di Simone Giorgino
Al centro esatto della Terra di ferro (Marcos y Marcos, 2023), il poemetto-samizdat sull’Ilva di Taranto del 1992 che può essere considerato l’esito più convincente e originale del percorso creativo di Pasquale Pinto, c’è una strofa, quasi un a parte nella frenetica suite di ruvide descrizioni in atto del lavoro quotidiano in acciaieria, che recita così: «Sud mio sud / ove t’hanno portato / i riverberi delle colate? / Che ne sarà / delle tue verdure / che il mare culla come barbe di vecchi / eternamente da viziare?»
Troviamo, qui condensata, la cifra stessa dell’esperienza poetica di Pinto: l’innesto, nel tronco di una tradizione lirica meridionale, coi suoi precisi modelli, argomenti e stilemi, di una ‘gemma’ di poesia civile, dal furente afflato testimoniale, inedita o per lo meno minoritaria a quelle latitudini, rivolta a rappresentare, nel blues del suo rapsodico dettato, la perturbante eterotopia d’una fabbrica d’acciaio, uno dei più imponenti stabilimenti siderurgici d’Europa, che si staglia come un colossale tempio di Moloch nell’antico cuore della Magna Grecia.
È, infatti, la poesia di Pinto, un idillio incrostato di ruggine, che si snoda tra armonia (perduta) e disarmonia (circostante), tra appartenenza e spaesamento; ed è proprio in questo che risiede la sua originalità: nella rancorosa riterritorializzazione del ‘suo’ Sud, da limpido spazio del mito a livido teatro dell’alienazione operaia.
Pinto inizia a pubblicare i suoi versi nei primi anni Settanta in edizioni semiclandestine e ormai di difficilissima reperibilità. Le raccolte anteriori alla Terra di ferro fanno registrare un’istintiva adesione alla traiettoria tracciata a metà Novecento dai padri nobili della poesia del Sud, Quasimodo e Alfonso Gatto soprattutto.