di Daniele Capone
Per dare un titolo a questo libro abbiamo voluto parafrasare – forzandone un po’ il significato – un verso di Vittorio Bodini dedicato alla sua Cocumola perché, tra tutti i borghi e paesi che fittissimi costellano il Salento leccese, e che ancor più si addensano, quasi a toccarsi l’un l’altro, nella parte meridionale della penisola – a sud della linea orizzontale che potremmo tracciare per congiungere Otranto a Gallipoli – quelli di cui parleremo sono tra i centri che meglio conservano un’impronta fuori dal tempo, un’aura di Salento profondo. Affascinante nel suo impasto di luce e paesaggi di pietra e d’acqua, di vasti oliveti, di rilievi e pianori calcarei ricamati da relitti di antiche foreste e di sorprendenti specie vegetali, di coltivi ordinati frutto della fatica di generazioni che hanno strappato alla pietra gli spazi di terra rossa; carico di storia e storie che sopravvivono in tradizioni contadine radicate e forti come tronchi d’ulivi secolari.
Intendiamoci, qui le case non sono più tutte bianche – tra l’altro le poetiche “mani sporche di farina” del testo di Bodini non alludono solo al colore delle abitazioni – e le periferie, come dappertutto, sono cresciute secondo i discutibili canoni della modernità, affastellate stilisticamente dal gusto di geometri a loro insaputa dannunzianeggianti, improvvisati cantori del nuovo, e purtuttavia una patina antica, una sorta di malia delle cose, ha resistito in questi luoghi.
Ci siamo voluti tornare come viaggiatori d’altri tempi, di quelli che si portavano dietro un taccuino per tracciare schizzi e disegni delle contrade attraversate.