«Ma chi poteva saperlo!»
«Anche questo è vero! Poi, ho fatto un’altra scoperta. Una bella scoperta!»
«Di cosa si tratta?»
«Dietro la stufa ho trovato uno sgabuzzino, un nascondiglio per i viveri. Lì, ci sono rimaste ancora delle provviste. Un po’ di riso, una decina di chili di farina. Non è molto fresca, ma si può mangiare. I pescatori, forse, in autunno sono scappati dall’isola prima delle tempeste e nella fretta si sono scordati delle provviste. Adesso vivremo senza preoccupazioni!»
La mattina presto si avviarono alla nuova dimora. Davanti camminava Marjutka stracarica, come un cammello. Da sola portava addosso tutto quanto, niente permise di tenere al tenente.
«Lascia stare! Potresti ammalarti di nuovo. Preme più a me, per non curarti un’altra volta. Non temere! Ce la faccio benissimo! Sembro magra, ma sono sana e forte.»
Verso mezzogiorno giunsero alla casupola, spazzarono la neve dall’ingresso, con una corda attaccarono la porta di assi di legno uscita dai cardini rotti. Riempirono la stufa di pesce, accesero, si scaldavano con i sorrisi pieni di felicità sui volti.
«Che pacchia… Una vita da re!»
«Bravissima, Maša. Per tutta la vita ti sarò grato… Senza di te non sarei sopravvissuto».
«Si sa, sei uno scansafatiche!»
Tacque, sfregandosi le mani al di sopra del fuoco.
«Caldo è caldo… Però che facciamo da qui in avanti?»
«Che c’è da fare? Aspettare!»
«Aspettare cosa?»
«La primavera. Oramai è rimasto poco da attendere. Siamo a metà marzo. Ancora un paio di settimane, i pescatori, giusto giusto, arriveranno per portar via il pesce e ci porteranno in salvo.»
«Magari! Perché con pesce salato e farina mezzo ammuffita non tireremo a lungo. Giusto un paio di settimane e poi per noi è la fine, la peste dei pesci la pigli!»
«Che cos’è questa tua espressione – la peste dei pesci?… -, da dove proviene?»
«È la nostra, tipica di Astrachan. I pescatori dicono così. Per non dire le parolacce. A me non piace imprecare volgarmente, ma la rabbia a volte ti prende talmente forte. E così, mi sfogo l’anima.»
Rovistò un po’ il pesce nella stufa con lo scovolo del fucile e domandò: «Mi avevi parlato di una fiaba, quella riguardante un’isola… con Venerdì. Piuttosto che stare seduti senza far niente, raccontala. Adoro terribilmente ascoltare le fiabe. Solevano incontrarsi tante donne del nostro villaggio a casa di mia zia, portavano con sé una vecchia di nome Gugnicha. Credo avesse cent’anni allora, forse persino di più. Ricordava Napoleone. La vecchia conosceva tante fiabe, per questo la portavano e quando si metteva a raccontare, io rimanevo in un angolino come incantata. Tremavo tutta, per la paura di perdere una sola parola.»
«Vuoi che ti racconti di Robinson? Avrò dimenticato ormai una metà del libro. È da tanto che l’ho letto.»
«Tu cerca di farti tornare in mente. E tutto quello che riuscirai di ricordare, racconta.»
«Va bene. Ci provo.»
Il tenente socchiuse gli occhi, cercando di rammentare.
Marjutka distese il pellicciotto sui tavolacci, si accomodò nell’angolino vicino alla stufa.
«Vieni, siediti! Qui nel cantuccio è molto più caldo.»
Il tenente salì e si mise lì, dove indicava Marjutka. La stufa si arroventò, li investì di una piacevole ondata di caldo.
«E allora, cosa aspetti? Dài, incomincia. Non vedo l’ora. Adoro ascoltare le fiabe!»
Il tenente si appoggiò sui gomiti. Cominciò: «Nella città di Liverpool visse un ricco uomo di nome Robinson Crusoe…»
«Dov’è che si trova la città?»
«In Inghilterra… Visse un ricco uomo di nome Robinson Crusoe…»
«Aspetta un attimo!.. Ricco, dici? Chissà perché in tutte le fiabe viene raccontato dei ricchi e dei re? E dell’uomo povero neppure una è stata creata.»
«Non lo so,» – rispose il tenente perplesso, – «a me questo non è mai neanche passato per la mente.»
«Dev’essere perché soltanto i ricchi scrivevano le fiabe. È la stessa identica cosa che capita a me. Voglio scrivere una poesia, ma non ho l’istruzione adeguata. Però io, certamente, avrei scritto qualcosa di bello di una persona povera. Ma non fa niente. Andrò un giorno a studiare, allora sì che scriverò…»
«Sì… Dunque, si propose Robinson Crusoe di fare un viaggio attorno al mondo. Per vedere come la gente vive. Quindi partì da Liverpool su un grande veliero…»
La stufa scoppiettava di calore, a gocce ritmiche, persuasiva si riversava nell’ambiente la voce del tenente.
A mano a mano ricordando, ce la stava mettendo tutta per narrare con ogni minimo particolare.
Marjutka s’immobilizzò, esclamando con ammirazione ed entusiasmo un ‘ah’, nei passaggi più significativi del racconto.
Quando il tenente descrisse il naufragio del veliero di Robinson, Marjutka mosse con disapprovazione le spalle e chiese: «E così tutti tutti tranne lui son affogati?»
«Sì, tutti quanti.»
«Probabilmente, una testa di rapa avevano per capitano o si sarà ubriacato sino a vedere dei sorci verdi, prima del naufragio. Per nulla al mondo, crederei che un buon capitano faccia finire tutto l’equipaggio con i passeggeri nel fondo marino. Successero parecchi naufragi da noi, sul Caspio, ma tutt’al più due, tre uomini affogavano, gli altri invece, guarda, si sono salvati.»
«Perché? Abbiamo perso Semjannyj e Vjachir’, sono affogati. Significa allora che tu sei un pessimo capitano o che ti sei ubriacata sino a vedere dei sorci verdi, prima del naufragio?»
Marjutka rimase sbalordita.
«Questo sì che è punzecchiare, la peste dei pesci ti pigli! Dài, continua a raccontare!»
Al momento dell’apparizione nel racconto di Venerdì, Marjutka di nuovo interruppe: «Ora capisco, perché mi chiamavi Venerdì! È come se fossi tu Robinson e io Venerdì. Ma Venerdì, stai dicendo, era nero? Un negro? Mi è capitato di vedere un negro. Al circo, ad Astrachan. Era tutto peloso, i labbroni grossi, ecco, così! Il muso spaventoso! Noi, ragazzini, lo rincorrevamo e, prendendolo in giro, urlavamo: “Grugno di un porco, vuoi mangiare le orecchie del tuo fratello porco”, e facevamo il verso del maiale. Si arrabbiava molto, poveretto. Ci tirava addosso le pietre.»
Quando il racconto arrivò al punto dell’assalto dei pirati, Marjutka abbagliò il tenente con gli occhi: «In dieci contro uno? Razza di teppisti, la peste dei pesci li pigli!»
Il tenente finì il racconto.
Marjutka si rannicchiò in un atteggiamento sognante, accostandosi alla sua spalla. In semiveglia, miagolò: «Ma quanto è bello. Saprai molte altre fiabe, certamente! Raccontamene una, ogni giorno.»
«È così che vuoi? Ti è piaciuta allora?»
«È bellissima! Fa venire dei brividi. È un bel passatempo per ammazzare le lunghe serate. Così il tempo passerà velocemente!»
Il tenente fece uno sbadiglio.
«Hai sonno?»
«No… È la debolezza, postumi della malattia.»
«Povero mio, si è indebolito!»
Marjutka sollevò una mano e accarezzò dolcemente i capelli del tenente. Il tenente con meraviglia la guardò con le sue sferette blu oltremare.
Spirò un’irresistibile ondata di tenerezza nel cuore di Marjutka. Come in un oblio, si chinò sulla guancia smagrita e non rasata del tenente e vi impresse sopra le sue irruvidite, asciutte labbra.
(continua)
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]