Il fascino di Medusa, ovvero la solitudine dell’intellettuale meridionale e il nuovo soggetto della storia

Tra i proscritti ci sono stati, e numerosi, anche coloro che hanno subito il fascino di Luigi Settembrini, l’implacabile combattente contro la dinastia dei Borboni. Ebbene, tra Mazzini, Gioberti e Settembrini proprio l’opera di quest’ultimo, in particolare per la spinta a recuperare i valori del proprio passato che la ispira, stimola maggiormente e modella la cultura salentina del nostro Risorgimento. Martina lo mette bene in evidenza nel secondo capitolo intitolato Francesco Casotti e Sigismondo Castromediano: un progetto di politica culturale

“Giungemmo presso lo stretto di Gibilterra, era un bel mattino, il sole indorava le coste di Spagna, e moltissime navi col buon vento entravano dall’oceano nel Mediterraneo. Carlo (Poerio) sollevato un po’ era con noi sulla coperta a guardare quello spettacolo; c’erano Spaventa, Pica, Schiavone, Castromediano, Braico, Pace, Argentino, Danis, Purcaro, Agresti, Faucitano, Barilla, Ricco, Piraino, Paione, Mauro, Dono, Del Drago, Surace, Biondi, Berti, Colafiore, De Simone, quasi tutti! Ecco, una nave mercantile vicino a noi alza una bandiera tricolore; era una nave sarda, era la bandiera d’Italia, che dopo dieci anni rivedemmo allora in mezzo al mare, lasciando l’Italia, andando in esilio perpetuo. Non so dire che sentimento fu il nostro; tutti ci scoprimmo il capo salutando in silenzio la bandiera d’Italia, alcuni marinai che ci stavano vicini si scoprirono anch’essi-“ (in Luigi Settembrini, Scritti vari, vol. II, Napoli, p. 359.

Ribolliva in quegli anni nell’animo degli intellettuali meridionali l’antitesi della grande e della piccola patria. Nella pagina di Settembrini invece si purifica e convive lo spirito d’amore dell’una e dell’altra. Per questo lo scrittore, al fine di salire dalla piccola alla grande patria, progetta più innanzi negli anni una biblioteca meridionale ed illustra, in alcuni suoi scritti, opere d’arte e di antichità napoletana. E con fine sensibilità interpretativa Martina avverte che c’è in tutto questo anche la volontà di dissolvere la solitudine dell’intellettuale meridionale.

Anche per l’ergastolano Sigismondo Castromediano, Duca di Cavallino, il tricolore è stato come un’apparizione religiosa ed anch’egli, quando i tempi lo consentono, sulle orme di Settembrini diviene insieme con Francesco Casotti a Lecce protagonista di un’operazione culturale già avviata subito dopo l’unità da Salvatore Grande con una Collana di scrittori salentini. Ha inizio così il viaggio di Castromediano verso l’anteriorità per rimetterci con l’immaginazione nello stato primitivo dei nostri maggiori. Di qui la sua iniziativa per fondare invece un Museo Provinciale, l’avvio di una “Rivista bibliografica degli scrittori più recenti di cose di Terra d’Otranto” su “Il cittadino leccese” e la costituzione di una Biblioteca provinciale. Nel 1865, ma vergati tra il 1859 ed il 1863, appaiono gli Scritti editi e rari di Francesco Casotti con una lettera proemiale ed una dedica ad Antonio Ranieri. Nel proemio è riversato l’amore per la piccola patria: “da questo Angolo della penisola idruntina passarono al centro ed alle contrade superiori d’Italia non solo le genti, ma la lingua, le arti, le scienze e in una parola tutta la prima civiltà anteriore alla romana”.

Castromediano e Casotti in questo modo, nel momento in cui vanificano e cancellano la solitudine dell’intellettuale meridionale, affermano d’altra parte lo spirito e le prerogative della salentinità intesa come contributo alla iniziativa di rinsaldare l’unità spirituale d’Italia, sulle orme del Settembrini, attingendo nell’anteriorità la radice della ricordanza quale soglia da cui ritorna a noi la tradizione della provincia. E ci sembra questo un approdo critico di originale livello, da parte di Martina, nella cultura del Salento.

Abbiamo così i lavori eruditi La coreografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto di Giacomo Arditi e la Monografia di Muro Leccese di Luigi Maggiulli e la silloge degli studi di Giuseppe de Simone già apparsi nell’Archivio storico italiano in cui si estrinseca l’essenza erudita della salentinità, che tuttavia si modella nel campo nel calco umanistico attraverso il recupero della figura e dell’opera di Antonio De Ferraris, il Galateo, ad opera di Francesco Casotti.

Di qui Franco Martina conduce il lettore attraverso un percorso che fino alla fine sembra disegnare un’orma che porta verso un miraggio. Lo si cerca ed esso dapprima appare come cinto da un alone nebuloso che ha Il fascino di Medusa, che è il titolo con cui Martina ha licenziato alla stampa il suo libro. L’indagine storica a poco a poco fa uscire il miraggio dal suo alone di mistero, inizia a dargli consistenza fino a centralizzarlo in una realtà culturale che è costituita dal nuovo soggetto della storia dopo l’unità. La prima tappa della ricerca di Martina è la cultura positivistica nel Salento, oltre che in Italia. E qui incontriamo Pietro Siciliani.

Se primo elemento dottrinario del positivismo è il preteso conflitto tra la scienza e la religione, assegnando la prima alla ragione e la seconda al sentimento, e separando nettamente il campo del libero esame da quello riservato alla fede, il principio fondamentale della riflessione di Pietro Siciliani è mettere in relazione filosofia e politica. Perciò per il filosofo galatinese la sociologia diventa dottrina essenziale per risolvere i problemi complessi che costituiscono la questione sociale. Ecco allora che Il fascino di Medusa, cioè il nuovo soggetto della storia, esce dalla sua nebulosa e da poco a poco si concretizza come protesta contro “la divisione della società nelle due classi degli oziosi e dei lavoratori del capitale accumulato senza lavoro, e del lavoro incessabile, perpetuo e, ciononostante, incapace di rivelarsi e di conseguire giusta e legittima ricompensa”, come si legge nel Preludio al corso di sociologia teoretica, letto nella R. Università di Bologna nell’anno accademico 1878-1879. Sono già tutti presenti i temi che daranno corpo al nuovo soggetto della storia, e Martina non manca di estrarre opportune citazioni, pertinenti a darne la dimostrazione, non senza aver prima argomentato che, quello del Siciliani non è il positivismo dogmatico e romantico, democratico ed ottimista, che si appella all’evoluzionismo e poi ai misteri biologici, bensì il positivismo realista e storicista, addirittura di ascendenza vichiana, che coltiva valori tradizionali e la storia. Su questa linea di metodo l’intellettualità salentina persevera nella ricerca del nuovo soggetto della storia.

Dopo il pensiero di Siciliani, Martina indaga le riflessioni di Francesco Rubichi per il quale “nell’Illuminismo va legittimata la linea di pensiero unitaria da cui si genera la realtà politica moderna”, il che significa denunziare ancora una volta la crisi dell’idealismo e cioè, secondo Rubichi, darsi carico delle esigenze del popolo e delle plebi.

Siamo ormai, dopo le prime forme di organizzazione cooperativistica e mutualistica degli operai, alle soglie della diffusione nel Salento del proselitismo socialista in nome del marxismo. il nuovo soggetto della storia adesso ha un nome, si chiama realtà operaia e precisamente “questione sociale”, ed i fogli che se ne fanno propugnatori non si stampano a Lecce, nel capoluogo, ma in provincia, “Il Salento” a Galatina, “Spartaco” a Gallipoli, “La pialla” a Maglie. Nella critica storica noi troviamo la spiegazione di questo fatto.

All’origine del positivismo si rinvengono tre fattori che sono la scienza, l’industrialismo ed il prevalere della civiltà urbana su quella agricola. Essi però si presentano così incerti e contraddittori, da limitare il loro ruolo soltanto alla conoscenza della realtà nazionale, ma non la capacità di modificarla, specialmente quanto più si scende in basso, verso le forme di vita e di esistenza dell’immensa massa proletaria contadina del Sud ed in particolare del nostro Salento. La cultura salentina, tuttavia, attraverso l’analisi dei fenomeni sociali della provincia, mette a nudo la nostra società di classe e denuncia il blocco agrario come elemento decisivo e preponderante di una storia nazionale reazionaria. Così facendo essa non rivela soltanto gli aspetti patologici di una realtà, bensì muta l’indifferenza e la passività dei ceti rurali in una leva ed in una forza di progresso e li fa confluire nel moto nazionale proiettato verso l’unità. In questa operazione culturale sale al livello storico il ruolo della provincia con la scoperta e l’illustrazione del nostro Salento quale mondo pressoché ignoto e vergine, con le sue plebi artigiane e contadine venienti, per così dire, dal buio di una civiltà arcaica ed ancestrale, con l’esigenza di una giustizia anteriore a tutte le norme giuridiche, col complesso rituale contadino che sottolinea il ritmo immutabile delle opere e dei giorni. Abbiamo così gli scritti di Carlo Mauro dal titolo Discorsi della sera ne “Il contadino”, numero unico del 27 dicembre 1896, Dopo la lotta, Tattica e Le due Italia ne “Il Salento” a. II,14 del 28 marzo 1897, a. IV, n. 1 del 5 gennaio 1899 ed a. IV n. 18 dell’11 maggio 1899, oppure lo scritto di Paolo Vernaleone I veri galantuomini sono i socialisti ne “Il Salento”, a. II del 3 gennaio 18907.

Il lettore intelligente avverte che circola in compendio in questi scritti, ma con ampia libertà, lo spirito di una componente del nostro Risorgimento, se con questo termine si intende anche la vendetta degli oppressi come condanna della fame e della miseria atavica di terre aspre ed avare e di climi malsani ed inclementi. Si rispecchia cioè in quegli scritti la provincia del nostro Salento come protesta non già contro un condizionamento ed una semplificazione in termini di rassegnata elementarità, bensì contro un modo di esistere degradato al problema assillante della sopravvivenza. E Martina sa opportunamente mettere queste circostanze in evidenza.

Negli ultimi due capitoli rispettivamente intitolati Dal socialismo al fascismo e Intellettuali e cultura a Lecce (1922-1964), Martina, attraverso una puntigliosa esplorazione della stampa e della pubblicistica del tempo, crea le condizioni documentarie della crisi storica, anche nel Salento, dell’intellettuale impegnato. Tale crisi nasce dallo stacco tra ideologia e prassi, tra produzione intellettuale e società civile in conseguenza della formazione di una vera e propria società di massa. Alla radice di essa vi sono gruppi di intellettuali di una sinistra che si vorrebbe chiamare storica perché hanno maturato una critica radicale e radical-socialista nei confronti dello stato unitario borghese uscito dal Risorgimento. Espressione di questa crisi sono gli intellettuali Vito Mario Stampacchia, Francesco Bernardini, Antonio Palmarini, Pietro Palumbo, Gaetano Contursi, ma in particolare l’attenzione di Martina si sofferma su due personalità che, in due tempi diversi, appaiono eredi e propugnatori della tradizione progressiva presente da sempre nella cultura storica post-unitaria: Pietro Marti e Vittorio Bodini, rispettivamente simbolo l’uno della crisi dell’intellettuale nel primo e l’altro nel secondo dopoguerra, ma tutti e due prova e conferma delle controspinte ideologiche potenzialmente contenute nei fatti di cultura. Essi vengono da esperienze diverse. Pietro Marti, storico di origine e formazione democratica, col suo itinerario intellettuale, dopo la frattura della prima guerra mondiale, approda al fascismo, e Vittorio Bodini, invece, dopo una breve esperienza futurista, si immerge in un bagno di crocianesimo. Comprende allora che un’epoca storica di sviluppo e di formazione dell’intellettuale italiano si è esaurita ed una nuova se ne è iniziata e Bodini giunge così a Gramsci e vi individua una reale forza motrice di rinnovamento della democrazia italiana. Gramsci significa Resistenza, un moto di popolo per salvare con una vera rivoluzione l’Italia distrutta da una falsa rivoluzione.

L’indagine di Franco Martina si ferma al 1964 e non senza ragione. Già un anno prima si è cominciato a preparare il centrosinistra, segue la fase più acuta dello scontro sociale in Italia coincisa con una sostanziale collaborazione tra lavoratori e capitalisti industriali quale passaggio dal capitalismo monopolistico al capitalismo tecnocratico da cui si sprigiona la maggior forza di corruzione per le élite operaie. Il sud, e quindi anche il nostro Salento, ne hanno sentito il contraccolpo che non può lasciare indifferente l’intellettuale e non può sfuggire al suo sguardo umanistico.

Nell’analizzare un libro, bisogna partire dalla forma, dallo stile e non c’è dubbio che la prosa saggistica di Franco Martina si caratterizza come quella di uno scrittore realista, intendendo per tale uno scrittore la cui prospettiva sia marxista e non ignori la divisione della società italiana in due classi sociali. Perciò nel libro di Martina noi rinveniamo un vero e proprio dialogo storico. Si pensi alla ricchezza bibliografica preparata dalla esplorazione degli archivi del capoluogo, dei Comuni, dei centri di studio delle province, di tutta la stampa locale e salentina, di raccolte private, di bollettini e di rassegne, di manoscritti, di memorie e collane raccolte di scrittori; si pensi all’ampiezza ed alla frequenza delle citazioni di prima mano per cui il lettore sente di trovarsi a contatto con la viva voce dei protagonisti della cultura salentina e del loro pensiero. L’interesse di questo libro rimarrà, io penso, prevalentemente morale. È la storia dell’intellettuale meridionale, e particolarmente salentino, che combatte per insegnare una lotta, è la storia della sua resistenza per insegnare la resistenza. Per questo noi ci auguriamo che esso giunga delle mani dei giovani delle nostre scuole dove, per i fatti storici, giungono i libri peggiori, che sono quelli che, in nome di una mera filologia, rinunciano ad ogni giudizio e così distorcono la realtà.

(1988)

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