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Inizio a leggere Emanuele Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1984. La leggo nella nona edizione BUR Supersaggi: maggio 1997, da cui eventualmente citerò.
3 dicembre 1997
Ho riletto alcuni miei lavori su Dante, in particolare sul II e XXX del Purgatorio, apportandovi poche correzioni.
Ho riletto ancora una volta le poesie sistemate in sezioni. A questo proposito, deve dire che sin da quando ho scritto i primi versi, ho sempre avuto l’abitudine di ripetere, a volte a memoria, le mie poesie, più e più volte; probabilmente in questo vi è una carica narcisistica; ma credo anche che così facendo io riesca a rendermi meglio conto della qualità dei miei versi e della loro durata. I versi che non amiamo ripetere probabilmente sono di mediocre qualità e non durano l’espace d’un matin. I versi che ci ritornano in mente, e anche a distanza di molti anni, per ciò stesso ci garantiscono della loro qualità e durata. Del resto questo accade anche a proposito dei film. Se un film ci ha deluso, probabilmente non lo rivedremo mai più. Al contrario, se un film ha colpito la nostra sensibilità, torneremo a vederlo ancora, per chissà quante volte. Es. Il Gattopardo, Barry Lindon, eccetera.
Ricordo ancora a San Giorgio a Cremano, una notte d’inverno fino all’alba e oltre, nei pressi di una garitta: recitavo le mie poesie, e Leopardi e Dante e Montale. E non per tenermi sveglio, ma per farmi forza, per oppormi all’inutilità di quel servizio, al caos che ne derivava nella mia mente di fante trasmettitore.
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La poesia deve essere chiara e limpida come un notte di tramontana e non deve indulgere ad alcun artificio. L’artificio, ove ci sia, deve essere finalizzato alla chiarezza e deve assomigliare alle stelle del cielo grazie alle quali meglio si può vedere la sua limpidezza.
La poesia deve avere le vesti succinte come una giovane donna che non nasconda né profonda la sua bellezza, ma la mostri così da avvincere senza passare inosservata e senza dare scandalo.
La poesia deve infondere nel lettore un senso di felicità non con inutili patetismi, ma dandogli la certezza di avere per un istante conosciuto la verità.
4 dicembre 1997
Il Mamiani a Roma sgomberato dalla polizia, i nostri allevatori strapaesani bastonati di santa ragione, gli Albanesi fatti rimpatriare volenti o nolenti, la scuola privata finanziata dallo Stato in barba alla Costituzione, la RAI occupata e palesemente censurata: non c’è che dire, al governo dell’Ulivo, primo della sinistra nella storia repubblicana, si può benissimo adattare l’aforisma che Hobsbawm dedica al comunismo, quando scrive nel Secolo breve, cit., p. 493: “Il paradosso del comunismo una volta giunto al potere è stato quello di essere conservatore”.
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Comincio a leggere due libri: un saggio di Harold Bloom, Il canone occidentale, Bompiani, Milano 1996 [1994] e un romanzo di Roberto Cotroneo, Otranto, Mondadori, 1997. Riporterò citazioni da entrambi.
Ho letto le prime pagine di Otranto in cui Cotroneo narra la storia di una restauratrice che giunge a Otranto per lavorare al restauro del mosaico di prete Pantaleone nella locale Cattedrale dei Santi Martiri e rimane irretita nei paesaggi solari e sensuali (a p. 31 mi ha colpito la suggestione della frase: “E pensai che l’erotismo vive nella ripetizione…”) della località salentina. Confesso di essermi procurato questo romanzo per pura curiosità, più che intellettuale, municipale. Tra l’altro vi si parla anche di un vecchio di Galatina che si reca a pregare nella vetusta cattedrale. Dominante è il tono patetico-esistenzialista tendente a evocare chissà quale realtà misteriosa. A p. 42 trovo questa definizione: “(…) Otranto non è una città di mare, ma una città con il mare. Dopo lo sbarco dei turchi i pescatori abbandonarono le loro barche, e i pochi che sopravvissero scapparono nell’entroterra, tra queste valli, e divennero coltivatori; e il mare finirono col guardarlo con odio e timore”.
Vedremo come evolve la storia.
Dell’altro libro ho letto le prime pagine e voglio riportare alcune citazioni. La prima, a p. 2 dà ragione del titolo, poiché il lettore si chiede innanzitutto che cosa “renda canonici l’autore e le opere. Per lo più la risposta è risultata essere la singolarità, un tipo di originalità che non può essere assimilata o alla quale ci abituiamo tanto da cessare di considerarla singolare”. Alle pp. 3-4, a proposito di Dante, afferma: “Un segno di originalità capace di assicurare status canonico a un’opera letteraria è una singolarità che mai assimiliamo del tutto…”. A p. 5: “(…) il tocco dell’originalità deve sempre covare in un aspetto inaugurale di ogni opera che incontestabilmente vinca l’agone con la tradizione e si unisca al Canone”. A p. 6: “Agli scrittori contemporanei non piace sentirsi dire che devono competere con Shakespeare e con Dante, eppure quella lotta è stata per Joyce la provocazione alla grandezza, a un’eminenza condivisa, tra i moderni autori occidentali, solo da Beckett, Proust e Kafka”. A p. 7: “Ogni robusta opera letteraria creativamente fraintende e pertanto interpreta erroneamente il testo o i testi precursori”. Sempre a p. 7: “La tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione: è anche un conflitto tra genio passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza letteraria ovvero l’inclusione nel Canone”. A p. 9: “La profondità dell’interiorità in uno scrittore robusto è la forza che tiene alla larga il massiccio gravame di realizzazioni passate, pena altrimenti che ogni originalità sia schiacciata prima che divenga manifesta; e la grande scrittura è sempre riscrittura o revisionismo e si fonda su una lettura che lascia spazio per l’io e che agisce in modo tale da riaprire vecchie opere a nostre nuove sofferenze”.
Direi che c’è quanto basta per continuare la lettura.
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A p. 17 del Canone occidentale leggo: “Il Canone, termine di origini religiose, è divenuto una scelta tra testi in lotta tra loro per la sopravvivenza, che la scelta la si interpreti come compiuta da gruppi sociali dominanti, istituzioni didattiche, tradizioni critiche o, come faccio io, da autori nuovi-venuti che si sentono prescelti da particolari figure ancestrali”.
7 dicembre 1997
È molto probabile che il governo dell’Ulivo, che certamente passerà alla storia come il primo governo stabile dal dopoguerra ad oggi, abbia inaugurato una nuova forma di trasformismo, diversa da quella d’origine ottocentesca che vedeva il passaggio dalla destra alla sinistra, e viceversa, di parlamentari appartenenti ad una delle due aree politiche. Ora accade invece che la sinistra faccia deliberatamente una politica di destra, in barba a tutti gli ideali e i principi sbandierati da decenni. Perché questo accade? Probabilmente il popolo della sinistra, come si dice, non avrebbe tollerato un immiserimento della sua condizione se questo fosse stato provocato dalla destra, nemica storica. È una questione d’orgoglio, se si può dire questo in riferimento ai comportamenti di massa.
La questione può molto insegnare sul conto delle élites politiche che dirigono le masse, e che, nel momento in cui credi stiano facendo gli interessi delle stesse, in realtà conducono il gioco a prescindere da esse, ed anzi sfruttandone malumori o momenti di grazia, al fine di migliorare la loro condizione di élite sociale.
La questione ci interessa anche da un altro punto di vista, e cioè per il fatto che questi cambiamenti riguardanti il comportamento politico dimostrano come il mondo della politica sia governato da leggi che sovrastano il singolo politico e finanche il singolo raggruppamento, e rispondono a un’esigenza superiore che politica in senso stretto non è, ma è probabilmente socio-economica. Uso questa definizione per indicare la formazione sociale e economica del capitalismo. L’assetto capitalistico del nostro mondo prevede difatti una società massificata di consumatori dipendente da una economia che solo in riferimento a quel tipo di società può riprodursi e accrescersi. La politica è destinata a gestire questo assetto, senza goderne gli utili, o godendone solo temporaneamente e parzialmente, poiché essa è destinata a pagare lo scotto della prima crisi economica che si verifichi durante una gestione politica. Per questo motivo, quando due anni fa Berlusconi “scese in campo”, io capii che quello era l’inizio della sua decadenza.
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Naturalmente la qualità d’un politico sta anche nel mantenersi a galla nel mare procelloso, tra le onde che lo sommergono, talvolta anche facendo il morto.
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Bisogna riflettere su questa frase di Hobsbawm, Il Secolo breve, p. 542: “L’organizzazione piuttosto che la dottrina fu il principale contributo del boscevismo leninista alla trasformazione del mondo”.
Ciò vuol dire che le idee professate da Lenin in realtà, considerate col senno di poi (ma storia non si può fare diversamente), non sono altro che la parte caduca del suo pensiero e della sua azione, che hanno assolto, invece, una funzione essenziale laddove hanno dato all’umanità un’organizzazione centralizzata, ovvero l’hanno dotata d’una strada da seguire, di una meta da raggiungere, e perciò di tutta una serie di regole da rispettare, imposte da una forte direzione politica, tutte cose che da ultimo, con la caduta del muro di Berlino, si sono dissolte nel nulla.
Ora, non ci vuole una profonda mente speculativa per capire che questo contributo alla storia dell’umanità non può essere considerato appannaggio esclusivo del leninismo. Il fascismo, il nazismo, le democrazie occidentali (Inghilterra e USA) soprattutto nel loro momento di reazione al nazismo, hanno operato in egual modo, seguendo gli stessi principi. Così la Cina di Mao ecc. Il che vuol dire che l’umanità tutta, in forme diverse, si è organizzata nel corso del XX secolo in modo tale da far fronte alla crisi del vecchio mondo, sostituendo ad esso una nuova gerarchia, un nuovo ideale, nuovi metodi.
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I grandi massacri del nostro secolo non sono che un modo per chiudere i conti definitivamente con la storia, sigillandone le atrocità e le ingiustizie con l’unico sigillo adatto, quello delle stragi e delle violenze che hanno contraddistinto la storia del passato. La dimensione inedita di quei massacri è dipesa dal fatto che gli uomini del vecchio mondo, animati dal loro vecchio odio, potevano utilizzare strumenti nuovi di distruzione di massa, e non esitarono a farlo.
La classe dei contadini ebbe il suo massacro nei giorni di Caporetto, gli Ebrei nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale.
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Il vecchio mondo ha odiato gli Ebrei, fino al punto di pianificare il genocidio. Il nuovo mondo capitalistico li ha dotati di una terra, e li utilizza come baluardo dell’Occidente in Medio-oriente.
Il capitalismo per sua natura cerca di non uccidere, e non per obbedienza al precetto cristiano, ma perché ogni uomo è un consumatore, quindi elemento essenziale del capitalismo medesimo. Il capitalismo anzi cerca di procrastinare la vita a tutti gli uomini. Semmai, il capitalismo consuma la vita degli uomini, ma molto lentamente, affinché essi, a loro volta, abbiano il tempo di consumare quanta più merce è possibile.
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La prima guerra del nuovo mondo è la guerra del Golfo del 1991, in cui la volontà di usare precisione negli attacchi (si parlò allora di attacchi aerei chirurgici), di risparmiare vite umane è stata deliberatamente contrapposta a chi avrebbe potuto usare armi di distruzione di massa, chimiche, batteriologiche, nucleari, eccetera. La tecnologia ultramoderna ha fatto la sua prova più significativa contro gli arretrati della storia. In quella guerra ci furono pochissimi morti nello schieramento occidentale, moltissimi nell’esercito dell’Iraq, a dispetto della chirurgia.
8 dicembre 1997
Per non appesantire troppo questo diario riporto tutte le citazioni che ho tratto dal volume di Bloom e riportato su altri files, in particolare su quelli già aperti e dedicati alle note bibliografiche e alla critica dantesca.
Bloom mi dà la possibilità di riflettere sul concetto di finzione letteraria. L’Alighieri credeva o no al racconto del suo viaggio oltremondano? La risposta che dà Bloom è questa: “Personalmente, quale studioso della gnosi sia poetica che religiosa, ritengo il poema non essere né verità né finzione letteraria, ma piuttosto cognizione di Dante, che il poeta scelse di denominare Beatrice. Chi conosca con la massima profondità, non decide per forza di cose se si tratti di verità o di finzione; ciò che primariamente sa è che il sapere è suo proprio.” (Il Canone occidentale, cit., p. 88).
La posizione di Bloom ha in sé molto di vero, laddove riconosce autonomia alla “sapere proprio” di Dante, alla sua “cognizione“; ma Bloom ha anche il torto di non accogliere nel suo profondo significato la definizione di “finzione letteraria” che è la verità della letteratura, il campo autonomo delle sue realizzazioni pratiche, che sono poemi, prose, romanzi, eccetera. Dante ha creduto alla realtà del suo viaggio? Sì, nella misura in cui ha creduto nella verità della sua finzione letteraria.
Benché l’Alighieri sia lontano da noi ben sette secoli, non si può dubitare che il suo modo di ragionare, le sue strutture mentali siano diverse – mutatis mutandis – dalle nostre, uomini alle soglie del XXI secolo.
Le mie poesie raccontano la mia storia, eppure esse sono pura finzione poetica, letteraria; per nulla al mondo potrei sostenere che l’io poetico dei miei versi si identifichi con la mia persona, con la mia vita fin qui realizzatasi nel tempo. La mia storia, dunque, non è stata che l’occasione, che mi ha consentito di scrivere poesie, allo stesso modo che uno scrittore di fantascienza ha avuto l’occasione di scrivere i suoi romanzi perché conoscitore della scienza e delle sue possibilità.
9 dicembre 1997
Continuo a leggere Otranto di Cotroneo che risulta avvincente e molto suggestivo. È tutto giocato sul contrasto-affinità tra i paesaggi olandesi e salentini (otrantini), tenuti insieme dall’esperienza di una restauratrice del mosaico del prete Pantaleone posto nella Cattedrale dei Martiri. Abbondano, com’è ovvio, i riferimenti alla luce, ai colori ecc. La storia tragica dei martiri di Otranto si intreccia con quella altrettanto tragica della restauratrice che è anche la narratrice, vivente tra sogno, allucinazione e realtà; il libro è diviso in capitoli, a ognuno dei quali l’autore premette una paginetta tra parentesi, di cui non ho ancora ben capito la funzione. Vedremo dove la storia andrà a parare.
Sto per concludere la lettura di Hobsbawm, mentre trascuro un po’ Severino. Ho letto il III capitolo di Bloom, Il Canone occidentale, dedicato a Dante. Mi piace la sua polemica contro la scuola dantistica americana imperante presso i pappagalli italiani, e quindi contro “le sirene allegoriche”. Giustissimo!
Sto per concludere anche la lettura del De brevitate vitae di Seneca, che ho iniziato a leggere qualche tempo fa e ho spesso intermesso, distratto da più amene letture.
13 dicembre 1997
Giulia ha ricevuto stamani il regalo di Santa Lucia (ieri pomeriggio siamo stati a Bergamo, per vedere le bancarelle, e lì ha ricevuto in regalo da parte di zia Milena un paio di guantini), portatole dalla nostra padrona di casa: una bambolina, tante caramelle, un torroncino eccetera. In Val Brembana la festa di Santa Lucia, protettrice dei bambini, è molto sentita e dà il via alle festività natalizie. Si avverte nell’aria l’arrivo del Natale. Fra una settimana ci metteremo in macchina per raggiungere i nostri genitori a Galatina. Siamo tutti contenti, perché tutto procede nel migliore dei modi. Non metto nel conto le nausee di Ornella, più che naturali nel suo stato di gravidanza. La mia ex-padrona di casa, la Sig. Chiesa, dice che sarà un maschio, perché le nausee di Ornella sono intense e persistenti.
Il problema che spesso mi pongono in molti è questo: dal momento che hai già una figlia, non preferiresti forse la nascita di un maschio? In verità, sarei falso se lo negassi, ma credo nello stesso tempo che la domanda sia mal posta, o meglio che mi sia posta per crearmi inutili problemi di coscienza. Di fatto, di qualunque sesso sia il nascituro, sarò lieto quando nascerà, poiché quando ho deciso insieme a Ornella di mettere al mondo un bambino, sapevamo di non essere in grado di prevedere il sesso.
Ho lavorato ancora, e dopo molti mesi, al mio lavoro su Dante, confutando il Singleton con il Bloom che sto leggendo in questi giorni. Del Bloom mi sembra fondamentale l’invito a “sfuggire alle sirene che ci cantano l’allegoria dei teologi” (p. 93).
Ieri sera ho acquistato lo Zibaldone di Leopardi curato da Rolando Damiani, a £ 160.000, approfittando di uno sconto di £. 40.000: è un regalo che mi faccio per Natale, con qualche scrupolo di coscienza per via delle mie magre finanze, e col pensiero che forse tolgo qualcosa a mia figlia. Ma Giulia mi ha assicurato che da grande leggerà lo Zibaldone.
Stasera finirò di leggere Otranto e Il secolo breve.
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Sera: ho finito di leggere Cotroneo che mi ha decisamente deluso, poiché, come ho già detto, la sua scrittura si ferma sulla soglia della suggestione impressionistica. Del resto, mi sembra che in più di un’occasione egli se ne accorga, almeno questo traspare da alcune affermazioni della sua stravagante e ossessiva narratrice. Il romanzo, come leggo a p. 152, si fonda sulla “suggestione delle coincidenze”, così come la vita della protagonista è simile, come è scritto a p. 169, a “un susseguirsi continuo di circostanze strane”, sicché alla fine (p. 240) la stessa protagonista narratrice (ma un lettore sa che dietro di lei c’è il Cotroneo) sbotta: “Ma ne avevo abbastanza di queste suggestioni: le suggestioni di una donna obbligata a una vita che altrimenti si sarebbe ripetuta uguale a se stessa nella quotidianità di gesti lenti e discreti, sempre uguali, di case dai colori morbidi, rassicuranti e un po’ spenti”. Insomma, se è questo che dice la protagonista, e dietro di lei il Cotroneo, figuriamoci il lettore!
Con questo il mio conto col Cotroneo, almeno per il momento, è chiuso.
Smetto di scrivere perché devo finire di leggere Il secolo breve.
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Prima di leggere le ultime pagine del Secolo breve penso che uno strano caso, veramente suggestivo, mi ha condotto a Dossena quest’anno, per nove mesi, giusto il tempo per veder nascere mio figlio o figlia, concepito/a con ogni probabilità proprio a Dossena; e mi piace l’idea che ho avuto di scrivere in questo tempo un diario.
Penso infine che dovrò continuare il racconto sul lupo di Dossena, ormai da tempo intermesso e che dovrò terminare (ma mi manca poco a finire) la riscrittura del diario del 1985.
16 dicembre 1997
Estenuato, stanco, torno a casa in macchina, attraversando boschi bui, percorrendo una strada innevata, senza catene. Da casa, ascolto il silenzio della neve che cade, il rumore distinto delle auto che avanzano piano, il buio. Un collegio dei docenti ha il potere di togliermi ogni energia, di impedirmi di pensare. Sta arrivando il Natale. Proprio oggi ho distribuito una fotocopia ai miei allievi di prima, la poesia di Guido Gozzano dal titolo Natale, che i miei insegnanti venticinque anni fa mi fecero imparare a memoria, e io, a mia volta, faccio imparare ai miei allievi. In tutto questo io vedo qualcosa di più d’una semplice ripetizione di un’esperienza già fatta, vedo la mia fanciullezza, il mio mondo perduto irrimediabilmente. Io sono profondamente conservatore, e forse questa ne è la prova. Probabilmente il rispetto della tradizione non è che il sintomo di un attaccamento alla propria prima giovinezza, al tempo in cui la nostra mente venne formandosi, assumendo la struttura che avrà poi per il resto della vita. Per essere insegnanti forse bisogna essere e rimanere bambini, ragazzi, adolescenti, perché solo così si può parlare ai ragazzi nella speranza di essere capiti, e si può capirli. Ma l’insegnante non è un bambino, e porta con sé la tragicità della propria condizione di adulto che rimane bambino, ovvero di bambino consapevole del proprio ruolo e della propria condizione di adulto. Sembra un contrasto di parole, ma in realtà questa è la vita dell’insegnante che non voglia pontificare ex cathedra. L’insegnante mi appare ora una figura triste, poiché porta con sé nelle sue lunghe giornate il rimpianto del proprio mondo perduto.
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È strano il modo in cui spesso mi si affacciano alla mente i momenti poetici, e cioè nella forma di similitudini.
Leggevo poc’anzi il giornale, distratto dal silenzio della strada innevata e all’improvviso penso
come il silenzio della neve
e ho l’impressione che questa sia una similitudine di cui non conosco il primo termine: quasi mi sento preso da panico. Penso e ripenso e alla fine deduco che un primo termine non c’è, che sia dunque vano cercarlo, o meglio che con ogni probabilità il primo termine sia dentro di me, e che sia il mio pensiero esausto. Allora mi decido a scrivere così:
Il mio pensiero è
come il silenzio della neve.
Ma ciò non basta, poiché sento che altro deve essere detto:
rotto dalle catene della strada.
Poi credo opportuna questa variazione:
Il mio pensiero è come
il silenzio della neve
rotto dalle catene della strada.
Infine, mi persuade la seguente inversione dei termini:
Il mio pensiero è come il cigolio
delle catene che rompono
il silenzio della neve.
Così nasce una mia poesia.
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Ieri ho partecipato a una riunione dei precari di Bergamo, presso l’aula di Fisica del Magistrale “Suardo”. Mi ha convinto il giudizio di un tale, secondo cui per la prima volta nella storia della scuola italiana dal dopoguerra una fetta importante del personale docente (si parla di 100.000 precari) sarebbe priva di referenti politici. È vero, ed è naturale che sia così. Il nostro essere precari, difatti, ci colloca ai margini della società, e non ci consente di schierarci con nessuna forza politica. Noi non siamo politici, ma extra-politici, cioè estranei al mondo dei cosiddetti insider: noi siamo outsider.
A riprova di quanto ho appena detto, mi sembra che il mio disinteresse nei confronti delle discussioni-fiume nei collegi-docenti, o nei consigli di classe sia da ricondurre proprio a questo mio essere precario, al mio essere extra.
Tuttavia, questa mia posizione mi consente anche di guardare in modo direi spregiudicato allo sciocchezzaio dell’attuale mondo scolastico, e non solo. La mia posizione è assai intransigente e radicale, come quella di Dante, che face parte per sé stesso.
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A proposito di Dante, penso proprio che per scrivere sopra un autore bisogna avvertire una sorta di affinità elettiva, e che dunque non basti un semplice interesse di studioso per capire il mondo intellettuale, cioè la vera vita, di un poeta. Così, uomini del passato, grazie alla letteratura, vivono in uomini del presente; ma di essi vive la forma mentis, la struttura del loro pensiero e delle loro reazioni affettive e sentimentali, non il contenuto delle loro idee. Di Dante a pochi importa conoscere per esempio la struttura dettagliata dell’Inferno, la sua topografia (che ogni allievo dimentica dopo averla imparata a memoria), a molti invece la ragione della sua raffigurazione dell’oltremondo (che nessuno sembra conoscere); questo rimane vero anche se la pigrizia intellettuale dei professori ama perdersi nei labirinti della struttura, piuttosto che studiare le cose semplici ed essenziali.
18 dicembre 1997
È proprio vero che il procedimento michelangiolesco di togliere materia dal blocco di marmo per cavarci l’opera d’arte, è valido anche per la poesia. Difatti, se avessi ritenuto validi tutti i versi che ho scritto finora e che ho poi ripudiato, la mia raccolta sarebbe molto voluminosa; e invece assomma a non più di cinquanta poesie. La scrittura è come il mosto che bisogna lasciar fermentare prima di travasarlo nella botte dove sarà conservato sotto forma di vino, e la decisione di accogliere come valida la poesia non può che avvenire dopo un tempo più o meno lungo, sempre dopo attenta meditazione. Alle volte non è neppure un’accurata meditazione che può decidere la sorte di una poesia, bensì l’istintivo, infallibile sentimento del poeta che scopre in una poesia dapprima composta e apprezzata, una sorta di disarmonia, di contrasto col resto della raccolta: quella poesia non offre in quel caso una buona compagnia alle sue consorelle, ma è piuttosto una dea della discordia che si presenta senza essere stata invitata al banchetto di Peleo e Teti. La misura, che il poeta con la sua tecnica, col suo affannarsi, ricerca, è raggiunta solo al prezzo di ripudiare più e più versi che indeboliscono la saldezza, la forza del discorso poetico. La natura provvede nel mondo animale a uccidere i piccoli di un animale che non potrebbero essere sfamati dai genitori e che con la loro semplice presenza costituiscono un danno per il resto della famiglia; allo stesso modo il poeta, per salvaguardare l’equilibrio dell’opera poetica, sa sacrificare molti suoi versi. E se l’opera nel suo insieme lo soddisfa, non prova neppure un gran rimpianto.
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Il difetto principale dell’insegnante di scuola media superiore che continui ad agire da insegnante fuori della sede scolastica dove si svolge di norma il suo lavoro, è il protagonismo, e nasce dalla volontà di imporre il proprio punto di vista e dall’impossibilità di imporlo per la notoria mancanza di autorità dell’insegnante medesimo. Sicché il protagonismo è una manifestazione di desiderio frustrato, che ottiene una ricompensa nel chiuso della classe, laddove il professore può prendersi la rivincita usando l’arma del voto che inevitabilmente limita la volontà altrui, poiché ogni valutazione è una limitazione. È chiaro altresì che questa ricompensa non è sufficiente all’insegnante, perché egli sa bene che la sua autorità è limitata alla classe in cui insegna, e questo aumenta il suo senso di frustrazione.
19 dicembre 1997
Ho fatto vedere ai miei allievi di prima e di terza il film di Charlie Chaplin, La febbre dell’oro, e ne sono stati entusiasti. Questo film in effetti è pervaso da una sorta di grazia quale solo i capolavori conoscono. Indimenticabili le scene in cui Giacomone e l’omino mangiano la suola e la tomaia della scarpa di Charlot, e la scena in cui l’omino sogna il valzer dei panini. Veramente sono due scene che significano bene la grandezza di Chaplin, poiché in esse si riassume tutta la levità e la profondità della sua arte. Un pasto a base di scarpa in brodo e un valzer di panini sono due metafore equiparabili allo stesso personaggio dell’omino Charlot, e significano l’inadeguatezza, l’inutilità, la insignificanza, l’impossibilità umana nell’epoca contemporanea. Questa rappresentazione è sovrumana, irrazionale, e la comicità che ne deriva nasce da una tragicità che non può rimanere celata allo sguardo dello spettatore che ride. Il riso in questo caso è una grande invenzione.
Chaplin è l’erede moderno di Rabelais.
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Leggo in Zibaldone, 5 (l’ed. è citata in appresso) di Leopardi questa frase che trascrivo: “Per guardarci dai vizi e dalla corruzione dello scrivere adesso è necessario un infinito studio e una grandissima imitazione dei Classici, molto molto maggiore di quella che agli antichi non bisognava, senza le quali cose non si può essere insigne scrittore, e colle quali non si può diventar grande come i grandi imitati”.
Io sottoscrivo per intero l’opinione di Leopardi, con l’eccezione delle parole da me scritte in corsivo, poiché credo che gli antichi non abbiano dovuto fare una fatica minore rispetto a quella che ha fatto Leopardi o dobbiamo fare noi per divenire scrittori di riguardo. L’opinione di Leopardi sottintende l’idea che occorra gareggiare coi “Classici” per divenire “insigne scrittore”, laddove invece oggi si taccerebbe di presunzione chi si arrischiasse a proferire una simile verità. L’osservazione appartiene a Bloom, Il Canone Occidentale, cit., p. 6, ed è quant’altre mai vera e profonda. Occorrerebbe stabilire però la ragione di una simile idiosincrasia degli autori contemporanei, che a mio avviso è da rintracciare nell’opinione consolidata da un secolo di avanguardie artistiche, le quali, rinnegando la tradizione, l’hanno resa odiosa, a tal punto che oggi nessuno ardisce riesumarla. Eppure, che si debbano studiare i classici, che con loro sia necessario confrontarsi, e che questo serva per divenire anche oggi “insigne scrittore”, è vero, verissimo. D’altra parte, la taccia di presunzione è dovuta all’alone di sacralità di cui la modernità ha circondato i nomi dei classici, impedendo ai più di accostarvisi con animo sereno. Gli opposti, come suole, coincidono.
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La mia lettura durante le vacanze sarà lo Zibaldone di Leopardi, da me già letto nell’edizione curata dal Flora molti anni fa, all’incirca quando avevo ventidue anni. L’edizione che qualche giorno fa – come ho già detto – ho acquistato è quella dei Meridiani Mondadori curata da Ronaldo Damiani sul testo del benemerito Giuseppe Pacella. Oltre a questa lettura, leggerò le riviste che ricevo a Galatina, e altri libri, come più mi piacerà, dalla mia bibliotechina galatinese.
Insomma, ho proprio voglia di spassarmela.
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Vale la pena meditare su questa frase di Leopardi, in Zibaldone, 13:
“L’efficacia dell’espressione bene spesso è il medesimo che la novità. Accadrà molte volte che l’espressione usitata sia più robusta più vera più energica, e nondimeno l’essere ella usitata le tolga la forza e la snervi; e il poeta sostituendo in suo luogo un’altra espressione men robusta, forse anche men propria ma nuova, otterrà un buon effetto sulla fantasia del lettore, ci sveglierà quell’immagine che l’altra espressione non avrebbe potuto eccitare; e la sua frase sarà veramente più efficace, non per se stessa, ma per la circostanza dell’esser nuova”.
Da notare l’importanza che Leopardi rivolge al lettore nel determinare la forza espressiva della scrittura, valutata in base all'”efficacia”. Ma la “novità” è nozione vaga e imprecisa. Bisogna cioè stabilire che cosa s’intende per “novità”, dal momento che nihil sub sole novi. La “novità” che Leopardi individuerebbe nella “naturalezza” dell’espressione, per noi è nella criticità del discorso, nella sua inattaccabilità, nella sua verità filosoficamente fondata. Un’espressione nuova è ciò a cui qualsiasi scrittore contemporaneo aspira, come a qualcosa che di per sé è negata al comune mortale.
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Interrompo questo diario per il periodo delle vacanze natalizie, fino a quando rientrerò da Galatina il 7 gennaio del prossimo anno. Allora dirò per sommi capi quello che è accaduto nel frattempo, almeno le cose più importanti. Questo diario è vincolato al paese di Dossena, dove ho cominciato a scriverlo, e continuerà a esserlo anche in futuro, per tutto l’anno scolastico.
(continua)