Poi, “Il serpente”. Il protagonista di questo romanzo vuole trovare un posto silenzioso ( perfettamente silenzioso) e buio ( perfettamente buio) per poter cancellare tutto, per scordare la sua storia inventata, per sottrarsi alla fantasticheria che lo ha aggredito e trascinato sull’argine della follia.
Il silenzio come un rasserenante “ altrove” dove è possibile ricostruirsi una identità, ritrovare le ragioni radicali dell’essere, il senso dell’esistere stravolto dai riflessi abbacinanti di un esistere inventato. Il silenzio è un’aspirazione che tenta di realizzarsi in forme diverse proponendosi come fantasiosa invenzione oppure come necessità di superare la soglia dell’espressione verbale per raggiungere un’espressione pura, immutabile, perfetta.
Se la parola appartiene alla sfera dell’imperfezione, del corruttibile, del fraintendimento, il silenzio appare come la conquista di un’espressione che non ha bisogno di alcun medium, che non è traduzione del pensiero ma è il pensiero, che è in grado di far significare le cose senza designarle; è un linguaggio che abolisce ogni distanza tra l’oggetto e il suo nome, tra l’io e l’altro, tra il sentire e il dire: un linguaggio profondo, leggero, totale, senso che rompe l’involucro del segno; una sorta di atto magico, un’arte.
In tutta l’opera di Malerba, il silenzio è condizione che si oppone alla parola, in alcune situazioni riducendone ogni facoltà, degradandola a forma inespressiva, a tic che scarica una tensione in altre superandone tutte le facoltà. Ma soprattutto è consapevolezza che esiste un evento, un’idea che è impronunciabile, che si nega ad ogni metafora, a qualsiasi discorso.
Il linguaggio in Malerba agisce sempre ai confini del reale, del conoscibile, dell’immaginabile, dell’ipotizzabile, del sogno, tende continuamente allo sconfinamento nei territori della finzione. Spesso il linguaggio preesiste alla realtà, assume il valore di un fenomeno totale capace di tradurre in espressione qualsiasi condizione esistenziale, qualsiasi contenuto del pensiero. Eppure, nonostante la potenza generativa e rigenerativa, il linguaggio vive costantemente in una situazione di precarietà, di inadeguatezza, nella continua difficoltà di esprimere il senso e la sensazione, irrigidito dall’ossessione di potersi trasformare in strumento di falsificazione del senso e della sensazione.
Dice un personaggio dei “Cani di Gerusalemme”: “Il linguaggio, Ramondo, ricordatelo. Il linguaggio è tutto. Prima viene il linguaggio e dopo, se c’è, viene il mondo”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 agosto 2024]