e in modo particolare nel periodo della dominazione aragonese che il legame tra i due centri si struttura, consolidandosi e allargandosi in forma stabile, tale da connotare in maniera indelebile i caratteri originari della piccola comunità salentina.
Nella documentazione superstite il vecchio legame sembra tradursi in un conflitto permanente che attraversa il secondo Quattrocento e tutto il Cinquecento, interessando sul piano fiscale soprattutto i leccesi forestieri bonatenenti, nascondendo quelli che invece hanno trovato nel piccolo centro piena cittadinanza, spesso e non a torto considerati autoctoni del luogo abitato. Di questo conflitto Gino Giovanni Chirizzi ha fornito esemplarmente informazione attraverso lo studio degli atti notarili coevi, evidenziando un punto di svolta nel 1561, quando il casale viene tassato per 192 fuochi, numero non trascurabile che tende ad oscurare i passaggi pregressi per la diffusa mescolanza e la irriconoscibilità delle famiglie che hanno dato origine al centro abitato. Dei Centonze, dei Zecca, dei Marzo e di tanti altri nuclei domestici si possono già individuare 3-4 ceppi dinastici diversi e non più sovrapponibili. Il problema almeno all’inizio non sembra di facile soluzione per tanti nubendi, ma col tempo questa distinzione emerge e viene ostinatamente difesa nelle sedi opportune[11]. Il secondo Cinquecento resta il periodo in cui Monteroni acquista in via definitiva una propria inconfondibile identità, non più quella tracciabile nel Quattrocento di chiara derivazione leccese, ma una nuova, autonoma e, per certi versi, geneticamente promiscua, tale da rinviare a frequenti travasi di popolazione, dettati da diverse ragioni, rimaste ancora inesplorate, con trasferimenti soprattutto nei paesi vicini, con la sola penalizzazione di S. Pietro in Lama[12], per emanciparsi dagli ostacoli di consanguineità, ma anche per cercare opportunità di lavoro nel capoluogo e in altri centri della provincia otrantina. Il travaso demografico non è certamente a senso unico, ma compensato, se non addirittura arricchito da una crescente migrazione interna, che porta il casale a denunciare 264 fuochi nel 1595 e 319 nel 1643[13]. In buona sostanza Monteroni si rivela il casale più attrattivo del circondario di Lecce, il centro che consente un rapporto diretto con il vicino capoluogo della provincia, ma anche un sito lontano dai pericoli della costa, dove per tutto il secolo, nonostante la vittoriosa battaglia di Lepanto, imperversa la minaccia turca[14].
A fine Cinquecento la fisionomia comunitaria si presenta ben delineata e soprattutto articolata da una larga rappresentazione di nuclei domestici, parte dei quali con lo stesso cognome da trarre in inganno per la loro non accertata provenienza dinastica. La confusione cade soprattutto sulle famiglie con il cognome Centonze, le più numerose del casale, ma in misura diversa va ad interessare anche altre famiglie come i Zecca, i Marzo, i Pennetta, i Martino, i Verardo, i Conversano, ecc. Documenti di fine secolo rintracciati dal Chirizzi attraverso una mirata selezione degli atti notarili confermano il progressivo rimescolamento della popolazione, con in prima linea sempre le vecchie famiglie ancora dominanti nelle istituzioni locali (università e chiesa matrice), seguite dalle nuove che con fatica cercano di uscire dall’anonimato. In una “consignatio” del 1582 appaiono come primi attori Santo Centonze e Carlo Zecca, rappresentati della collettività, dentro una cornice in cui si ritrova un altro Zecca, G. Battista, sindaco e un altro Centonze, Antonio, notaio in Monteroni. L’elenco dei 21 partecipanti annovera altri Zecca e Centonze, seguiti da un Cesare Pellegrino, un Cataldo Spolitu, Armilio Urso, Antonio Cifori, Annibale Marzo, Rainaldo Caputo, Antonio Calò, Geronimo Sabato, Vittorio Imbriaco, Pompeo Visconti, nomi alcuni dei quali non affatto anonimi (Marzo, Caputo, Imbriaco), ma i restanti appaiono emergenti, decisamente in piena ascesa sociale. In un altro documento dell’agosto del 1600 una sorta di “instrumentum unionis” con Paladino Zecca giudice regio e con Antonio Imbriaco e Aurelio Cagnazzo testimoni (tutti monteronesi) si ritrova sindaco Giulio Antonio Verardo accompagnato, tra i 55 congregati, da una schiera corposa di Centonze, Marzo, Zecca, Gala, Imbriaco, Conversano, Verardo e altri come Caputo, Pennetta e Cagnazzo rappresentati di famiglie da considerare a tutti gli effetti autoctone. Tra i soggetti nuovi, che cercano di uscire dall’anonimato comunitario, si trovano Ramundo Mancino, Gennuario Covello, Antonio Alemanno, Vincenzo Rizzato, Donato Solazzo, Salvatore Bisconti, Ortensio Madaro, Alessandro Giordano, Armilio Podo, Giulio Cesare Notaro e soprattutto Antonio e Pietro Colonna, che appaiono per la prima volta segnalati in un atto pubblico. E’ evidente che la struttura della popolazione monteronese sta cambiando volto e che il panorama civico progressivamente va definendosi con l’apporto di altre nuove famiglie che mirano a competere con le prime, con quelle di antica data a lungo dominanti.
Conferme in questa direzione vengono raccolte da un altro documento di fine secolo rintracciato e analizzato da Adolfo Putignano[15]. Si tratta di una Ricognizione di fuochi estinti datata 1597 che per protagonisti, manco a dirlo, ha rappresentanti di due note ed influenti famiglie locali, un Marzo, Scipione, e un Centonze, Santo, che depongono per segnalare i fuochi scomparsi nell’arco dei decenni passati, fornendo anche notizie sulla struttura domestica, sul destino dei figli e in genere sulla loro perdurante miseria (una quarantina in tutto) o, al contrario, sulla loro dotazione patrimoniale. Pur in un quadro di riferimenti discordante dai loro ricordi è possibile desumere tra il 1547 e il 1596 la perdita di 188 fuochi, un numero tuttavia esorbitante e ben lontano dalla realtà in quanto nel calcolo si sommano in maniera indistinta capifamiglia ed altri membri della stessa che muoiono e/o si allontanano per ragioni diverse dal casale. A parte questo evidente limite, il documento consente di fare il punto sull’articolazione dei nuclei domestici insediatisi nel paese nel corso del secolo, sottolineando soprattutto la presenza di alcune nuove famiglie, accanto naturalmente alle vecchie. Tra le vecchie restano ancora ben solide, pur frammentate in diversi ceppi, quelle dei Centonze, Zecca, Martino, Caputo, Marzo, Guglielmo, Mancarella, Gala, Sabato, Verardo, Cagnazzo, Imbriaco, Putignano, Pellegrino, Bisconti, Pennetta, Dragonetto ed altre, mentre tra le nuove si segnalano quelle dei Ruggio, Pinto, Urso, Bergamo, Podo, Manca, Margiotta, Strafino, Politi, Frassanito, Scardino, Rizzo, Calò, Monte, Tornese, Notaro, Giordano, Romano, ecc. Forse l’elenco è da considerare incompleto in quanto non si trovano, tra i tanti, i Colonna, ben registrati in un altro atto pubblico coevo, prima segnalato[16]. Da non trascurare il dato migratorio esterno, ovvero dei monteronesi che si trasferiscono altrove per contrarre nozze (appena 13) e di quelli per lavoro (7 in tutto), a cui però bisogna sommare altri 20 soggetti allontanatisi per ragioni diverse. Mancano invece notizie sul movimento migratorio interno, cioè di famiglie forestiere che decidono di stabilirsi nello stesso periodo a Monteroni, dati che tornerebbero utili per quantificare il fenomeno nella sua globalità. In margine alla deposizione vi è la segnalazione di due monteronesi fatti prigionieri dai Turchi e poi forse uccisi in un periodo (anni ’80 del Cinquecento) in cui le incursioni ottomane sulle coste salentine vanno sempre più diradandosi.
A queste scarne notizie Gino Giovanni Chirizzi ne aggiunge altre più pregnanti e significative nel volume sul Seicento[17] che ci aiutano a comprendere la morfologia demografica, professionale e sociale di Monteroni raggiunta nel corso del Cinquecento. In maniera fin troppo dettagliata si possono conoscere i mestieri praticati a cominciare dagli addetti all’agricoltura, all’artigianato e alla professioni liberali; sono segnalati puntualmente anche i monteronesi che lavorano nelle case aristocratiche leccesi e nelle dimore di importanti ecclesiastici e quelli al servizio (come uomini di fiducia) dei baroni della provincia, Importanti pure risultano le notizie dei cittadini che si trasferiscono altrove per servizi vari e di altri per contrarre legittime nozze. In quest’ultimo comparto si fornisce un elenco puntuale e completo dei nubendi con il mestiere dello sposo, che seppure riferito al secolo XVII, torna di grande utilità per tenere aperta l’analisi sulla struttura della popolazione del casale nella prima età moderna.
Con l’andare in avanti, a partire soprattutto dal Seicento, si può disporre di dati sempre più puntuali ed articolati che confermano il progressivo oscuramento del carattere originario del casale, quello che per comodità si può definire come il sostrato leccese di Monteroni. Già nel secondo Cinquecento questa connotazione tende progressivamente ad essere assorbita dal rimescolamento dei vecchi e nuovi nuclei domestici, avviando velocemente il paese verso un’identità propria, in progress in via di definizione, trovando solo nel Settecento il suo approdo finale. Ma il legame con Lecce non si spezza, restando un segno distintivo incancellabile del paese moderno e contemporaneo.
[in Pietro Pascali e Daniele Capone, L’ombra di Tancredi. Nei luoghi della cintura di Lecce, Giorgiani Editore, 2024]
[1] A. Putignano (con la collaborazione di Mario Quarta), Monteroni. Vicende feudali e comunali, presentazione di Tommaso Pedio, 2 volumi, Cavallino di Lecce, Capone editore, 1988.
[2] G.G. Chirizzi, Monteroni nel Cinquecento. Popolazione e Università Chiesa e Pietà popolare Baronia, Lecce, Conte editore, 2002; Idem, Monteroni nel Seicento. Testimonianze inedite di vita religiosa e popolare, Lecce, Conte editore, 2006; quest’ultimo volume ha avuto un’edizione successiva con significative integrazioni e una leggera revisione del sottotitolo: cfr. Idem, Monteroni nel Seicento. Testimonianze inedite di vita civica e di vita baronale, Copertino, Lupo editore, 2010.
[3] L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, Napoli 1797-1805, ad nomen.
[4] Si veda M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, prefazione di Maurice Aymard, Napoli, Guida editori, 1988.
[5] M. Spedicato
[6] G.G. Chirizzi, Monteroni nel Cinquecento, cit., pp.32-57.
[7] Ivi, p. 43.
[8] Ivi, p. 32.
[9] Ivi, p. 36.
[10] Ivi, pp. 37 sg.
[11] G.G. Chirizzi, Monteroni nel Seicento, cit.
[12] A. Putignano, Monteroni. Vicende feudali e comunali, cit., vol. I, p. 341.
[13] M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale, cit., p. 79.
[14] M. Spedicato, Da Otranto a Lepanto…
[15] A. Putignano, Vicende feudali e comunali, vol. I, cit., pp. 332-52.
[16] Ivi, p. 343. In un altro documento di poco posteriore i Colonna li troviamo segnalati insieme ai Barba, Massese, Porcari, Covello, Cazzella, Giancane e altri.
[17] Nella seconda edizione del 2010, pp. 28-67