L’argomento merita un approfondimento, tenendo conto degli studi pubblicati sull’argomento negli ultimi anni. Le fonti più recenti e più accreditate alle quali si può fare riferimento sono il Rapporto sulle economie regionali del 2020 di Banca d’Italia (pp.43-45), una ricerca collettiva delle Università della Campania (Regionalismo differenziato: razionalizzazione o dissoluzione. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane. 2023) e uno studio dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano (OCPI, Autonomia differenziata e conti pubblici: qualche simulazione, scritto da Rossana Arcano, Alessio Capacci e Giampaolo Galli del 20 luglio 2024).
I principali problemi che derivano dalla quantificazione dei residui fiscali sono i seguenti.
a) Come messo in evidenza nello studio di Banca d’Italia, il calcolo dei residui fiscali “richiede cautela”, soprattutto in ragione del fatto che le stime variano in modo significativo a seconda della base dei dati utilizzata (Ragioneria generale dello Stato oppure Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici, oppure Conti pubblici territoriali).
b) La tesi dell’ingiustizia fiscale – che è alla base della rivendicazione autonomistica – potrebbe, al più, derivare dall’adozione implicita – niente affatto scontata – di un principio di giustizia distributiva di tipo meritocratico (è da ritenersi giusta una distribuzione del reddito basata sul contributo individuale alla produzione). Questo principio, tuttavia, ignora le diverse posizioni di partenza (il diverso grado di sviluppo è, in larga misura, ereditato dalla Storia dei singoli territori e non imputabile interamente agli attuali contribuenti) ed è in conflitto con il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale. In più, da questo principio deriva l’assegnazione dei residui fiscali ai territori non, come dovrebbe essere, ai singoli cittadini (la capacità contributiva, infatti, per definizione, è individuale).
c) È vero che i residui fiscali cosiddetti primari – ovvero al netto degli interessi sui titoli del debito pubblico – sono di segno positivo per tutte le Regioni del Centro-Nord e negativi per tutte le Regioni meridionali, ma ciò non è altro che l’ovvia manifestazione delle funzioni redistributive che l’operatore pubblico esercita su materie basilari (difesa, istruzione, sanità, scuola, giustizia) in un’economia dualistica. Ma, anche ammettendo questo, le enormi differenze quantitative e qualitative nell’accesso ai diritti di cittadinanza sono ben difficilmente imputabili interamente agli sprechi registrabili solo in quelle meno sviluppate. Per comprendere l’ordine di grandezza dei divari su questi aspetti, si può ricordare che, su fonte ISTAT, la spesa statale per i servizi socioeducativi destinati ai bambini pugliesi ammonta a circa un sesto rispetto a quella sostenuta per i coetanei nati in Emilia-Romagna. In Lombardia è circa tripla e in Veneto doppia. A Milano circa il 90% dei bambini può usufruire del tempo pieno a scuola, a fronte del solo 4% di Palermo. Il 17.1% delle scuole italiane del primo ciclo è privo di palestre e strutture sportive, con una percentuale che sale al 23.4% al Sud. In più, oltre a essere estremamente controversa l’ipotesi di una quantificazione oggettiva degli sprechi, la Storia italiana delle cosiddette spending review – che il Ministro Calderoli richiama come fonti di finanziamento dei LEP – ne certifica il sostanziale fallimento, a decorrere dal primo tentativo di attuarle, nell’ormai lontano 1981 (si veda: https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni…).
d) Più complicato è il calcolo dei residui fiscali definiti secondari, cioè quelli che includono gli interessi sul debito pubblico. Esiste, come è ovvio, asimmetria territoriale nella distribuzione dello stock di debito pubblico e degli interessi percepiti da individui residenti nelle diverse Regioni italiane: al crescere della ricchezza, crescono gli investimenti finanziari e i guadagni che ne derivano. I guadagni associati a questa tipologia di investimento dipendono dall’andamento dei tassi di interesse. È stato calcolato che i residui fiscali secondari sono la metà di quelli primari, a ragione del fatto che il flusso di interessi che arriva nelle Regioni più ricche si somma alla spesa pubblica che esse già ricevono.
La sola conclusione che è possibile far discendere da queste considerazioni rinvia alla confusione concettuale relativa sia alla necessità di selezionare criteri di giustizia distributiva unanimemente condivisi prima di poter quantificare i residui fiscali, sia alla fattibilità tecnica del loro calcolo. Da cui, contrariamente alla posizione governativa, discende l’inammissibilità di un calcolo puramente contabile – e, dunque, oggettivo e neutrale – delle differenze fra spesa pubblica ricevuta e tasse versate su base territoriale.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 agosto 2024]