Alcune immagini, quasi rarefatte, sembrano collocarsi in un tempo fuori dal tempo, in «una porcellana di mattini immobili», come si legge in una poesia di In fondo ad ogni specchio (1976); in altre, il paesaggio del Sud si carica ora di un blando surrealismo ora di cupe inquietudini, d’atmosfere lorchiane rese abilmente con tratti patetico-espressionistici.
Quasi sempre si avverte la nostalgica consapevolezza di abitare nel tempo (e nello spazio) sospeso di un paradise lost, di un paese dissacrato; altre volte, da certe vibranti increspature del testo si profilano le avvisaglie della mutazione antropologica che in quegli anni, a Taranto, faceva registrare una violenta accelerazione proprio per via dell’invasivo insediamento dell’industria pesante.
Progressivamente, e in particolare dal Capo sull’agave in poi, la prosodia di Pinto, che appare un po’ ingessata nelle prime raccolte, si affranca da una postura latamente liricheggiante, e da una pronuncia metricamente allineata ancora alle codificazioni entre-deux-guerres, poi cristallizzate nelle scelte formali di molti epigoni negli anni seguenti, per esplorare le asperità, le dissonanze di un suono casual, di un ritmo jazzato, informale e disinvolto.
Persistono, però, e sarà così anche dopo la svolta ‘industriale’ della Terra di ferro, alcuni tòpoi ricorrenti della poesia meridionale, e cioè il Sud come tema lirico-narrativo dominante; il costante richiamo alla sua storia e alle sue tradizioni; una concezione del tempo inteso più come aiòn (il tempo eterno, immobile dei greci) che come chronos (la storia spicciola, evenemenziale); il tema della radici, declinato anche come devozione filiale e culto dei defunti.
Pinto, si capisce, aggiorna questo ricco repertorio alla luce delle istanze sollecitate dall’avvento, nelle terre di Puglia, del capitalismo industriale, che introduce nuove inquietudini e contraddizioni, nuovi modi di vivere, lavorare e abitare il territorio. Tutto ciò, di solito, è rappresentato attraverso lo stigma dell’inautenticità, che è figura, a sua volta, della deriva consumistica in atto e della perdita progressiva di umanità a essa direttamente collegata.
Nello stesso periodo in cui Pinto pubblica le sue prime raccolte, in Italia esplode il fenomeno editoriale della letteratura ‘selvaggia’, espressione di autori irregolari, spesso provenienti dal mondo della fabbrica, come Vincenzo Guerrazzi, il corregionale Tommaso di Ciaula e Ferruccio Brugnaro, che infoltisce l’agguerrita pattuglia di poeti-operai capeggiata da Luigi Di Ruscio, forse il più dotato del gruppo.
Per tutti questi scrittori, e così anche per Pinto, la grande fabbrica, vissuta in prima persona, è allegoria del male, è l’emblema della disumanità e dello sfruttamento del sistema capitalistico; è un Moloch, appunto, che si nutre del sangue e del sudore di chi lì, ogni giorno, lavora e soffre e muore. La fabbrica, in una parola, è l’inferno, e per i dannati che vi lavorano la salvezza non è possibile. L’ultimo barlume di umanità lo si trova solo nella solidarietà di classe e nella consapevolezza di appartenere a una comunità che patisce e lotta insieme, unita.
In questo clima di maggiore disponibilità all’ascolto dei problemi (e dell’arte) della classe lavoratrice, e dall’emersione, in sede di dibattito critico, di queste nuove scritture operaie, la poesia di Pinto trova nuove giustificazioni, linguaggi, forme con cui confrontarsi; trova un ideale brodo di coltura, un habitat congeniale che le consente di affinarsi, scrollandosi di dosso le ultime scorie del ‘poetese’. Dopo una lunga pausa creativa, all’inizio degli anni Novanta, con La terra di ferro, Pinto raggiunge la sua piena maturità espressiva; trova, cioè, la sua vera voce. Che è anche la voce silenziosa di chi con lui ha condiviso, per lunghi anni, l’inferno dell’acciaieria: «Chi parlerà di voi uomini rossi / senza età senza bestemmie? / Chi parlerà dei vostri Natali / accanto alla ghisa lontano dai canneti / ove vivono gli ultimi gabbiani? // Pasquale Pinto è solo un uomo / costantemente denunciato / dai rivoli delle vostre fronti».
Nei versi di Pinto, la fabbrica-mattatoio di Taranto, tristo teatro di morti bianche e di continui incidenti sul lavoro, è una distopica e concretissima waste land attraversata non da uomini ma da solide ombre appesantite di fuliggine, in marcia «verso la terra del fumo / verso la terra nera».
La visita in fabbrica di Pinto si snoda come un’epopea minore, proletaria, nei reparti-gironi di una cattedrale di ferro. Nei volti, nei gesti, ripetuti all’infinito, delle larve umane che vi transitano si legge la disperata rassegnazione, la rancura dei nuovi schiavi del XXI secolo, costretti a barattare la loro libertà, le loro millenarie tradizioni contadine e marinare, in cambio di un modesto miraggio di benessere.
E appena dietro i cancelli dell’immenso stabilimento – città di veleni nella città del mito – nei pochi spazi lasciati ancora liberi dalla selvaggia colonizzazione industriale, l’abbacinante luminosità dello Ionio, deturpato da piattaforme galleggianti, binari che «sostano nell’acqua / come mussulmani scalzi», mercantili carichi di carbone; oppure la sonnolenta, meridiana indifferenza di una campagna, dove però gli alberi hanno già un «gusto di silicio», feriscono lo sguardo degli operai come un rimpianto, con l’acre nostalgia di una possibilità per sempre estromessa: «Portami a sera sui lungomari / ove le agavi sopportano le ceneri del sole / e le acque hanno sussulti sotterranei / per le fascine di ghisa affogate ogni mezz’ora».
[«La Repubblica-Bari», 26 ottobre 2023]